La cura contro la pandemia del patriarcato

Remix da foto di @viktoria-slowikowska da Pexels

Nel 1966 il “padrino del soul” James Brown cantava: “This is a man’s, man’s, man’s world” (Questo è un mondo da uomo). Oggi, finalmente, la cantautrice gallese Marina Diamandis ha dato voce a quello che molte di noi stavano pensando già da un po’: I don’t wanna live in a man’s world anymore (Non voglio più vivere in un mondo da uomo). Il suo ultimo singolo, distribuito nel novembre del 2020, non potrebbe esprimere meglio l’umore delle donne in quest’ultimo anno. Un anno che è stato pesantissimo per le donne di tutto il mondo, con la pandemia da Covid-19 che ha esacerbato diseguaglianze di lungo corso come quella di genere.

Già un anno fa ho provato a spiegare perché la cosiddetta “Festa della Donna” dovrebbe essere la lotta di tutte e tutti. Questa Giornata internazionale non dovrebbe essere solo una semplice ricorrenza sul calendario in cui regalare mimose e offrire cene fuori alle donne, ma il culmine di una battaglia in continua evoluzione, non ristretta ipocritamente solo all’8 marzo. Con quest’ultima pandemia globale il cambiamento sta diventando sempre più urgente. Mentre la rabbia delle donne cresce, anche in Italia.

I femminicidi

Come se il terrore e l’incertezza provocati dal Covid-19 non fossero già abbastanza, questo 2021 è iniziato ricordandoci che essere donna – e soprattutto essere donna desiderosa di libertà, affermazione e indipendenza – è ancora una colpa in Italia. Una colpa che stiamo pagando molto cara: da gennaio, nella nostra penisola è stato commesso più di un femminicidio a settimana. 

Ma è da diverso tempo che gli omicidi in ambito familiare continuano ad aumentare (+126,5% dal 2002) e le differenze di genere restano forti: già nel 2019, l’83,8% delle vittime in questo contesto erano donne. Quindici anni fa lo stesso valore era pari al 59%, contro il 12% maschile. Nel primo semestre del 2020 gli assassini di donne sono stati pari al 45% del totale degli omicidi – contro il 35% dei primi sei mesi del 2019 – e hanno raggiunto il 50% durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile. Il 90% di queste donne è stato ucciso principalmente in ambito affettivo/familiare e il 61% del totale da parte di partner o ex partner.

Ci sono ancora molte persone che ritengono sia superfluo definire questo tipo di omicidi come femminicidi. Giusto per eliminare ogni dubbio, ecco un paio di definizioni utili per capire perché dare un nome preciso a certi fenomeni è importante.

Secondo lo European Institute for Gender Equality (EIGE), il femminicidio è l’uccisione di una donna da parte di un partner intimo e la morte di una donna a seguito di una pratica dannosa per le donne. Pratiche dannose come, ad esempio, le mutilazioni genitali femminili, l’accesso negato al diritto d’aborto e alla contraccezione o i cosiddetti “delitti d’onore”, ammessi per salvaguardare la “reputazione” dell’uomo che esercita sulla donna la patria potestà (una pratica in vigore anche in Italia, con pene attenuate dal codice penale, fino al 1981). 

Tuttavia, il termine “femminicidio” (dall’inglese femicide) è stato introdotto al grande pubblico per la prima volta nel 1976 dalla studiosa e attivista femminista Diana Russell per definire gli omicidi di donne da parte di uomini motivati da odio, disprezzo, piacere o senso di possesso nei confronti delle donne. In parole povere, il femminicidio è l’omicidio di una donna in quanto donna. 

Il femminicidio non è affatto una novità o un’invenzione delle femministe di oggi. Non è un “raptus” e sicuramente non ha niente a che fare con il “troppo amore”. Si tratta di un fenomeno endemico del patriarcato che da secoli permea la nostra cultura, seguendo delle logiche di potere che mettono il maschio bianco eterosessuale in cima alla gerarchia della nostra società. 

L’uccisione di una donna per mano di un uomo è solo il culmine di un percorso di violenza di genere che inizia con le battutine sessiste, passa per le molestie e le minacce all’incolumità fisica e finisce con la perdita della vita. Il femminicidio è l’ultimo, estremo, tentativo dell’uomo di riaffermare il proprio possesso sulla donna che lotta per la propria indipendenza.

Il lavoro

Spesso, nei casi di violenza domestica, alle donne si chiede: “Perché non ti sei allontanata da quel contesto?”. Fermo restando che bisogna smettere di scrutinare e colpevolizzare le donne, c’è da dire che spesso è difficile allontanarsi da qualsiasi posto se manca l’indipendenza economica. È indubbio che, da questo punto di vista, le donne italiane sono molto meno indipendenti dei loro connazionali. 

