La storia recente del Medio Oriente è stata segnata da una lunga serie di guerre. L’intrecciarsi di cause religiose, politiche e sociali ha reso molte guerre, inizialmente percepite come ‘decisive’, il prologo di ulteriori conflitti. E’ il caso della Guerra del Golfo, iniziata nell’agosto del 1990 e conclusasi nel marzo del 1991, i cui effetti sulla regione rimangono visibili ancora oggi.
Storia ed economia: le ragioni dell’invasione
Le argomentazioni con cui Saddam Hussein giustificò l’invasione del Kuwait furono principalmente due. Innanzitutto, Baghdad rivendicò il diritto a incorporare il Kuwait sulla base del fatto, di dubbia veridicità storica, che il piccolo Stato rivierasco costituisse insieme all’Iraq un’unica provincia sotto l’impero ottomano. In secondo luogo, Saddam Hussein, denunciò la vendita da parte di Kuwait ed Emirati Arabi Uniti di quote di petrolio superiori a quelle assegnate dall’OPEC. Queste erano state fissate dall’organizzazione degli esportatori di petrolio per evitare la situazione degli anni precedenti, in cui il prezzo del greggio era rimasto bassissimo. Questa concorrenza scorretta portò il prezzo del petrolio dai 18 dollari stabiliti a 12 dollari ed ebbe effetti drammatici sull’economia dell’Iraq, provata dal lungo conflitto con Teheran. Il Kuwait, dal canto suo, giustificò tale sovrapproduzione come la necessità di riparare ai danni causati nel Paese dalla stessa guerra. Inoltre, Saddam Hussein giustificò l’invasione anche utilizzando un presunto complotto ai danni dell’Iraq che coinvolgeva le potenze arabe, ma anche Israele e Stati Uniti. Questa paranoia, assieme alle mire strategiche per i pozzi petroliferi del Kuwait e l’ampio sbocco sul Golfo persico, giocò una grossa parte nella decisione irachena di invadere il Kuwait.
L’invasione irachena e le reazioni del mondo: le mosse diplomatiche
Alla vigilia dell’invasione, l’Iraq possedeva il quarto esercito più grande al mondo. Tuttavia, il Paese si era progressivamente alienato il sostegno dei Paesi vicini. L’Egitto di Mubarak, uno dei Paesi più influenti della regione, da tempo denunciava il trattamento ostile riservato agli egiziani nel Paese del Golfo. Baghdad era in aperto contrasto anche con la Siria visto il sostegno fornito da Damasco all’Iran nella recente guerra. Persino l’Arabia Saudita, che durante la guerra Iran-Iraq era stata una fonte di supporto finanziario per Baghdad, cambiò postura internazionale in ragione dell’accendersi della contrapposizione sul confine tra Iraq e Kuwait e vedendo minacciati i propri interessi economici.
Nonostante la situazione regionale, Baghdad decise di invadere comunque il piccolo Stato confinante il 2 agosto 1990. Saddam Hussein voleva mettere gli attori internazionali di fronte al fatto compiuto, confidando nella frammentazione del mondo arabo, spingendo sulle rivendicazioni territoriali e su una pretesto piuttosto capzioso. L’Iraq, infatti, diede avvio all’invasione poiché l’emiro kuwaitiano, Jaber Al-Ahmad Al-Jaber Al-Sabah, si rifiutò di cancellare i debiti contratti dall’Iraq durante la guerra come supposta riparazione ai danni causati dalla produzione eccessiva di petrolio. Il tentativo di mediazione saudita nei giorni precedenti al due agosto, si rivelò inutile e peggiorò in modo permanente le relazioni tra la casa regnante e il dittatore iracheno.
