Minoranze etniche, culturali e religiose: quali diritti?

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@JoshuaWoroniecki - Pixabay - CC0

Di Matteo Bassetti

Nel passaggio da multiculturalità a interculturalità, i principali attori del diritto internazionale si sono domandati se le persone appartenenti a minoranze etniche, culturali o religiose potessero essere destinatarie di diritti “speciali” e “ulteriori”.  In questo senso hanno agito ONU e organizzazioni di integrazione regionale aventi il compito di salvaguardare i diritti umani (come il Consiglio d’Europa o l’Organizzazione degli Stati americani), tentando di attribuire un regime giuridico differenziato e di “maggior favore” alle minoranze. Operazione da svolgersi tenendo in considerazione il delicato tema del conflitto e del bilanciamento tra diritti fondamentali.

Gli strumenti internazionali a tutela delle minoranze

Primo riferimento internazionalmente vincolante per la tutela delle minoranze è rappresentato dall’art. 27 del Patto sui diritti civili e politici del 1966, adottato in seno alle Nazioni unite. L’articolo è stato il punto di partenza da cui la giurisprudenza internazionale, in primis il Comitato dell’International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), ha tentato di dare un’interpretazione della norma tale da poter assegnare e proteggere particolari prerogative delle persone appartenenti a minoranze etniche, religiose o culturali.

Sulla base di quanto si legge nella disposizione, la dottrina ritiene che siano i singoli membri della minoranza a godere di particolari diritti piuttosto che il gruppo sociale in quanto tale (al contrario di quanto avviene  per le popolazioni indigene, definibili con approssimazione come un particolare gruppo minoritario).

Ulteriore strumento internazionalmente vincolante è la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, adottata dal Consiglio d’Europa e in vigore a partire dal 1998. La Convenzione contiene importanti dichiarazioni di principio circa l’esistenza di particolari diritti delle minoranze: nello specifico gli artt. 1, 3 e 5 chiariscono che la protezione dei diritti in oggetto, oltre a essere certamente annoverati fra i diritti umani, costituisce uno specifico settore della cooperazione internazionale. Gli Stati, in tal senso, hanno un obbligo positivo nel promuovere condizioni idonee allo svolgersi e al conservarsi della cultura minoritaria di riferimento, nel pieno rispetto del principio di “scelta” e autodeterminazione in capo al singolo soggetto di decidere se abbracciare o meno la propria cultura “di origine”.

L’analisi della giurisprudenza internazionale

La definizione di minoranza è stata per la prima volta analizzata in ambito di Tribunali Internazionali a opera della Corte permanente di giustizia (nel 1930 con l’advisory opinion sulla Convenzione greco-bulgara del 1919 e nel 1935 nel caso Minority School in Albania). La dottrina ha così elaborato una definizione, oggi conforme al diritto internazionale consuetudinario, secondo cui per minoranza si intende “un gruppo numericamente inferiore rispetto alla popolazione di uno Stato, posto in una posizione non dominante, i cui membri […] hanno, dal punto di vista etnico, ovvero religioso, ovvero linguistico, delle caratteristiche diverse da quelle del resto della popolazione e manifestano, anche in modo implicito, un sentimento di solidarietà volto a preservare la loro cultura […]” (Francesco Capotorti).

Rispetto alla definizione di gruppo minoritario proposta da Capotorti, si segnala che la successiva Dichiarazione sui diritti dei membri delle minoranze, adottata dall’Assemblea generale nel 1992, non fornisce alcuna definizione in materia. Successivamente, nel 1994 il Comitato dell’ICCPR nel General Comment relativo ai diritti delle minoranze (No. 23) statuì che la tutela da apprestare agli individui, di cui tratta, non debba riguardare soltanto i membri delle minoranze che abbiano la cittadinanza dello Stato all’interno del quale si trovano, ma debba essere applicabile anche ai lavoratori migranti, ovvero coloro che non risiedono in maniera permanente nello Stato di riferimento.

Sono celebri le statuizioni (seppur si ricorda non vincolanti) dell’ICCPR nei casi Sandra Lovelace v. Canada, McIvor v. Canada e Hopu and Bessert v. Francia dove, seppur in contesti molto diversi fra loro, viene riconosciuto che l’appartenenza del singolo alla minoranza imporrebbe allo Stato nazionale di tenere conto delle prerogative culturali dei ricorrenti in quanto tali.

Nel contesto europeo, in ambito di tutela dei diritti delle minoranze, non di rado, negli anni ‘80 la Commissione europea per i diritti dell’uomo si era trovata a dover giudicare in merito a ricorsi introdotti da soggetti appartenenti a minoranze: nella fattispecie allevatori di renne lapponi, minoranze saami e rom. Nei casi sottoposti alla sua cognizione e a quella della Corte (le cui sentenze giova ricordare essere vincolanti al contrario dei pareri emessi dal Comitato dell’ICCPR) è stato più volte sottolineato che i soggetti appartenenti alle minoranze hanno diritto a conservare il proprio “stile di vita tradizionale” (un “diritto contenitore” entro il quale iscrivere nei casi concreti prerogative di volta in volta individuabili). A tal riguardo, può citarsi in particolare la decisione nel caso Chapman v. United Kingdom.

