Tutto da rifare per la Brexit? Sembra essere questo il segnale delle ultime settimane, proprio quando la conclusione dell’accordo sembrava a portata di mano. L’11 dicembre, il Parlamento britannico avrebbe dovuto votare sull’accordo sul “divorzio”, faticosamente raggiunto dopo mesi di trattative tra Londra e Bruxelles. Con l’avvicinarsi della seduta, tuttavia, appariva evidente che il governo non aveva i numeri necessari.
Dopo aver ripetutamente negato l’eventualità, Theresa May ha rimandato il voto a gennaio, attirandosi le ire della Camera dei Comuni. Oltre all’accordo in sé, a essere criticata è stata anche la pratica d’ignorare la voce del Parlamento, stavolta impedendo all’assemblea di deliberare. Non solo: la minaccia della leadership challenge (una sorta di mozione di sfiducia interna al partito), ventilata per settimane, si è finalmente concretizzata la sera dell’11.
Subito dopo la riconferma, May è volata a Bruxelles per il Consiglio Europeo, sperando di ottenere le concessioni necessarie a recuperare il consenso e a rassicurare l’Irlanda del Nord. Una speranza vana, perché i 27 hanno mantenuto una linea intransigente e si sono rifiutati di apportare modifiche all’accordo. Il Consiglio non ha escluso aperture sulla dichiarazione politica; ha però ribadito che il testo sul tavolo è il migliore possibile, schierandosi dalla parte dell’Irlanda, assolutamente contraria a modificare il backstop.
Ancora una volta, la sopravvivenza del governo May sembra appesa a un filo. Quali saranno le sue prossime mosse?
La leadership challenge
Per capire la posizione politica di Theresa May, è necessario entrare nel dettaglio della leadership challenge. Si tratta una procedura interna al partito conservatore: è un vero e proprio voto di fiducia sul leader del partito, che avviene quando almeno il 15% dei parlamentari conservatori (in questo caso 48) ne fa richiesta al presidente del cosiddetto 1922 committee.
Quando la soglia viene raggiunta, il presidente convoca i parlamentari, che si esprimono con voto segreto. Se la maggioranza del gruppo vota contro il capo del partito, ha inizio una competizione interna per eleggere il successore; se invece il leader vince, il partito non può sfiduciarlo per un anno. Questa procedura, va notato, è distinta dalla sfiducia al governo, che rimane in carica. Tuttavia, poiché nel Regno Unito il Primo Ministro è anche il capo del partito, una sconfitta comporta le sue dimissioni e la formazione di un esecutivo presieduto dal nuovo leader.
Gli hard Brexiteers, come Jacob Rees-Mogg e Boris Johnson, minacciavano quest’azione da settimane, ma solo la settimana scorsa hanno raggiunto i numeri necessari. Non abbastanza, tuttavia, per rovesciare Theresa May, che si è riconfermata alla testa del partito con 200 voti contro 117. Il significato del voto, tuttavia, va al di là di questi numeri. In altri termini, più di un terzo dei parlamentari non ha fiducia in lei come leader dei Tories. È anche un segnale molto chiaro sull’esito del voto sull’accordo con l’UE: il governo, complice l’opposizione degli unionisti del DUP, non dispone dei numeri per farlo approvare.
La controversia ha indebolito il primo ministro, fornendo una misura pubblica e tangibile dell’opposizione interna. Non a caso, infatti, May si è impegnata a dimettersi prima della fine del mandato e a non correre alle elezioni del 2022. Presumibilmente intende rimanere in carica per il periodo necessario a gestire la Brexit e ad assicurare una transizione ordinata, mantenendo continuità politica.
Un governo diviso
Lo stesso governo inizia a mostrare delle spaccature evidenti. Anche se i ministri hanno pubblicamente sostenuto May, diversi si dicono insoddisfatti dell’accordo negoziato con Bruxelles; altri sono preoccupati della possibilità di uscire senza un accordo e sono alla ricerca di alternative.
Amber Rudd, segretaria per Lavoro e Pensioni, è stata la prima a suggerire pubblicamente un piano B, la cosiddetta “opzione Norvegia plus”. In base a questo piano, il Regno Unito entrerebbe a far parte dell’AELS (Associazione Europea di Libero Scambio; EFTA in inglese) e rimarrebbe temporaneamente nell’unione doganale, in attesa di un accordo permanente che risolva la questione irlandese. L’idea, oltre a incontrare l’opposizione degli anti-UE, ha lasciato perplessi gli stati membri dell’EFTA. Heidi Nordby Lunde, parlamentare norvegese, si è pubblicamente opposta al piano, che a suo parere non rientra negli interessi dell’AELS, né di quelli del Regno Unito. Inoltre, per Londra, far parte dell’AELS e dello Spazio Economico Europeo (SEE) significherebbe accettare le quattro libertà e adeguarsi alla legislazione comunitaria, senza recuperare quella sovranità nazionale tanto agognata.
