Dallo scorso aprile, frequenti e violenti scontri di piazza hanno scosso l’Honduras. A dare vita alle manifestazioni sono cittadini di varie categorie, ma principalmente rappresentanti del mondo della scuola e della sanità. Sono questi, infatti, i due settori dove il governo centrale sta portando avanti delle politiche di privatizzazione con ricadute potenzialmente molto negative per i lavoratori e i cittadini, anche se il malcontento si canalizza più in generale contro il governo del presidente Hernández.
FUERA JOH: una presidenza dubbia e contestata
Le manifestazioni di piazza e gli scioperi non sono una novità per lo Stato centro-americano, in particolare per quanto riguarda le contestazioni anti-governative. Juan Orlando Hernández (JOH) presenta gli indici di gradimento più bassi tra i presidenti della storia recente del Paese con trend in continua discesa.
Già presidente del Congresso dal gennaio 2010 al giugno 2013, JOH vince le primarie del Partido Nacional de Honduras contro Ricardo Álvarez. Nelle elezioni presidenziali del 2013 sfida Xiomara Castro, attivista del partito Libertad y rifundaciòn e moglie dell’ex presidente Manuel Zelaya, deposto prematuramente nel 2009. Vince per soli 250 mila voti e inizia un mandato presidenziale ricco di ombre.
Si susseguono anni di forzature e scandali tra le donazioni di soldi pubblici tramite società fantasma (provenienti dall’Istituto Hondureño di Sicurezza Sociale) per finanziare la campagna elettorale e presunti rapporti con il narcotraffico. Il bilancio del mandato presidenziale è sicuramente negativo tra corruzione ampiamente documentata e diffusa, possibili rapporti con il narcotraffico, attacchi alla libertà di espressione, criminalizzazione e repressione arbitraria delle proteste pacifiche, ripetute violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze dell’ordine e uno dei tassi di criminalità più alti del mondo (nonostante le manipolazioni delle statistiche in merito).
In questo contesto si inserisce la vicenda della rielezione molto controversa di Hernández nel 2017. JOH si candida, vince le primarie del suo partito e partecipa alle elezioni presidenziali del 26 novembre 2017, in aperta violazione della Costituzione hondureña. Il combinato disposto dell’articolo 237 e dell’articolo 42 comma 5, infatti, delinea espressamente il divieto di rielezione: il primo sancisce la durata del mandato per quattro anni e il secondo elenca tra i motivi di perdita della cittadinanza l’incitazione, promozione o appoggio della continuazione del mandato (oltre il termine previsto) o la rielezione del presidente della Repubblica.
Oltre a questa palese e grave inosservanza formale, la seconda elezione di Hernández è stata caratterizzata da brogli elettorali documentati. Dopo una campagna elettorale nettamente in svantaggio rispetto all’avversario Salvador Nasralla (Libre-PINU) e i primi exit poll che confermavano questo trend, iniziano una serie di incongruenze. Svariati blocchi del sistema di calcolo telematico e continui rinvii della diffusione dei risultati definitivi, immagini di schede modificate, perquisizioni e dati incongruenti. Alla fine, il 17 dicembre viene annunciata la vittoria di Hernández con uno scarto di 1,6 punti percentuali (42,98% contro 41,38%).
Nonostante il pronto riconoscimento degli USA e il “lasciapassare” del tribunale supremo elettorale, tutti gli osservatori internazionali hanno sollevato molti dubbi sullo svolgimento delle elezioni. Lo stesso Luis Almagro, segretario generale dell’OEA, ha definito il processo elettorale come “di bassa qualità tecnica e carente di legittimità”. Nonostante le proteste cittadine, iniziate il giorno stesso dello spoglio, e gli inviti internazionali a tornare al voto, Hernández ha assunto ufficialmente la presidenza e dato inizio agli anni peggiori del Paese dal suo ritorno alla democrazia.
I motivi della protesta
Le mobilitazioni – che si susseguono quotidianamente da tre mesi – hanno avuto inizio il 29 aprile scorso con l’obiettivo di bloccare la ratifica da parte del Congresso nazionale ai due decreti legge di ristrutturazione e trasformazione del settore sanitario e educativo (approvati il 24 aprile). Insegnanti, medici e lavoratori di entrambi i mondi hanno deciso di scioperare e scendere in piazza e solo nel primo giorno si sono registrate oltre 70 mobilitazioni.
Il nodo cruciale delle contestazioni riguarda la privatizzazione de facto dei due settori e il conseguente rischio di numerosi licenziamenti. Già il 30 aprile il Congresso ha dovuto annullare entrambi i decreti e il 29 maggio il governo ha approvato un nuovo decreto, seguito da dichiarazioni dello stesso Hernández, in cui entrambi i nodi delle contestazioni vengono confutati.
