Giunti alla conclusione del nostro progetto sulla rule of law in Europa centro-sudorientale, è il momento di tracciare una panoramica dei vari Paesi analizzati sulla base di due indicatori principali (l’indipendenza del potere giudiziario e la libertà dei media) e di volgere lo sguardo al futuro, soprattutto alla luce della nuova Rule of Law Regulation.
Tra incentivi e paradossi
La posizione di Bruxelles rispetto alla tutela dello Stato di diritto può essere definita come un paradosso, in quanto essa costituisce una condizionalità per entrare nell’UE, ma non per restarvi. Infatti, le norme sull’allargamento dell’Unione richiedono il rispetto dello Stato di diritto (art. 2 TUE e Criteri di Copenaghen), ma al tempo stesso le procedure a disposizione delle istituzioni per difendere l’Unione da eventuali violazioni da parte degli Stati membri sono caratterizzate da una generale prudenza e da una certa complessità. I Paesi dell’Europa centro e sudorientale presi in considerazione nel corso del progetto presentano diverse criticità rispetto all’indipendenza del sistema giudiziario e alla libertà dei media, i due indicatori scelti per analizzare lo stato di salute della rule of law.
Gli Stati membri
Partendo da Grecia, Slovenia e Croazia, tre Paesi entrati nell’UE in momenti molto diversi, la situazione è pressoché paragonabile ai livelli europei e di gran lunga migliore rispetto ad altri Paesi dell’Europa centro e sudorientale. Ciononostante, la fiducia nel potere giudiziario si attesta al di sotto della media europea e nel corso degli anni non sono mancati episodi di violenze contro i giornalisti, che hanno messo a repentaglio l’informazione indipendente.
Proprio per questo motivo Romania e Bulgaria, entrate “in ritardo” rispetto agli altri Stati membri del big bang enlargement del 2004, hanno visto l’adozione di meccanismi specifici per monitorare lo stato di avanzamento delle riforme per raggiungere i benchmark europei, il cosiddetto Meccanismo di cooperazione e di verifica (MCV). Eppure, la tutela dello Stato di diritto nei due Paesi rimane critica ed eccessivamente dipendente dalla volontà dei governi nazionali, in quanto l’incentivo più forte a disposizione di Bruxelles, quello della membership, si è esaurito con l’adesione.
Infine, Polonia e Ungheria sono tristemente note per essere passate da enfants prodiges a enfants terribles, in quanto sono i due Stati membri che hanno compiuto le violazioni più gravi della rule of law, in modo più o meno conforme alle rispettive norme costituzionali, soprattutto per quanto riguarda l’indipendenza delle corti.
I Paesi candidati e potenziali candidati
Passando invece agli Stati attualmente coinvolti nel processo di integrazione europea, il mancato rispetto dello Stato di diritto si traduce nell’impossibilità di aderire all’UE. I tre Paesi più avanti nel percorso (Albania, Montenegro e Macedonia del Nord) continuano a presentare delle criticità rispetto all’indipendenza del potere giudiziario e alla libertà dell’informazione, come segnalato anche dagli ultimi report sul progresso dei Paesi candidati/potenziali candidati nel percorso di integrazione europea (country progress report). In questi casi, l’incentivo della membership è ancora molto forte, ma si scontra con le azioni dei governi, non sempre interessati ad andare nella direzione degli standard europei.
Nei Paesi più indietro nel percorso (Serbia, Kosovo e Bosnia-Erzegovina), nonostante i lenti progressi dal punto di vista legislativo, gli alti livelli di corruzione e l’ingerenza della politica nel sistema giudiziario e nel mondo dell’informazione sono ancora tali da compromettere lo Stato di diritto, allontanando ulteriormente la prospettiva della membership europea.
Questa panoramica pare quindi confermare il paradosso. Tutti i gruppi di Paesi presentano difficoltà più o meno gravi nel rispetto della rule of law, ma i soli a vedersi privati dei benefici della membership europea sono i Paesi che tale status non l’hanno ancora ottenuto.
