I risultati preliminari delle elezioni parlamentari di sabato hanno sconcertato quanti pensavano che le urne avrebbero lasciato lo status quo inalterato e favorito l’attuale PM, Haider al- Abadi. Con circa 90% dei voti contati, la coalizione al-Sa’iroun capeggiata dal clerico sciita Moqtada al- Sadr sarebbe arrivata prima in almeno 6 delle 18 province irachene, tra cui Baghdad. Al- Nasr invece si sarebbe posizionata addirittura terza, in coda all’ex comandante militare sciita Hadi al -Amiri, capolista di al – Fatah.
Le elezioni si sono svolte per la maggior parte senza violenze e irregolarità, fatta eccezione per la regione del Kurdistan. Qui infatti il KDP sembrava aver vinto nelle province di Dohuk ed Erbil e il PUK a Kirkuk e Sulaymaniyah ma i partiti di opposizione Gorran e New Generation hanno chiesto di ricontare i voti denunciando episodi di intimidazione e mancanza di trasparenza all’interno dei seggi.
I giochi rimangono comunque aperti: dato che nessuna coalizione sarà titolare della maggioranza assoluta in Parlamento, ciò che succederà a conteggio ultimato sarà che il Parlamento designerà entro 15 giorni un nuovo Presidente che assegnerà al partito con il maggior numero di seggi il compito di formare un governo di coalizione in grado di eleggere il prossimo PM entro 30 giorni. Dunque, visto che al-Sadr non è in lizza per la premiership, al-Abadi potrebbe negoziare un’intesa con al-Sa’iroun e partiti minori per cercare la rielezione.
Tuttavia la bassa affluenza alle urne, un mero 44% rispetto al picco del 70% toccato nel 2005, dovrebbe allarmare i veterani della politica irachena che, a 15 anni dalla fine dell’occupazione americana, continuano a palleggiarsi le cariche governative. Sebbene l’establishment abbia vagheggiato giustificazioni quali l’aumento delle misure di sicurezza e problemi logistici legati all’introduzione di un nuovo sistema di voto elettronico, la spiegazione più plausibile, anche stando alle affermazioni degli elettori intervistati, sarebbe che una parte della costituente si è trattenuta dal votare o per mancanza di fiducia in un sistema che avrebbe premiato in ogni caso i soliti nomi o volendo espressamente boicottare le elezioni in protesta alla persistente corruzione del governo. Lo stesso al- Sistani, Grande Ayatollah e una delle voci più influenti nel Paese, aveva spronato i fedeli a non votare chi dei vecchi politici si era già dimostrato deludente.
D’altra parte, al- Sadr è stato premiato da una base che, prima ereditata dal padre, è stata poi espansa e solidificata negli anni successivi e, soprattutto, dalla capacità dello stesso leader di mutare pelle a seconda delle cangianti dinamiche politiche. Da radicale a centrista nel giro di pochi anni, al – Sadr era emerso nel 2003 come un fervente oppositore dell’occupazione statunitense contro la quale aveva mobilitato la milizia Jeish al-Mahdi. Quando tra il 2006 e il 2007, le truppe di al – Mahdi vennero condannate a livello nazionale e internazionale per la violenza contro la comunità sunnita, al-Sadr decise di scioglierle e rinnegare pubblicamente l’utilizzo della violenza a favore di una retorica moderata e nazionalista, fortemente critica delle interferenze esterne negli affari interni del Paese e dell’incompetenza del governo. La milizia è stata poi riesumata nel 2014 con il nome di Peace Brigades per contrastare l’ascesa dell’ISIS.
Il cuore della campagna di al-Sadr è stata la formazione di un governo centrale forte e unito dal comune interesse nazionale da cui derivare ministeri tecnici e competenti, diversi dagli attuali uffici riempiti su base etnica e settaria. L’agenda è la stessa che era emersa nel corso delle proteste che il leader sciita aveva sponsorizzato dal 2016 assieme al partito comunista e a diversi esponenti della società civile secolare. Per di più, la retorica si è accompagnata alla pratica con una serie di azioni-simbolo come il divieto per 34 parlamentari del partito di ricandidarsi a causa delle accuse di corruzione. E forse la prova più tangibile del supporto popolare per al-Sadr arriva proprio all’indomani del voto quando per le strade di al-Sadr City, roccaforte del clerico e periferia povera di Baghdad, riecheggiano i fuochi d’artificio e gli slogan della folla in festa.
