Is there life after Brexit? Il “modello Norvegia”

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Nello spettro dei mondi possibili in un futuro post-Brexit, il cosiddetto “modello Norvegia” prospetta una soft Brexit: un accordo che preserva gran parte dei legami esistenti tra UE e Regno Unito, favorito dai rassegnati del Remain e dai più moderati tra i sostenitori del Leave.

Da dove deriva l’idea di un “modello Norvegia”? La Norvegia, insieme a Islanda e Liechtenstein, fa parte dello Spazio Economico Europeo (SEE), un accordo di libero scambio concluso nel 1994 tra l’Unione e l’Area Europea di Libero Scambio (AELS), esclusa la Svizzera.

L’obiettivo del SEE è “promuovere il rafforzamento costante ed equilibrato delle relazioni commerciali ed economiche” consentendo ai firmatari di partecipare al mercato comune. Una soluzione del genere è, allo stato attuale, la più vicina al livello di accesso di cui il Regno Unito gode attualmente; tuttavia, l’opzione non è per nulla gradita dai “falchi” della Brexit. Quali condizioni prevede? Quali sono i pro e i contro?

 

Un mercato quasi comune

I paesi del SEE hanno accesso quasi totale al mercato comune europeo, comprensivo delle quattro libertà (libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali). A differenza dell’Unione, tuttavia, il SEE è un’area di libero scambio, non un’unione doganale: ciò significa che Norvegia, Liechtenstein e Islanda non adottano la Tariffa Esterna Comune (TEC) e possono negoziare autonomamente accordi economici e commerciali con Paesi e organizzazioni terze.

Ciò rappresenterebbe indubbiamente un vantaggio per il Regno Unito, che ha spesso avversato le posizioni rigide e protezioniste di Bruxelles e recupererebbe così parte della sovranità ceduta con l’ingresso nell’Unione. Bisogna però considerare che il suo potere contrattuale sarebbe sicuramente minore: difficilmente, dunque, potrebbe concludere accordi vantaggiosi quanto quelli di cui è attualmente parte.

L’area di libero scambio, peraltro, non è illimitata come potrebbe apparire. In primo luogo, sussistono limitazioni sul commercio di prodotti agricoli e pesca, che è regolato tramite specifici accordi bilaterali. Inoltre, sorgerebbe il problema delle cosiddette barriere non tariffarie: con questa espressione si indicano tutti gli ostacoli al commercio di natura regolamentare, quali standard di sicurezza, norme d’origine o etichettature.

Tra gli Stati membri dell’Unione, oltre alle regole comuni e di armonizzazione, vige il principio del mutuo riconoscimento: le regole e gli standard del Paese d’esportazione sono considerate equivalenti a quelle dello Stato d’importazione. Questo principio non è però applicato nel SEE: sebbene gran parte delle regole sia armonizzata con l’Unione, gli esportatori devono ugualmente rispettare le norme d’origine per beneficiare dell’esenzione tariffaria. Questi controlli, anche se ridotti e in gran parte informatizzati, rappresentano comunque un costo economico e amministrativo per le imprese.

 

Il prezzo del mercato unico: integration without representation?

Gli scontri tra UE e Regno Unito hanno messo in luce un fatto che spesso passa inosservato: il mercato unico ha un prezzo, sia per gli Stati membri che per i Paesi terzi. I Paesi dello Spazio Economico Europeo sono tenuti a contribuire a tutti i programmi cui prendono parte, inclusi, ad esempio, Horizon 2020 o Erasmus+; devono inoltre contribuire a “ridurre le disparità economiche e sociali tra le regioni SEE” tramite apposite sovvenzioni.

La buona notizia per Londra è che non dovrebbe più finanziare la Politica Agricola Comune, per la quale il Paese è un contributore netto. Bisogna però dire che i risparmi derivanti dall’ingresso nel SEE non sarebbero esaltanti. Stando a dati raccolti da FullFact (risalenti al 2015), il contributo annuo della Norvegia è di 740 milioni di sterline, mentre quello del Regno Unito è di 14 miliardi; considerando i dati pro capite, però, la Norvegia contribuisce “solo” il 30 per cento in meno rispetto al Regno Unito (rispettivamente 140£ e 220£ pro capite).

Questi dati, peraltro, non tengono conto dei contributi che entrambi i Paesi ricevono dall’UE (come i finanziamenti alla ricerca) né dell’accordo speciale sul rimborso, di cui Londra beneficia dal 1985.

Vi sono anche altri costi, di natura politica. In base al trattato costitutivo, i Paesi del SEE sono tenuti ad trasporre automaticamente nell’ordinamento nazionale tutta la legislazione dell’acquis communautaire che riguarda il mercato unico, nonché la c.d. cross-cutting legislation, ossia materie non direttamente inerenti la politica commerciale ma che incidono sul funzionamento del mercato unico, quali concorrenza, diritti dei lavoratori e protezione ambientale.

La risoluzione delle controversie non è affidata alla Corte di Giustizia dell’UE, ma neanche ai tribunali nazionali o a un arbitrato internazionale: queste sono competenza della corte dell’AELS – la quale, tuttavia, tende ad allinearsi ai principi della Corte dell’Unione per ovvie ragioni di coerenza normativa.

 

Opzione Norvegia: perché è avversata dai falchi della Brexit?