Il ruolo dell’UE: tra Rule of Law Conditionality e inerzia
Attualmente, le azioni dell’Unione europea rispetto alla tutela dello Stato di diritto si sono limitate al monitoraggio, con i country progress report per i Paesi candidati o potenziali candidati, e ora con i Rule of Law Reports per gli Stati membri, così come previsto dal Rule of Law Mechanism. Eppure, all’atto pratico, l’Unione è rimasta pressoché inerte, così come dimostrato dall’assenza di attività di promozione sul territorio o nelle istituzioni nei Balcani occidentali, lasciate alle ONG e alla società civile.
Qualcosa è parso cambiare con l’adozione della cosiddetta Rule of Law Regulation, la quale prevede una Rule of Law Conditionality per l’accesso ai fondi europei. In vigore dal 1° gennaio 2021, il meccanismo vincola i fondi europei al rispetto dello Stato di diritto, comportando una loro sospensione o decurtazione qualora la Commissione stabilisca una violazione della rule of law. In seguito alla proposta di attivazione del meccanismo da parte della Commissione, il Consiglio avrebbe un mese (o tre mesi in casi eccezionali) per votare tale misura, eventualmente approvandola a maggioranza qualificata. Il Regolamento prevede che le misure contro lo Stato membro debbano essere concluse entro massimo 7-9 mesi dall’avvenuta violazione della rule of law.
Alcuni lo hanno ritenuto uno strumento necessario e un sostanziale successo, soprattutto perché si applicherebbe non solo a violazioni “dirette” dello Stato di diritto nell’uso dei fondi europei (come ad esempio in caso di frode o corruzione), ma anche a violazioni sistemiche dei principi della rule of law (come ad esempio l’indipendenza del sistema giudiziario), qualora si ripercuotessero sulla gestione dei fondi.
Altri, invece, lo hanno molto criticato, in quanto ancora una volta l’Unione avrebbe fallito nello svolgere un effettivo ruolo costituzionale nel tutelare i valori su cui essa si fonda, ripiegando invece sui propri interessi economico-finanziari e sull’erogazione dei fondi. Ciò implica che infrangere i valori europei non sia una motivazione sufficiente per intervenire contro i responsabili, ma che si debba verificare un effettivo danno economico, quantificabile e solo allora “tangibile”. Paesi come Ungheria e Polonia hanno a lungo posto il veto contro un simile Regolamento, in quanto Stati membri potenzialmente più a rischio. L’obiezione principale si basa sul fatto che l’erogazione dei fondi dovrebbe dipendere dalla virtuosità nel loro utilizzo, più che al rispetto della rule of law.
La dichiarazione interpretativa del Consiglio europeo ha reso possibile il compromesso e il superamento dell’impasse istituzionale, ma ha in sé il potenziale di svuotare l’efficacia del Regolamento e renderlo l’ennesima procedura inutilizzabile. Ancora una volta, per quanto l’adozione di quest’ultimo strumento possa essere visto come un passo verso la “direzione giusta”, è necessario attendere per valutare quanto l’UE sarà effettivamente in grado di difendere la rule of law al proprio interno e di promuoverlo nei Paesi che si trovano sul percorso di adesione.
Quel che è certo è che un cambiamento radicale nella posizione di Bruxelles circa la difesa dei valori fondanti non è possibile o immaginabile con l’attuale assetto istituzionale dell’Unione, la cui revisione è vincolata da veti e maggioranze. Educare all’importanza dei princìpi dello Stato di diritto potrebbe essere un primo passo per sensibilizzare i cittadini ed esercitare una pressione sui governi. Solo così si potrebbe creare in futuro una congiuntura politica europea favorevole a una revisione dei trattati che dia più margine di azione alle istituzioni di Bruxelles.
Fonti e approfondimenti
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Editing a cura di Carolina Venco
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