L’invasione fu un successo militare: le forze irachene piegarono la resistenza kuwaitiana in dodici ore, costrinsero la famiglia reale a lasciare il Paese e imposero un regime fantoccio guidato dal cugino di Saddam Hussein, Ali Hassan al-Majid. Il mondo arabo reagì immediatamente, anche se non in modo compatto. La Lega araba approvò una risoluzione che auspicava una soluzione del conflitto interna agli Stati arabi, opponendosi a qualsiasi intervento esterno. Tale risoluzione incontrò il favore di tutti gli Stati membri a eccezione della Libia, che temeva un intervento statunitense e dell’OLP, che vedeva in Saddam un alleato della causa palestinese. Inoltre, lo Yemen, il Sudan e la Giordania non approvarono il trattamento riservato a Baghdad da parte della Lega. Lo Yemen, come il Sudan, era notevolmente arretrato e periferico al tempo e sperava di poter guadagnare visibilità nel mondo arabo; Amman, invece, contava sul supporto economico iracheno e non voleva alienarsi il favore di Baghdad.
L’unico punto di condivisione tra le due fazioni era la preoccupazione per un’intervento esterno a guida statunitense. Washington, infatti, nei giorni successivi si mosse in difesa dell’alleato saudita con l’inizio dell’operazione Desert Shield, che prevedeva la disposizione di alcune truppe a difesa del territorio della monarchia del Golfo. Gli USA inoltre fecero pressioni sul Consiglio di Sicurezza ONU, che già il 3 agosto approvò la risoluzione 660, la prima di dodici risoluzioni sul tema. Con questa risoluzione veniva condannata l’invasione e intimato all’Iraq di ritirarsi dal territorio del Kuwait.
Saddam Hussein, dal canto suo, dichiarò a più riprese di essere pronto ad abbandonare l’occupazione se anche le forze israeliane si fossero ritirate dai territori palestinesi e quelle siriane dal Libano. Questa mossa rese chiara la volontà di gestire la situazione a livello intra-arabo e mise in evidenza l’ipocrisia delle potenze occidentali. Le opinioni pubbliche arabe non restarono indifferenti, tanto che il governo saudita e quello siriano dovettero ricorrere ad argomentazioni poco lineari per giustificare il sostegno alla causa anti-irachena. Ad esempio nel novembre 1990, un editoriale su un giornale siriano controllato dal governo, sostenne la necessità del mondo arabo di non sostenere l’Iraq, così da non rischiare ritorsioni israeliane contro i palestinesi e meglio servire la causa dell’indipendenza.
La fase militare: una larga coalizione
Il Consiglio di Sicurezza nel novembre del 1990 approvò la risoluzione 678, che impose all’Iraq come termine ultimo per ritirarsi dal Kuwait il 15 gennaio 1991. Nel caso in cui Baghdad non avesse dato seguito a quanto richiesto, il Consiglio paventava l’utilizzo di qualsiasi mezzo necessario, ventilando quindi la possibilità di ricorrere alla forza. Un giorno prima di questa data la Francia, che fin dall’inizio della crisi si era distinta per la maggiore accondiscendenza nei confronti del regime di Baghdad al quale era legato da un solido rapporto politico, tentò un’ultima azione diplomatica. Parigi, però, non venne sostenuta da Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito, quindi la sua proposta di organizzare una conferenza di pace sulle questioni del Kuwait e del conflitto israelo-palestinese si arenò.
L’intervento militare fu il risultato di un’attenta strategia statunitense che cercò di coinvolgere le varie potenze regionali sin dal settembre del 1990. Il segretario di Stato James Baker, innanzitutto, incontrò le leadership di Arabia Saudita e Kuwait, assicurandosi il sostegno economico e logistico dei due Paesi maggiormente coinvolti. Dopo aver avuto il via libera da parte di Mosca, Baker riuscì a coinvolgere l’Egitto. Oltre che per la già citata questione degli egiziani presenti in Iraq, l’Egitto si considerava la potenza pivotale del mondo arabo, non poteva quindi accettare uno sconvolgimento così profondo dell’equilibrio regionale. Baker incontrò anche la Siria che si disse pronta a fornire un contingente armato per combattere il rivale storico. Al fianco dell’Iraq rimase il regno di Giordania, che in ragione della già citata questione palestinese, preferì abbandonare la storica vicinanza alle istanze occidentali per dare seguito alle richieste che si levavano nelle piazze del Paese durante le manifestazioni pro-Saddam.
