Ricorda: la caduta di Idi Amin del 1979

@LoSpiegone

Quella di Idi Amin Dada Oumee è una delle figure che più incarnano l’immagine della dittatura militare nell’immaginario comune. Questa fama sinistra non deriva solo dalla figura sopra le righe e a tratti grottesca del leader carismatico, ma soprattutto dalla violenza e il disprezzo dei diritti umani dimostrati dal suo regime.

Negli otto anni in cui ha governato l’Uganda, infatti, Amin e la sua cerchia di ufficiali hanno causato la morte di non meno di 30.000 persone e costretto almeno il doppio ad abbandonare il Paese. La storia della dittatura militare di Amin però non è solo la storia di un autoritarismo, ma anche quella della guerra tra Uganda e Tanzania, uno dei pochissimi conflitti tra Stati sovrani nella storia contemporanea africana.

Il 1979 è l’anno in cui questo conflitto termina con la caduta del regime di Amin, lasciando a entrambi i Paesi un’eredità difficile da metabolizzare.

La presa del potere

Amin nacque nell’attuale Uganda nel 1925, quando questo territorio era parte dell’Impero Britannico. Appena ventenne entrò nell’esercito coloniale britannico nelle King’s African Rifles, battaglione con cui si si trova a combattere contro le insurrezioni anti-inglesi in Kenya negli anni Cinquanta.

La carriera di Amin nell’esercito procedette rapidamente, fino ai massimi gradi permessi ai soggetti coloniali, e dopo l’indipendenza dell’Uganda nel 1962 continua nel nuovo esercito nazionale. In brevissimo tempo Amin diventa Comandante dell’Esercito nel 1965, proprio quando Milton Obote diventa Presidente con un colpo di mano.

Il legame con Obote è infatti determinante nella storia di Amin. Quando erano ancora rispettivamente Primo Ministro e vicecapo delle forze armate erano stati coinvolti in uno scandalo legato al contrabbando di armi e avorio con i ribelli congolesi. Durante la presidenza del suo alleato la carriera di Amin è garantita, tanto che arriverà a ricoprire la carica di Comandante di tutte le Forze Armate.

La gestione personalistica e spregiudicata dell’esercito aprì una frattura tra Amin e Obote. Il Comandante aveva  un enorme consenso tra i militari, soprattutto dopo aver massiciamente reclutato nel nord del paese, la sua zona di origine. Obote ormai temeva Amin e a partire dal 1969 cercò di ridimensionarne il potere, fino a richiederne l’arresto.

A questo punto Idi Amin lanciò la controffensiva, prendendo il potere con le armi il 25 gennaio del 1971. Mentre il Presidente è ad un meeting internazionale a Singapore, i militari fedeli ad Amin occupano obiettivi sensibili in tutto il Paese, mentre le forze lealiste sono incapaci di reagire. Inizia così un governo autoritario che durerà fino al 1979, anno del suo epilogo violento.

Idi amin sarà un leader autoritario e spregiudicato, caratteristica messa in chiaro sin da subito con una vendetta interna all’esercito contro i vecchi sostenitori di Obote, che farà 5.000 morti in meno di un anno.

 

Il regime di Idi Amin

Dopo il colpo di Stato militare, gli ufficiali dell’esercito più vicini a Idi Amin ottennero i ruoli chiave dello Stato ugandese e il terrore e la corruzione divennero problemi endemici. La gestione della cosa pubblica divenne infatti assolutamente predatoria, e la conflittualità interna tra fazioni dell’esercito si fece violenta, placata solo dalle elargizioni del presidente.

Fin da subito Amin alimentò anche la rivalità tra i gruppi etnici e sociali del nord del Paese, a lui più fedeli, contro quelli del sud che erano stati più vicini a Obote, e i cittadini stranieri. Nel clima violento che si era instaurato scompariranno migliaia di oppositori, accusati di infedeltà al regime, o semplici amici dei gruppi sociali bersagliati dalla retorica populista di Amin, sulla quale aveva costruito il suo consenso.

La retorica xenofoba raggiungerà il suo culmine già nel 1972, quando il governo decretò l’espulsione degli almeno 80.000 cittadini indiani ed europei residenti in Uganda, dopo averne espropriato i beni sulla base di accuse di infedeltà. Oltre che per consolidare il suo consenso, Amin espulse queste comunità anche per appropriarsi delle loro attività economiche, di gran lunga le più vitali del Paese, ma presto la corruzione e la cattiva gestione dei suoi ufficiali fecero fallire quasi la totalità di esse.

Alle decine di migliaia di persone espulse in questo modo si andarono presto ad aggiungere almeno 20.000 profughi in fuga dalle violenze del regime militare, che furono ospitate in Tanzania, dove si trovava in esilio anche Obote. Questo fatto, insieme alle tensioni internazionali provocate dal governo Amin, getterà le basi per la guerra imminente tra i due Paesi.

Osteggiato in Occidente per le sue violazioni dei diritti umani, Amin subiva il pressing diplomatico dei leader panafricanisti, primo tra tutti Julius Nyerere, il Presidente della Tanzania. Isolato, con l’economia in rovina e un disperato bisogno di armi e denaro per mantenere l’esercito e le sue reti di patronage, Amin interruppe i legami con i Paesi del blocco Occidentale della Guerra Fredda per avvicinarsi alla sfera sovietica e alla Libia di Gheddafi, che sarà l’unico a supportarlo nel conflitto imminente.