I sostenitori di una hard Brexit, tra i quali il Segretario di Stato per gli Affari Esteri Boris Johnson, ritengono l’opzione Norvegia un bad deal, un accordo fortemente svantaggioso per il Regno Unito.

Indubbiamente, rimanere nel mercato unico ha un prezzo troppo elevato per i leavers, non solo in termini di bilancio, ma soprattutto per le limitazioni alla sovranità che questo comporta. In primo luogo, poiché gli Stati membri hanno posto il veto sul cherry-picking (la facoltà di adottare o limitare a proprio piacimento le libertà fondamentali del mercato unico), l’accesso al SEE impedirebbe al Regno Unito di fissare vincoli alla libera circolazione dei cittadini UE, uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori della Brexit.

Londra, inoltre, si ritroverebbe nella situazione paradossale di dover sottostare alla legislazione emanata dall’Unione – almeno in tutto ciò che riguarda il mercato unico – senza poter più dire la propria al riguardo: ovviamente, diventando un Paese terzo, non sarà più rappresentata nelle istituzioni europee e manterrà solamente il diritto di consultazione o l’accesso a canali informali di lobbying.

Con l’EU Withdrawal Bill – noto anche come The Great Repeal Bill –, che entrerebbe in vigore il 30 marzo 2019, il governo intende trasporre nell’ordinamento nazionale la legislazione comunitaria attualmente in vigore, per evitare un vuoto normativo di proporzioni disastrose anche in caso di hard Brexit. Nelle intenzioni di Theresa May, ciò consentirebbe di emendare e abrogare gradualmente le disposizioni sgradite o contrarie agli interessi nazionali; governo e imprese, tuttavia, dovranno comunque rispettare molti degli standard europei se vorranno continuare a commerciare con l’Unione.

I vincoli, dunque, sono numerosi: libera circolazione delle persone, limitazioni sul commercio di prodotti agricoli, contributi al bilancio comunitario elevati, vincoli normativi, la corte dell’AELS. Il “modello Norvegia” sembrerebbe tradire nello spirito, se non nella lettera, l’esito del referendum del 2016. La stessa May, peraltro, si è detta contraria all’ingresso nel SEE.

In visita a Firenze lo scorso settembre, la premier ha invitato l’Unione a essere ‘creativa’ e a non ricorrere a modelli precostituiti, come il “modello Norvegia” o il “modello Canada” (riferendosi qui all’accordo CETA tra Canada e UE, entrato in vigore in via provvisoria il 21 settembre 2017). La prima opzione renderebbe il Regno Unito un norm taker, obbligato a sottostare ai dettami di Bruxelles senza più avere voce in capitolo; la seconda, invece, rappresenterebbe un passo indietro rispetto alle relazioni attuali tra Londra e Bruxelles, con conseguenze economiche difficili da sostenere per entrambe le parti.

Secondo Theresa May, “si può fare di meglio”; dall’altro lato del tavolo negoziale, Michel Barnier, il capo della delegazione UE, avverte che “un Paese terzo non potrà mai avere allo stesso tempo i benefici del modello norvegese e la flessibilità del modello canadese”, ossia libero accesso al mercato unico senza i vincoli che ciò comporta. Una cosa è certa: un livello d’integrazione più elevato comporta l’accettazione di vincoli più stringenti, sebbene più limitati rispetto alla membership vera e propria.

 

 

Fonti e Approfondimenti

AgriRegioniEuropa, “La Brexit e il bilancio dell’UE. Una prima valutazione attraverso il calcolo dei saldi netti”, settembre 2016

Michel Barnier, dichiarazioni rilasciate il 07/09/2017

Centre for European Reform, “Canada, Norway or something in between?”, 26/01/2018

Commissione Europea, Informazioni sul CETA tra UE e Canada

Dipartimento per l’Uscita dall’Unione Europea, Informazioni e studi sull’EU Withdrawal Bill

EurLex, “Accordo sullo Spazio Economico Europeo” (aggiornato al 24/05/2016)

Servizio di Ricerca del Parlamento Europeo, “The UK ‘rebate’ on the EU budget. An explanation of the abatement and other correction mechanisms”, 18/02/2016

FullFact, “Norway’s EU payments” 04/08/2016

Il Sole 24 Ore, “Il nuovo fisco UE dopo Brexit”, 27/06/2016

Il Sole 24 Ore, “Modello Canada in pole position per la Brexit”, 22/01/2018

Institute for Government, “Trade after Brexit. Options for the UK’s relationship with the EU”, dicembre 2017

Internazionale, “Perché il Regno Unito potrebbe ritardare la Brexit”, 05/09/2016 (Traduzione di un articolo originariamente apparso su The Economist)

LSE Centre for Economic Performance, “Life after BREXIT: What are the UK’s options outside the European Union?”, febbraio 2016

Theresa May, “Florence Speech” (discorso tenuto a Firenze il 22/09/2017)

Servizio di Ricerca del Parlamento Europeo, “The UK ‘rebate’ on the EU budget. An explanation of the abatement and other correction mechanisms”, 18/02/2016

Testo e iter legislativo dell’EU Withdrawal Bill nel Parlamento britannico

Martin Trybus, “Extracting the UK from EU law: The ‘Great Repeal Bill’

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