Già alla fine del 2019, prima della pandemia, il Censis rilevava un forte divario di genere nel tasso di occupazione, con quella femminile attestata intorno al 56% contro il 75% maschile. Al secondo trimestre del 2020, l’occupazione totale per gli uomini era scesa al 66,6% mentre per le donne era inferiore di oltre 18 punti percentuali. 

La maggior parte delle 101 mila persone che hanno perso il lavoro nel corso dell’ultimo anno sono donne, secondo i dati Istat di dicembre scorso. Anche il report della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro sottolinea che le donne rappresentano il 55,9% del totale dei posti di lavoro persi a seguito della pandemia. Nel 2020, si legge, il tasso di attività femminile è diminuito di 3 punti percentuali, annullando in pochi mesi i progressi dell’ultimo decennio in termini di innalzamento dei livelli di partecipazione femminile al lavoro.

Spesso sottopagate e ridotte a contratti precari e a tempo determinato, quindi, fuori casa le donne lavorano 8 ore in meno rispetto agli uomini (32 ore circa contro le 40 maschili). Ma fra le mura domestiche la situazione è diametralmente opposta. 

Secondo un sondaggio di YouGov, il carico di lavoro domestico continua a gravare di più sulle donne, che nella quasi totalità delle interviste su un campione di oltre 1000 persone dichiarano di essere le principali responsabili delle attività di cura della casa e della famiglia (dall’assistenza ai figli malati fino alle pulizie). Il 77% delle donne con figli piccoli considera negativi o molto negativi i cambiamenti di vita dovuti al Covid-19, mentre il 55% percepisce che il carico di lavoro domestico ha esacerbato i livelli di ansia e stress. Non che prima della pandemia la situazione fosse molto meglio, ma essere costrette a rimanere in casa in telework ha prodotto un innegabile peggioramento.

La cura

Mentre le donne continuano a dibattersi fra le maglie della violenza e della disoccupazione, la principale preoccupazione del governo italiano sembra essere (ancora una volta) quella di incoraggiarle a fare figli e a formare una famiglia. Il cosiddetto Family Act varato a giugno 2020 è l’ennesimo esempio della difficoltà di scindere il binomio donna-famiglia in questo Paese. Agevolazioni per l’affitto delle giovani coppie, assegno universale per i figli a carico, contributi per le rette degli asili nido: un pacchetto di sostegni economici definito dall’allora presidente Giuseppe Conte come uno “strumento per conciliare la famiglia al lavoro, soprattutto per le donne”.

Come se il problema più grosso delle donne italiane fosse solo riuscire a “conciliare tutto”, piuttosto che affrancarsi da un modello sociale che le relega entro degli stereotipi estremamente limitanti e pericolosi. E se, nonostante tutti i soldi di questo mondo a disposizione, a una donna non interessasse conciliare la famiglia con il lavoro? 

Ripartire dalle famiglie non ci porterà lontano se non ci rendiamo conto che le donne, al pari degli uomini, possono volere anche altro oltre alla genitorialità. Come, ad esempio, non vivere nella costante paura della violenza maschile che si annida proprio, per prima cosa, nella famiglia. Durante il primo lockdown di marzo 2020 le chiamate ai centri antiviolenza sono aumentate del 73%. Peccato che, in proporzione, non siano aumentati anche i fondi pubblici a sostegno dell’inestimabile lavoro svolto da questi enti, anzi. I soldi erogati dallo Stato sono in perenne ritardo.

Ecco perché l’8 marzo Non Una Di Meno e altre realtà femministe e transfemministe  mobilitano le donne di tutta la penisola (e di altri Paesi) per scioperare da qualsiasi attività. Per mostrare che il mondo poggia sulle spalle delle donne e, se queste si fermano, gli uomini non potranno più fingere di non sentirne il peso

Ora che si cerca di immaginare un futuro oltre la pandemia, sarebbe auspicabile modellarne uno che non sfrutti il lavoro di cura delle donne per sostenere una società profondamente diseguale. Tuttavia ciò non significa che la cura sia una pratica che le donne devono necessariamente evitare se vogliono spezzare il giogo del patriarcato, al contrario. 

Prendo in prestito le bellissime parole di Marie Moïse, attivista e dottoranda in filosofia politica, per descrivere il potere politico di un atto che oggi spesso è dato per scontato da parte delle donne ma a cui bisognerebbe dare nuovi, estesi, significati:

“Quando la cura viene rivolta non più alla fonte di violenza o sfruttamento, ma verso le altre vite inquiete e in apprensione, la forza subalterna si accumula e l’asimmetria di potere inizia a vacillare”.

Nella cura e nella solidarietà femminile, troppo spesso sottostimate, c’è tutta la forza di cui abbiamo bisogno. Prendere fiato dall’imperativo di anteporre i bisogni degli altri ai propri e lottare insieme, fianco a fianco, per una comunità nuova è quello che auguro a tutte le donne in questa Giornata.

 

 

Editing a cura di Carolina Venco

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