Da Bruxelles a Khartoum: l’Unione Europea e le nuove politiche migratorie

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

(Il processo di Khartoum (ufficialmente EU-Horn of Africa Migration Route Initiative) è un accordo di cooperazione volontaria in tema di migrazione tra l’Unione europea, alcuni Paesi del Corno d’Africa (Eritrea, Somalia, Etiopia, Gibuti) e Paesi africani di transito (Sudan, Sud Sudan, Kenya, Egitto, Tunisia).

Lanciato dalla Prima Conferenza Interministeriale del Processo di Khartoum, tenutasi a Roma, il processo si propone di avviare una gestione condivisa del fenomeno migratorio, sulla base di due presupposti: la necessità di ridurre i flussi migratori verso l’Unione Europea e il nesso migrazione-sviluppo. Di conseguenza, le misure proposte dalla dichiarazione seguono due direttive: la prima incentrata su sicurezza, controllo delle frontiere e rafforzamento dei corpi di polizia; la seconda comprende progetti di sviluppo volti a eliminare i push factors, ossia i fattori che spingono gli individui a lasciare il proprio Paese.

L’ultimo punto menzionato è di particolare interesse. Per i Paesi che ne fanno richiesta, l’Unione si offre di collaborare nell’apertura e nella gestione di centri d’accoglienza che dovranno garantire l’accesso alla procedura d’asilo e svolgere funzioni di monitoraggio dei flussi migratori.

Il contesto politico

L’iniziativa s’inquadra nella Comunicazione della Commissione Europea “L’approccio globale in materia di migrazione e mobilità”, pubblicata nel 2011, che mira a istituire “un quadro completo di gestione della migrazione e della mobilità con i Paesi partner coerente e vantaggiosa per entrambe le parti”, sulla base di “dialoghi su migrazione e mobilità” a livello continentale, regionale, nazionale e locale con i Paesi terzi. L’approccio globale, secondo le raccomandazioni della Commissione, dovrebbe basarsi su quattro pilastri:

  • Organizzazione e agevolazione della migrazione legale e della mobilità;
  • Prevenzione e riduzione della migrazione irregolare e della tratta degli esseri umani;
  • Promozione della protezione internazionale e rafforzamento della dimensione esterna della politica di asilo;
  • Aumento dell’incidenza della migrazione e della mobilità sullo sviluppo.

La Commissione specifica che la strategia pone al centro il migrante, ossia “non deve occuparsi di ‘flussi’ ‘stock’ e ‘rotte migratorie’, ma di persone”.

Su questi presupposti si orientano alcune iniziative regionali – il processo di Rabat, attivo dal 2006, e il già citato processo di Khartoum, attivi rispettivamente sulle rotte occidentale e orientale – e il Dialogo su migrazione e mobilità con l’Unione Africana, iniziato con il quarto vertice UE-Africa nel 2014.

Nel 2015, i capi di Stato e di governo europei e africani hanno adottato la dichiarazione della Valletta, confermando il loro impegno a elaborare una strategia congiunta sulla migrazione, e un piano d’azione. In questa occasione, la Commissione ha lanciato il Fondo fiduciario dell’Unione Europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa.

Il contesto politico

Sebbene stia ancora muovendo i suoi primi passi, il processo di Khartoum è un chiaro esempio di strategia di esternalizzazione delle politiche migratorie da parte dell’Unione Europea. L’approccio, lanciato nei primi anni Duemila, consiste nell’esportazione delle politiche migratorie europee, coinvolgendo Stati terzi nel controllo dei confini, nella lotta all’immigrazione irregolare e nella gestione dei flussi. In cambio, l’UE offre aiuti economici, supporto alle politiche di sviluppo, cooperazione economica e commerciale. Questa pratica consente all’UE di spostare i suoi confini verso sud, demandando ad altri la gestione dei migranti prima che questi raggiungano le sue frontiere. Una sorta di Fortress Europe 2.0.

È peraltro interessante ricordare che il processo di Khartoum è stato lanciato dall’Italia durante il suo semestre di presidenza del Consiglio UE. Alcuni osservatori ascrivono l’accordo al tentativo dell’UE di ridefinire le sue politiche migratorie in seguito alle primavere arabe e al crollo della Libia; in particolare, questi accordi regionali seguirebbero proprio un “modello Libia”, il sistema di accordi sulla migrazione pre-2011 tra l’Italia e il regime di Gheddafi. Alcune analogie, come il sostegno economico e i tristemente famosi “centri d’accoglienza”, sono citati per avvalorare questa ipotesi. Un modello ancora oggi controverso e soggetto a numerose critiche per le sue ricadute sui diritti umani fondamentali e l’accesso alla protezione internazionale.

Le risorse

Prima di fornire una valutazione complessiva sul progetto, è interessante capire se le sue promesse siano state mantenute. Come sono stanziati i finanziamenti del Fondo fiduciario, principale strumento finanziario del progetto? Dei due capitoli fondamentali – Irregular migration and forced displacement e Peacebuilding and conflict prevention –, presentati in un paper della Commissione nell’aprile 2016, è il primo a interessarci (386 milioni di dollari, 64% del budget).