La retromarcia delle istituzioni non ha fermato gli scioperi e le contestazioni che, anzi, sono aumentate e hanno raccolto una platea sempre più ampia. In primis, l’attenzione si è spostata sulla richiesta di abrogazione della Legge Quadro di Protezione sociale, approvata nel 2015, e di svariati decreti esecutivi approvati tra il 2011 e il 2018. Si tratta di una serie di provvedimenti che hanno aperto la strada alla privatizzazione della sanità e della scuola tramite concessioni e terziarizzazione. Negli ultimi anni molti ospedali pubblici sono stati “appaltati” a fondazioni private con un calo della quantità di servizi erogati gratuitamente e della qualità delle tutele contrattuali per gli operatori sanitari. Nel settore scolastico il problema principale riguarda i diritti sul posto di lavoro tra innalzamento dell’età pensionabile e assunzioni temporanee (invece che permanenti, come sarebbe di regola). Il problema principale e trasversale rimane comunque la gestione pluriennale di politiche pubbliche fondamentali in chiave emergenziale.
Nei mesi scorsi il malcontento si è allargato e gli scioperi e le manifestazioni di piazza hanno coinvolto una platea sempre maggiore. Uno dei momenti più tesi è stato sicuramente il 19 giugno.
Mentre gli autotrasportatori dichiaravano lo sciopero bloccando l’intero Paese, a Tegucigalpa, la capitale, il reparto delle forze speciali di polizia per la sicurezza nelle manifestazioni si è ribellato. Gli agenti chiedono condizioni di lavoro migliori e un adeguamento dei salari, ma si schierano anche con la popolazione. La posizione contro la corruzione della classe politica e dell’apparato di polizia è chiarissima, così come l’intenzione di limitare l’uso della violenza contro la popolazione in rivolta.
Honduras (10pm): The National Police gave a statement in which they declared support for the people and asked demonstrators to cease to carry out acts of vandalism, looting & arson.
"To the government: Our posture is firm, we will not be cracking down on Honduran citizens." pic.twitter.com/yheAob8E54
— Camila (@PrensaCamila) June 20, 2019
Un Paese in tumulto, una rivolta silenziata
La situazione del Paese non accenna a migliorare e, anzi, la rivolta continua pur nel silenzio (quasi) generale dei media internazionali.
Uno dei motivi è sicuramente lo stretto rapporto tra la classe dirigente hondureña e gli Stati Uniti. Gli USA hanno sempre appoggiato l’amministrazione Hernández e sono stati in prima linea nel riconoscere la seconda elezione del 2017, nonostante le diffuse criticità. Gli Stati Uniti chiudono gli occhi sulle violazioni dei diritti umani e gli attentati alla democrazia in Honduras per tutelare i propri interessi. I cittadini però sono ben consapevoli delle relazioni economiche e politiche tra la propria classe dirigente e il gigante del nord contro il quale hanno canalizzato il malcontento. Il 1 giugno a Tegucigalpa l’Ambasciata USA, che il giorno precedente aveva invitato la popolazione a ridurre le azioni violente, è stata coinvolta in un incendio doloso di fronte all’edificio. I leader delle proteste parlano di infiltrazioni, ma il segnale è chiaro e la popolazione è ben cosciente delle responsabilità di tutti gli attori coinvolti.
In questo quadro si colloca la questione migratoria nel continente americano, strettamente legata ai contesti socio-politici dei Paesi centro-americani. Come dimostrano i più recenti dati, la situazione drammatica dei migranti al confine tra Messico e USA non ha come protagonisti i cittadini messicani, ma in prevalenza persone provenienti dal triangolo Guatemala-El Salvador-Honduras. Il fenomeno delle carovane in partenza dall’Honduras ha coinvolto decine di migliaia di cittadini in fuga da povertà, fame e mancanza di lavoro, ma anche dalla corruzione dilagante, dalla violenza e da una classe politica inaffidabile.
Non è facile fare previsioni per il futuro. Decine di hondureñi sono morti e centinaia sono stati incarcerati e/o torturati in seguito agli scontri di piazza. La popolazione chiede solo dignità e trasparenza: il ritorno della democrazia in Honduras non è però compatibile con ingerenze straniere così pesanti e, soprattutto, con una classe dirigente che non si fa scrupoli pur di mantenere le proprie posizioni di potere.
Fonti e approfondimenti:
- Zito Giacomo, “Hashtag #caravanamigrantes“, Lo Spiegone, 26/11/2018
- Bobbio Emanuele, “La violenza in Centro America e il ruolo degli USA“, Lo Spiegone, 17/10/2016
- Betrò Francesco, “In Honduras la democrazia è stata calpestata e nessuno sembra accorgersene“, Lo Spiegone, 20/12/2017
- Carillo Silvio, “El tirano en Honduras que Estados Unidos pretende no ver“, New York Times, 20/12/2017
- “Quién es Juan Orlando Hernández, el primer presidente reelecto en Honduras desde el regreso de la democracia (y en las elecciones más controvertidas de la historia reciente)”, BBC Mundo, 18/12/2017
- Sosa Eugenio, Noé Pino Hugo, “Honduras resiste en las calles“, NUSO, 05/2019
- Costituzione dell’Honduras (1982)