La coalizione che si venne a costituire mostrò il nascere del mondo multipolare del post-Guerra Fredda, in cui la divisione Est-Ovest non giocava alcun ruolo e la fine della potenza sovietica rendeva il mondo arabo maggiormente permeabile alle influenze statunitensi. La coalizione, infatti, era la più grande compagine militare dai tempi della Seconda guerra mondiale e coinvolse in modo diretto e indiretto 34 Paesi. Allo scadere dell’ultimatum presente nella risoluzione 678, cominciò l’operazione Desert Storm con il bombardamento aereo su tutto il territorio iracheno. Baghdad proseguì nel cercare di connettere la questione kuwaitiana con quella israelo-palestinese, dal territorio iracheno infatti, partirono numerosi razzi contro obiettivi israeliani. L’Iraq cercò di spaccare il fronte che si era venuto a creare mettendo in imbarazzo i Paesi arabi che stavano combattendo dalla stessa parte di Tel Aviv.
La rabbia israeliana fu placata da un’intensa attività diplomatica da parte di Washington e Londra. Anche l’Arabia Saudita fu oggetto di attacchi da parte delle forze irachene che alla fine di gennaio invasero la città di confine di Khafji. Questa mossa però risultò effimera, poiché dopo tre giorni le forze della coalizione conquistarono il centro costiero. A febbraio queste ruppero il blocco iracheno entrando in territorio nemico per poi portarsi verso il confine con il Kuwait alla fine del mese. Il Paese venne liberato in pochi giorni, grazie all’intervento dal mare di una portaerei della Royal Navy. Una volta smilitarizzata una parte consistente del territorio iracheno, venne concesso all’Iraq di riportare le proprie forze in patria, vista la necessità di sedare alcune rivolte scoppiate a nord per mano dei curdi e a sud a causa dell’incitamento alla rivoluzione trasmesso da alcune radio libere, in particolare da ‘Radio Free Iraq’. Gli Stati Uniti non volevano spaccare la coalizione destituendo Saddam Hussein. Per tale motivo, nonostante la possibilità di arrivare fino alla capitale irachena, le forze della coalizione furono dismesse una volta che l’emiro Sheikh Jaber al-Ahmad al-Sabah venne riportato sul trono il 15 marzo 1991.
Una guerra dai tanti significati e conseguenze
Al netto delle strategie militari, la prima Guerra del Golfo contribuì a creare il Medio Oriente come lo conosciamo. La cocente sconfitta dell’Iraq ridisegnò i rapporti di forza nel Golfo, incrementando il peso dell’Arabia Saudita in quanto principale alleato degli Stati Uniti nella regione. L’immagine di Saddam Hussein ne uscì fortemente ridimensionata, a favore degli altri leader mediorientali come Assad in Siria e Mubarak in Egitto. Anche il rivale storico iraniano sembrò poter trarre beneficio dallo smacco subito dall’Iraq.
La Guerra del Golfo, inoltre, rappresentò l’inizio di un nuovo modo di comunicare, la CNN per la prima volta seguì in modo costante le azioni belliche nella regione, determinando un fenomeno mai visto prima, ciò che avveniva dall’altra parte del mondo cominciò ad avere un peso sull’opinione pubblica occidentale. La sconfitta dell’Iraq assicurò anche che Baghdad non stabilisse un monopolio nel mercato del petrolio. Gli eventi del 1990-1991 sono indispensabili per comprendere quanto sarebbe accaduto dieci anni dopo con il ritorno dei soldati statunitensi in Iraq, questa volta con il chiaro intento di rovesciare il regime di Saddam Hussein. La seconda Guerra del Golfo, infatti, si sarebbe posta in continuazione con il processo di destituzione del potere iracheno iniziato un decennio prima, creando le condizioni per l’affermarsi della leadership saudita-emiratina nel Golfo.
Fonti e approfondimenti:
Simons, Iraq: From Sumer to Post-Saddam, St. Martin Press, 2003.
Corvisier, A Dictionary of Military History and the Art of War, Wiley-Blackwell, 1994
Grafica: Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_