La guerra con la Tanzania

La tensione tra l’Uganda di Amin e la Tanziania di Nyerere crebbe costantemente durante gli anni Settanta. Quest’ultima ospitava Obote e migiaia di dissidenti ugandesi, ed era accusata di aver sostenuto i loro tentativi di organizzare opposizione e guerriglia contro il regime militare oltre il confine. La frontiera tra i due Paesi, tra l’altro, era rappresentata dal territorio del Kagera, storicamente conteso tra i due Stati.

A seguito di alcuni incidenti al confine mai del tutto chiariti, le ostilità iniziarono nel 1978 con l’invasione del Kagera da parte dell’esercito ugandese. L’obiettivo era quello di colpire i ribelli dell’Ugandan National Liberation Army (UNLA), il movimento formato dagli oppositori di Amin rifugiatisi in Tanzania, oltre che annettere il territorio conteso.

A quel punto Nyerere mobilitò il suo esercito che, combattendo a fianco dell’UNLA, ebbe presto la meglio sulle truppe male organizzate di Amin, che vennero facilmente ricacciate oltre la frontiera nonostante il supporto libico. Nyerere non fermo l’avanzata dell’esercito, che si spinse in Uganda fino a conquistare Kampala e le altre città importanti e sbaragiare l’esercito di Amin nel giugno 1979. Il presidente stesso dovette fuggire in esilio in Arabia Saudita, mentre i militari a lui fedeli ripararono in Congo e Sudan.

Violare i confini di uno stato africano sovrano, per di più per interferire con il suo assetto politico, era una gravissima violazione dei principi dell’OUA, e questo attirò aspre critiche contro il Presidente tanzanese. Fortunatamente, però, questa guerra non creò un precedente per l’Africa contemporanea, dove questo episodio del 1979 rimane l’unica invasione militare così estesa di uno stato sovrano ai danni di un altro.

La caduta di Idi Amin, però, non significò la fine della lotta violenta tra fazioni per il controllo del Paese, che presto entrerà in una nuova fase di instabilità dopo che Obote tornerà al potere nel 1980 a seguito delle elezioni dal risultato aspramente contestato.

 

Dopo la guerra: perché ricordare

Ricordare gli eventi del 1979 significa capire meglio le cause remote di molti problemi che affliggono oggi l’Uganda, ma soprattutto in che contesto si è formata buona parte della sua attuale leadership. In un certo senso l’intera storia dell’Uganda post-Amin si può ricondurre al periodo della dittatura e alla sua fine violenta, per almeno due ragioni distinte.

Una è meramente economica. La fine degli anni Settanta apre per i Paesi africani un periodo di ristrettezze economiche, determinate dai cambiamenti negli assetti internazionali e il crollo del prezzo dei beni da loro esportati. Una guerra catastrofica come quella tra Uganda e Tanzania renderà ancora più deboli questi Paesi, che piegati dal costo umano ed economico delle devastazioni saranno ancora meno capaci di resistere alla crisi del debito degli anni Ottanta e le dure condizioni imposte dagli Istituti Finanziari Internazionali.

La Tanzania e, soprattutto, l’Uganda saranno fortemente condizionate nei loro programmi di sviluppo da questa situazione svantaggiosa, e pagano ancora oggi questo prezzo nelle molte carenze economiche, politiche e sociali che si trovano a fronteggiare. La divisione in fazioni della popolazione e soprattutto dell’esercito esacerbate volontariamente da Amin, tra l’altro, continuano a minare la stabilità del Paese, ma ne hanno anche determinato l’attuale leadership.

Dopo la restaurazione di Obote, infatti, in un Paese controllato inefficacemente dal governo centrale e piegato dalla crisi economica si trovavano le varie bande dell’UNLA e del vecchio esercito di Amin, che iniziarono presto un conflitto fratricida a bassa intensità. Questa guerra tra bande passerà alla storia come Ugandan Bush War e lascerà in eredità almeno 100.000 vittime e gravissimi abusi dei diritti umani in solo 6 anni.

Dopo una serie di battaglie e di colpi di Stato emergerà come leader del Paese Yoweri Museveni, ancora oggi al potere in Uganda. Durante la sua presidenza il Paese ha vissuto un periodo di relativa crescita e stabilità, ma la dittatura, la guerra e la guerriglia hanno lasciato una cicatrice profonda nella società ugandese. Ancora per anni, e in parte ancora oggi, diversi movimenti paramilitari hanno sfruttato l’odio tra gruppi di popolazione per accrescere i propri ranghi e affermarsi nelle aree più remote, con l’esempio più noto nella Lord’s Resistance Army di Joseph Kony.

Fonti e Approfondimenti:

Smith G. (1980) Ghosts of Kampala: The Rise and Fall of Idi Amin. London: Weidenfeld and Nicolson

Pallotti A. & Zamponi M. (2010) L’Africa sub-sahariana nella politica internazionale. Firenze: Le Monnier

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