Mentre in Libano si chiudono le urne, in Iraq si consumano gli ultimi giorni di campagna elettorale in vista delle parlamentari del 12 maggio. Con circa 7000 candidati e 27 coalizioni, questa tornata elettorale rispecchia le profonde spaccature che dividono il Paese. All’indomani della sconfitta dell’Isis, gli imperativi che attendono la prossima classe dirigente sono la ricostruzione del Paese, il ritorno di circa 3 milioni di sfollati e la riforma di un sistema politico corrotto che negli ultimi anni ha visto aumentare la povertà e sgretolarsi lo stato dei servizi sociali.
Un tratto caratteristico dell’Iraq post 2003 è stato il consolidamento di politiche etniche e settarie. Nonostante un sistema di quote su base confessionale ed etnica simile a quello libanese non sia esplicitamente previsto dalla Costituzione, in pratica si è venuta a creare una divisione dei ruoli tra le tre principali comunità nel Paese: primo ministro sciita, presidente curdo e presidente del Parlamento sunnita.
Sebbene difficilmente queste elezioni determineranno una sovversione dello status quo, è anche vero che negli ultimi anni il malcontento popolare nei confronti dell’inefficienza del sistema etnico – settario e gli appelli ad un nazionalismo iracheno si sono fatti sempre più vocali. Inoltre, tensioni di natura economica, la competizione regionale per le risorse del Paese e influenze esterne hanno creato crepe all’interno delle diverse compagini che si sono riflesse nelle coalizioni candidate al voto.
La componente sciita
Rispetto al 2005 quando i diversi partiti sciiti avevano partecipato alla competizione come un fronte unito, oggi almeno cinque fazioni si contenderanno la premiership. Rimane cruciale la competizione tra l’attuale PM Haider al-Abadi e l’ex PM Nouri al- Maliki. Al-Abadi è stato eletto nel 2014: l’occupazione di Mosul da parte dello Stato Islamico aveva danneggiato la credibilità di al-Maliki al punto da costringerlo ad abbandonare la carica. Negli scorsi anni il rapporto tra i due è diventato esplicitamente ostile con al-Abadi che ha accusato ripetutamente al-Maliki di aver condotto il Paese sull’orlo del baratro e al-Maliki che ha continuato a rimarcare la debolezza di al-Abadi.
Entrambi fanno parte del partito al-Dawa, partito principale della State of Law Coalition, che aveva vinto la maggioranza dei voti nelle elezioni del 2014. Data la controversa posizione dei due leader, il partito ha deciso di non candidarsi: al-Abadi ha registrato la coalizione al-Nasr (Vittoria) mentre al – Maliki è rimasto con la SLC. E’ probabile che al-Abadi beneficerà della vittoria sullo Stato Islamico e della narrativa nazionalista e intersettaria che ha caratterizzato la sua campagna ponendolo in contrapposizione con il messaggio di rafforzamento del potere sciita lanciato dalla SLC.
La terza fazione, l’Alleanza al-Fatah (conquista) è guidata da Hadi al-Ameri e include ex membri delle milizie sciite, Popular Mobilization Forces (PMF), che hanno combattuto contro lo Stato Islamico. Si tratti di gruppi paramilitari indipendenti dallo Stato che hanno sopperito alla debolezza dell’esercito nazionale. Al loro interno, le truppe sono principalmente divise sulla base della lealtà nei confronti di al-Maliki, al-Sistani – Grande Ayatollah in Iraq – e Moqtada al-Sadr. I circa 500 candidati che si sono registrati per le elezioni sono allineati con al-Maliki e filoiraniani. Il risultato di questo gruppo nelle elezioni sarà cruciale per determinare il futuro delle PMF.
Infine Ammar al-Hakim guiderà il Movimento Hikma, nato nel 2017 dopo la separazione dall’Islam Supreme Council of Iraq.