Con riferimento a quest’ultimo (dove peculiare attenzione va riservata ai parr. 73 e 74) la Corte sottolinea che l’art. 8 della CEDU impone agli Stati un obbligo non solo meramente negativo di non ingerenza, ma un obbligo positivo nel permettere ai gypsies di seguire il loro stile di vita tradizionale.

Si segnala inoltre la “Guide on Article 8 of European Convention on Human Rights” del 2019: nel passaggio rubricato come «Diritto all’identità etnica» si stabilisce che la Corte considera questa e, in particolare, il diritto dei membri di una minoranza nazionale a poter mantenere la propria identità e stile di vita tradizionale, come parte integrante dell’art. 8. Conseguentemente è obbligo, imposto agli Stati, il facilitare e non ostacolare in maniera sproporzionata tali esigenze. Se ne deduce che norma fondamentale per la tutela delle formazioni minoritarie in ambito CEDU è senza dubbio l’art. 8, come testimoniato inoltre da copiosa giurisprudenza della Corte in materia.

Il diritto all’identità culturale

La tematica della tutela dei diritti delle minoranze si interseca indissolubilmente con la teoria generale dei diritti umani e, in particolare, con l’importanza dei diritti culturali. A tal proposito, oltre agli esempi riportati in precedenza, si possono citare le numerose sentenze della Corte Interamericana dei diritti dell’uomo che riconoscono in via interpretativa (rispetto al dettato della Convenzione Interamericana sui diritti umani) un vero e proprio diritto all’identità culturale.

Sull’importanza della componente culturale sono inoltre da segnalare la pronuncia sul caso della distruzione del patrimonio culturale nel caso Al-Mahdi della CPI e il parere sulla questione “Muro Palestinese” delle CIG. Nel caso Al-Mahdi, per la prima volta nella storia della Corte, viene rubricato come crimine internazionale la distruzione del patrimonio culturale, sancendo così il valore essenziale della cultura nella formazione dell’identità degli individui. Nel parere sul “Muro Palestinese” i giudici dell’Aja hanno affermato, invece, che la “macrostruttura” impediva di fatto alle popolazioni stanziate nel territorio di poter esercitare i diritti umani essenziali connessi alla “propria storia culturale”: il diritto al lavoro, al cibo e alla salute. Questo poiché non potevano svolgere le “attività tipiche” di pascolo del bestiame e connesse, considerate come vitali per il gruppo sociale.

Possiamo definire, secondo alcuni autori, il diritto all’identità culturale come il diritto del singolo di poter costruire la propria identità attingendo all’ampio patrimonio di significati veicolati dalla cultura.

È compito in prima istanza dello Stato territoriale tutelare il diritto in oggetto e dunque la “diversità” delle minoranze. A tal proposito sono, a titolo esemplificativo, da cogliersi con favore l’art. 27 della Costituzione di Brandeburgo (che riconosce nel dettato costituzionale particolari diritti per le minoranze locali) e il Saami Parliament: sistema unico al mondo di “Parlamento” interamente minoritario con attribuzioni esclusive circa la disciplina della vita socio-economica della minoranza Saami, in continuo dialogo con gli organi istituzionali nazionali di Finlandia e Norvegia (Stati ove la comunità è stanziata).

L’identità culturale, vista come la personificazione della cultura, dà ai membri di una comunità un senso di appartenenza e integrità personale dove possono rappresentare sé stessi ed essere riconosciuti. In questo senso, il diritto internazionale dovrebbe assicurare che le minoranze siano salvaguardate in quanto rappresentano una componente irrinunciabile del patrimonio culturale globale, come si legge agli artt. 1 e 4 della Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla diversità culturale del 2001.

 

Fonti e approfondimenti

C.Taviani, The Protection of the Cultural Identity of Minorities in International Law: Individual versus Collective Right, European Yearbook of Minority Issues Vol9, Koninklike BrillNv, 2010

Spiliopoulou, Justification of Minority Protection in International Law, Kluwer Law International, The Hague, 1997

Pustorino, Lezioni di tutela internazionale dei diritti umani, Cacucci Editore Bari, 2019

Piergigli, Il diritto all’identità culturale, dirittopenitenziarioecostituzione.it, 2013

Ferri, The Recognition of the Right to Cultural Identity under (and beyond) international Human Rights law, The Journal of law, Social Justice & Global Development, 2018

Zago, Il mosaico rom: specificità culturale e governance multilivello, Franco Angeli Editore, Milano, 2011

Guide on Article 8 of European Convention on Human Rights, Council of Europe, 2019

 

Editing a cura di Giada S Deregibus

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