 

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La ripartizione dell’EU Emergency Trust Fund for Africa. (Dati: Commissione europea)

 

Nonostante la retorica di promozione dello sviluppo come strategia principale per ridurre i push factors, i due terzi dei fondi (283,5 milioni di euro) sono investiti in progetti di prevenzione dei flussi, riammissione e “dialoghi sulla migrazione” (riforma del quadro legislativo, controllo delle frontiere, cooperazione regionale). Solo il 24% dei fondi, pari a 92 milioni di euro, è stato investito in progetti di sviluppo per rifugiati e comunità locali. Un residuo 3% è dedicato a progetti di migrazione legale, di dimensione prevalentemente intra-regionale. Sembra quindi che, sulla bilancia di Bruxelles, l’obiettivo sicurezza abbia un peso maggiore dell’obiettivo sviluppo.

Un accordo controverso

Le considerazioni precedenti mettono in luce alcuni punti critici. In primo luogo, promettere aiuti allo sviluppo in cambio di cooperazione nella gestione delle migrazioni può avere delle conseguenze impreviste. All’interno dell’accordo, vi sono delle clausole sul rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto; tuttavia, se i Paesi terzi diventano partner strategici essenziali, qual è l’influenza effettiva dell’Unione Europea? In altre parole, la capacità di Bruxelles di usare gli strumenti economici come “carota” per persuadere i Paesi partner a rispettare le regole viene radicalmente ridotta dalla sua dipendenza nei loro confronti.

 

 

Sorgono molti dubbi sulla compatibilità tra un approccio che pone al centro il migrante come persona e la situazione in alcuni dei Paesi coinvolti. Il problema è di non poco conto: l’UE auspica il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto da parte dei governi partner, ma allo stesso tempo non può prescindere dalla collaborazione di questi governi, che in alcuni casi – come Sudan o Eritrea – non vantano un curriculum esemplare nei diritti umani, mentre in altri – come la Somalia – faticano a esistere.

Un ultimo punto da affrontare è quello relativo ai centri d’accoglienza. Come i recenti reportage sulla Libia dimostrano, le condizioni di vita all’interno di questi spazi sono ben al di sotto degli standard minimi di sopravvivenza. Senza un adeguato monitoraggio, il “modello Libia” a firma UE potrebbe essere replicato nei suoi aspetti più controversi nei Paesi del Corno d’Africa.

Quale strategia?

Il processo di Khartoum, insieme alle iniziative coordinate, rafforza la linea d’azione di Bruxelles, volta a esternalizzare il fenomeno migratorio e ad allontanarlo dai suoi confini. Nonostante i documenti ufficiali enfatizzino il nesso migrazione-sviluppo, questo aspetto sembra quanto mai carente nella realizzazione pratica, mentre il controllo appare la preoccupazione primaria. Un altro caso, insomma, in cui l’Unione cerca di proporsi come modello di cooperazione e partner di sviluppo, ma resta intrappolata nella tensione permanente tra ideali e interessi effettivi, democrazia e stabilità. Dopo il crollo del “modello Libia” nel 2011, è forse il momento di percorrere strade diverse?

 

 

Fonti e Approfondimenti

Declaration of the Ministerial Conference on the Khartoum Process”, Roma, 28 novembre 2014.

Commissione Europea, “Actions in support of tackling irregular migration and forced displacement in the Horn of Africa within the EU Emergency Trust Fund”.

Commissione Europea, “Comunicazione della Commissione al Parlamento Europe, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni. L’approccio globale in materia di migrazione e mobilità”, Bruxelles, 18/11/2011, COM(2011) 743 definitivo.

Commissione Europea, “Il Presidente Juncker lancia il Fondo fiduciario di emergenza dell’Unione europea per la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare in Africa”, La Valletta, 12 novembre 2015, IP/15/6055.

Commissione Europea, “Migrazione: la cooperazione dell’Unione Europea con l’Africa”, Bruxelles, 9 novembre 2015, MEMO/15/6026.

Commissione Europea-DEVCO, “EU Emergency Trust Fund for Africa. Horn of Africa Window”.

Consiglio Europeo, “Valletta summit on migration – action plan and political declaration”, La Valletta, 11-12 novembre 2015.

Giordani, Giorgia, “Il ruolo del Marocco nel Mediterraneo: l’esternalizzazione delle frontiere europee e la gestione dei flussi migratori”, tesi di laurea magistrale discussa nel CdLM in Relazioni Internazionali Comparate, Università Ca’ Foscari, Venezia, A.A. 2013/2014.

Morone, Antonio, Il processo di Khartoum: l’Italia e l’Europa contro le migrazioni, Analysis no. 286, ISPI, giugno 2015.

Martín, Iván e Bonfanti, Sara, Migration and Asylum Challenges in Eastenr Africa: Mixed Migration Flows Require Dual Policy Approaches, Policy Brief 2015/04, EUI, Migration Policy Centre, 2015.

Stern, Maximilian, The Khartoum Process: Critical Assessment and Policy Recommendations, IAI Working Paper no. 15/49, Roma, IAI, dicembre 2015.

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