Secondo beneficiario di questa tornata elettorale è Hadi al-Amiri, capo dell’Organizzazione Badr che, dal 2014 è diventata la milizia di punta delle PMU nella lotta all’ISIS. Al-Amiri ha cavalcato l’onda della popolarità acquisita nei mesi di resistenza allo Stato Islamico, tema portante durante la campagna, e della retorica nazionalista. Ha quindi difeso l’idea di un governo centralizzato in grado di far fronte al “triangolo della morte”, come ha definito la triade settarismo, terrorismo e corruzione. Il nodo principale dell’influenza di al-Amiri in Parlamento rimarrà la gestione dei rapporti tra le PMU e lo Stato: legalizzate da al-Maliki, nonostante la presenza di corpi paramilitari sia proibita dalla Costituzione, le PMU hanno costituito un corpo indipendente dall’esercito nazionale e alle dirette dipendenze del Primo Ministro fino al 2016, quando Abadi a fatica è riuscito a far passare un decreto che sancisse la subordinazione delle milizie al comando militare nazionale. Le PMU rimangono ben viste dalla maggior parte della popolazione sciita pur essendo state a più riprese il bersaglio di denunce per violazione dei diritti umani e aver agito spesso in contraddizione con la linea politica centrale come nel caso dell’intervento in Siria. Inoltre la frammentazione interna e la lealtà nei confronti di leader diversi le rende, oltre che difficilmente controllabili, un freno alla creazione di una piattaforma nazionale e post-settaria nel Paese.
Ad aspettare con trepidazione i risultati del voto non sono stati solo i cittadini iracheni ma anche quelle che rimangono due ingombranti presenze in Iraq: Iran e Stati Uniti. Tanto più che l’annuncio del dietro-front della Casa Bianca dall’accordo sul nucleare e l’escalation delle schermaglie militari tra Iran e Israele in Siria hanno contribuito ad aumentare la tensione. L’Iraq rimane un tassello fondamentale per gli Stati Uniti che, nonostante il ritiro del grosso delle truppe nel 2011, mantengono compartimenti nel Paese e per l’Iran che, crollato il governo di Saddam Hussein, ha visto la possibilità di chiudere la ‘mezzaluna sciita’ che passa per Libano, Siria e Iraq. Inoltre l’Iran ha attivamente interferito con i processi politici del Paese nel post – elezioni del 2010 e del 2014 e ci si aspetta agisca anche nel contesto dei prossimi negoziati politici.
Gli Stati Uniti vedevano in al-Abadi il candidato ideale mentre Hadi al-Amiri rimane “l’uomo di Tehran”. Basti pensare che l’Organizzazione Badr nasce nel 1980 per supportare l’Iran contro l’Iraq e che i suoi soldati sono finanziati e addestrati dall’Iran ancora oggi. In campagna elettorale al- Amiri ha veementemente negato di ricevere qualunque supporto finanziario dall’Iran, ipotesi che appare poco credibile. Al-Sadr invece si è posto nel mezzo dal momento che ha criticato sia gli Stati Uniti che l’Iran sottolineando la necessità per l’Iraq di riappropriarsi della propria sovranità. E’ anzi peculiare che il clerico sciita abbia cercato contatti con gli Emirati e l’Arabia Saudita contribuendo al disgelo nei rapporti con i paesi del Golfo che già al-Abadi aveva avviato.
Sarà cruciale dunque gestire al meglio la fase che inizia adesso e specialmente evitare il pantano politico che aveva bloccato l’Iraq nel 2010 dal momento che chiunque guiderà il prossimo governo dovrà farsi carico di ricostruire il Paese dopo tre anni di guerra e attirare investimenti e donazioni che possano far fronte ai circa 100 milioni di dollari necessari secondo le stime a rimettere in piedi il Paese.
Fonti e Approfondimenti:
http://time.com/5275869/moqtada-al-sadr-iraq-elections/
https://www.al-monitor.com/pulse/originals/2018/02/kuwait-iraq-reconstruction-investment.html