La strana coppia: Sadr e il partito comunista iracheno
Uno degli aspetti inediti di queste elezioni è la coalizione tra il movimento islamista di ispirazione sciita guidato dal clerico Moqtada al-Sadr e il partito comunista iracheno essenzialmente secolare nella coalizione Sa’iroun (In marcia). Al-Sadr ha fondato il movimento sadrista dopo il 2003 consolidando il consenso già raccolto dal padre negli anni ’90 tra le fasce più povere della popolazione sciita e opponendosi, anche in maniera violenta, all’occupazione americana. D’altra parte il partito comunista iracheno che, tra gli anni ’50 e ’60, aveva rappresentato il partito comunista più grande della regione, è stato represso negli anni ’70 sotto il regime Baath e ha poi fortemente criticato l’invasione statunitense. Nonostante non goda più della passata gloria, il partito ha riguadagnato terreno dopo la caduta di Saddam Hussein e rimane un punto di riferimento importante per la classe media.
I due movimenti sono uniti dall’antagonismo nei confronti dell’elite sciita e dell’ex PM in particolare e dall’avversione verso l’interferenza iraniana negli affari nazionali; anche se in passato al-Sadr aveva beneficiato del supporto iraniano. La propaganda elettorale della coalizione è stata costruita sulla necessità di ribaltare il sistema politico esistente in favore di un ordine che trascenda le divisioni etniche e settarie e sia basato su un Iraq unito e in grado di rivivificare uno stato sociale che languisce e marginalizza un numero sempre più elevato di iracheni. In particolare, al-Sadr ha preso parte assieme al partito comunista e alle organizzazioni della società civile alle proteste che, dal 2015, agitano l’Iraq chiedendo la fine della corruzione e l’inizio di un periodo di riforme.
La componente curda
I partiti cardine del governo regionale curdo, il Kurdistan Democratic Party (KDP) e il Patriotic Union of Kurdistan (PUK), sono stati danneggiati dal disastroso risultato del referendum dello scorso settembre e soprattutto dal ritorno della zona di Kirkuk – ricca di petrolio – e di altre aree contese nelle mani del governo centrale. L’insofferenza popolare, aggravata dal debito pubblico e da continui tagli ai salari, si è manifestata in proteste a Sulaimaniya, Erbil e Dohuk. Come nel resto del Paese, la credibilità dell’elite politica è stata logorata da continui episodi di corruzione e nepotismo.
Questo stato delle cose potrebbe avvantaggiare altri partiti politici come il partito Gorran, staccatosi dal PUK nel 2009, che correrà con altri due partiti di opposizione, Coalition for democracy and Justice e il Kurdistan Islamic Group all’interno della coalizione Nishtiman (Homeland). Per quanto il principale obiettivo rimanga la protezione della costituente curda e dei suoi interessi, rispetto alla retorica fortemente settaria e indipendentista del PUK e del KDP, questi partiti stanno sponsorizzando un approccio più collaborazionista verso Baghdad.
La componente sunnita
Per quanto concerne i sunniti il blocco principale è al-Mutahidoon (Uniti), che aveva insistito per posticipare le elezioni e permettere agli sfollati interni, per lo più sunniti, di rientrare. La richiesta tuttavia è stata bocciata dalla Corte Suprema irachena considerando che le elezioni erano già state posticipate nel settembre 2017 per via della battaglia contro l’ISIS.
Il volto femminile delle elezioni
Infine sono circa 2600 le candidate per il 25% dei seggi destinati dalla Costituzione alle donne. L’intento è quello di ritagliare spazi più ampi per la componente femminile la cui situazione è andata deteriorandosi con la diffusione dell’estremismo islamico e il rafforzamento delle istituzioni religiose del Paese. Durante la stessa campagna elettorale non sono mancati episodi di molestie, diffamazione e bullismo online, che hanno reso evidente la necessità di rendere le donne parte del processo di ricostruzione e transizione democratica.
Fonti e Approfondimenti:
http://www.middleeasteye.net/columns/fractured-nature-iraqi-shi-political-elite-61810208
https://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2018-year-change-iraq-171228090329996.html
https://carnegieendowment.org/sada/76195
http://www.middleeasteye.net/news/sadr-communists-1162425769
https://carnegieendowment.org/2018/05/03/iraq-s-new-statesman-pub-76244
Fai clic per accedere a CMEC_63_Mansour_PMF_Final_Web.pdf