Con Theresa May in apparente declino, alleati e avversari iniziano a farsi avanti per la successione, a partire da uno dei suoi “fedelissimi”, il segretario agli affari esteri Jeremy Hunt. In un clima simile, non è chiaro per quanto tempo il primo ministro riuscirà a rimanere in carica, né se avrà mai il supporto necessario per far approvare l’accordo. Questo, oltretutto, sarebbe solo il primo passo: occorrerebbe approvare la legislazione interna necessaria, il tutto entro il 29 marzo 2019.
Cosa accadrà a gennaio?
Il 29 marzo è sempre più vicino e l’eventualità che le due parti non riescano a concludere un accordo sembra pericolosamente concreta; per questo, entrambe le parti si stanno preparando a fronteggiare le conseguenze peggiori.
Nel Regno Unito, il consiglio dei ministri del 18 dicembre ha dato avvio alle preparazioni su larga scala per contenere l’impatto economico e sociale di un’uscita dall’UE senza accordo e senza periodo di transizione. L’esecutivo ha invitato le associazioni degli imprenditori ad adottare piani d’emergenza e sta rilasciando maggiori informazioni per i cittadini. Il consiglio ha inoltre approvato la spesa di 2 miliardi di sterline, che agenzie e dipartimenti ministeriali useranno per prepararsi al no deal.
Anche se il governo sembra muoversi nella direzione di un “managed no deal” (in altre parole l’opzione WTO), si tratta di una misura di tutela e non di una scelta politica. La maggioranza, nel governo come in Parlamento, sembra concordare sul punto: evitare una hard Brexit a tutti i costi. Il problema è che il tempo sta per scadere. In questa situazione, è possibile che gli equilibri in Parlamento – e nell’elettorato – cambino a favore di un secondo referendum o di una sospensione dell’articolo 50, che si tradurrebbe in un posticipo della Brexit. La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’UE ha stabilito che il Regno Unito può revocare unilateralmente l’articolo 50 e rimanere nell’Unione.
Annullare la Brexit, se pur legalmente fattibile, appare politicamente impraticabile. Il people’s vote, ossia il secondo referendum, è anch’esso problematico. Nel 2016, il 52% dei votanti scelse la Brexit; due anni dopo, il Paese è ancora spaccato a metà, stando ai sondaggi. Qualsiasi esito sarebbe duramente contestato dagli sconfitti, proprio come sta accadendo ora. Theresa May ha sempre escluso l’eventualità di un secondo referendum, minacciando il no deal o l’annullamento della Brexit in caso di sconfitta in Parlamento. La sua strategia è convincere i moderati che la sua è la proposta più sensata e realistica, sfruttando il poco tempo a disposizione come strumento di pressione.
Il voto sull’accordo, stando alle dichiarazioni del governo, si terrà nella settimana del 14 gennaio. Fino ad allora, May e i suoi ministri lavoreranno per ottenere i numeri in Parlamento e ricostruire l’alleanza con il DUP, ottenendo maggiori rassicurazioni da Bruxelles sulla questione irlandese.
Qualora il testo fosse respinto, il governo deve ripresentarsi in Parlamento entro 21 giorni con una nuova mozione. In questo caso, la Camera dei Comuni, grazie all’emendamento Grieve, avrà il diritto di stabilire la linea futura, votando modifiche a questa seconda mozione. In quest’eventualità, l’esito potrebbe essere sorprendente e dipenderebbe in larga misura dalle strategie delle varie fazioni parlamentari. Dopo una battaglia referendaria combattuta per “riprendere il controllo” e due anni di trattative, il Parlamento britannico potrebbe avere le armi per riprendere il controllo sul governo e riscrivere la storia della Brexit.
Fonti e approfondimenti
BBC, “Reality Check: What is the government spending on Brexit preparations?”, 18/12/2018
BBC, “Brexit: EU reveals no-deal plans”, 19/12/2018
BBC, “Brexit: ‘Horrified’ firms warn time is running out”, 19/12/2018
Belfast Telegraph, “Full text of PM Theresa May’s speech after leadership challenge triggered”, 12/12/2018
Bloomberg, “Cabinet Spars Over No-Deal as Plans Stepped Up: Brexit Update”, 18/12/2018
Business Insider, “Theresa May’s government triggers all no-deal Brexit plans”, 18/12/2018
Commissione europea – Comunicato stampa “Brexit: la Commissione europea attua, in settori specifici, il piano di emergenza in caso di uscita “senza accordo””, 19/12/2018
Financial Times, “A leadership challenge against Theresa May is a high-risk strategy”, 12/12/2018
Financial Times, “British business slams government plans for no-deal Brexit”, 19/12/2018
Financial Times, “May survives not beaten but bloodied from leadership vote”, 13/12/2018
Il governo britannico annuncia finanziamenti per 2 miliardi di sterline ai dipartimenti ministeriali, in vista della Brexit (18/12/2018)
Governo britannico, “Settled and pre-settled status for EU citizens and their families“
The Guardian, “The last-minute pledges and promises that helped May survive leadership challenge”, 12/12/2018
The Guardian, “Theresa May defeats Tory coup over Brexit deal but is left damaged”, 13/12/2018
The Guardian, “Brexit deal hinges on final bid to win over DUP, say senior Tories”, 18/12/2018
The Guardian, “Business ‘watching in horror’ as PM plans for no-deal Brexit”, 19/12/2018