Polonia e Ungheria sono considerate ormai da diversi anni le “pecore nere” dell’Unione europea per quanto riguarda il rispetto della rule of law e sono in aperto contrasto con Bruxelles. Non è sempre stato così, eppure l’indebolimento dello stato di diritto in questi due Paesi è tanto accentuato da spingere l’Unione europea ad applicare misure mai usate in precedenza, tra cui spicca l’articolo 7 del TUE, l’”opzione nucleare”.
Un’inversione di tendenza
Ai tempi del big bang enlargement, che ha portato nel 2004 all’ingresso nell’Unione di dieci nuovi Stati membri, Ungheria e – specialmente – Polonia venivano visti come enfants prodiges dell’integrazione europea. La loro determinazione nell’aderire alle regole comunitarie e nel chiudere i capitoli dei negoziati con la Commissione sembravano confermare il potere socio-culturale dell’Unione europea, capace di dirigere la transizione dei Paesi ex-comunisti verso la democrazia liberale.
Tuttavia, nel corso degli anni sono emerse una serie di questioni irrisolte nella gestione di una transizione che ha creato vincitori e vinti. Gli anni chiave sono il 2010 e il 2015: il primo coincide in Ungheria con il secondo mandato governativo di Fidesz, il partito di Viktor Orbán, che da allora non ha più lasciato la carica di Primo ministro; il secondo con la vittoria elettorale in Polonia del partito nazionalista e ultraconservatore Diritto e Giustizia (PiS), e l’avvio delle sue radicali riforme accentratrici. Entrambi i partiti hanno così dato inizio a un attacco più o meno evidente alle istituzioni democratiche del proprio Paese, usando metodi diversi ma sempre sfruttando a proprio vantaggio le contraddizioni e il malcontento di una base popolare rimasta a metà strada tra il proprio passato comunista e le promesse non sempre mantenute del modello occidentale.
L’Ungheria: il maestro
Prima del secondo mandato di Orbán nel 2010 – il precedente risaliva al 1998 – la situazione economica e sociale ungherese era drammatica, specialmente a causa della crisi economica del 2008. Orbán impostò la propria campagna elettorale denunciando l’incompetenza dell’élite comunista, secondo lui ancora segretamente al potere, e riunendo gli ungheresi sotto una concezione comune di nazione dalle fondamenta conservatrici, cristiane e incentrate sulla famiglia. Inoltre, sottolineò l’importanza di recuperare la sovranità ungherese, compromessa dai burocrati di Bruxelles. I risultati furono trionfali, e da quel momento, grazie al boom economico avvenuto sotto la sua guida e ai suoi duri attacchi contro l’Unione, a seguito della crisi migratoria del 2015, Orbán ottenne per ben tre volte una maggioranza tale da permettergli di modificare agevolmente la Costituzione. Tali modifiche hanno permesso a Orbán di concentrare il potere politico nelle proprie mani e di svuotare la democrazia ungherese senza compiere mai alcun atto formalmente illegale, ma emendando piuttosto la Costituzione a proprio vantaggio.
Indipendenza del giudiziario e corruzione
Sin dalle prime riforme nel 2012, il percorso di accentramento ha avuto tra i suoi obiettivi principali indebolire l’indipendenza del potere giudiziario. Il caso più evidente riguarda la gestione dei tribunali, esercitata dal presidente dell’Ufficio giudiziario nazionale (OBH) sotto la vigilanza dell’indipendente Consiglio nazionale della magistratura (OBT). Le varie riforme hanno dato sempre più potere al presidente dell’OBH, organo politico eletto dal Parlamento, e hanno impedito all’OBT di esercitare la propria funzione di controllo, aumentando la discrezionalità politica sulla gestione del sistema giudiziario. Molti presidenti di corti regionali, inoltre, sono ormai nominati in virtù della propria lealtà al presidente dell’OBH, rendendone l’influenza pervasiva anche a livello locale. In generale, è ormai necessario doversi dichiarare in linea con il regime di Orbán per sperare di fare carriera nel potere giudiziario o per ottenere una serie di vantaggi economici.
Quest’ultimo aspetto è legato a doppio filo alle problematiche in ambito di corruzione evidenziate dal Rule of Law Report del 2020, stilato dalla Commissione europea. Il livello di impunità quando i casi di corruzione sono legati a funzionari pubblici o a esponenti politici è rimasto alto e costante nel corso degli anni, e nessuna azione specifica è stata intrapresa dal governo per contrastare il fenomeno.
Libertà dei media
Orbán è stato anche più volte accusato di avere diretto controllo su gran parte dei media ungheresi e di silenziare quei pochi che gli si oppongono. L’indipendenza dell’Autorità sui media, l’organo predisposto a garantire la trasparenza nel settore, è seriamente a rischio, dato che tutti i suoi membri sono stati nominati direttamente dal Fidesz. Inoltre, è stata negata la sua autorità in materia di scrutinio nei confronti del KESMA, un conglomerato di 470 testate giornalistiche favorevoli al governo che dal 2018 domina la scena mediatica ungherese, sulla base che questo rappresenti una materia di importanza strategica nazionale.
È stato calcolato, nello stesso Rule of Law Report, che solo il 20% dei media in Ungheria è indipendente. Questi hanno spesso denunciato ostruzionismo – è stato impedito loro di accedere a conferenze stampa o di porre domande – o atteggiamenti intimidatori – soprattutto sotto la minaccia del carcere, previsto in caso di diffamazione.
La Polonia: l’allievo
Diversamente dal caso ungherese, nessuno si sarebbe aspettato l’improvviso attacco alle istituzioni democratiche portato avanti dal PiS a seguito della vittoria del 2015. Questo è avvenuto principalmente per due motivi. In primis, la Polonia veniva da un decennio dominato dalla Piattaforma civica (PO), partito moderato, conservatore e filo-europeista, il cui leader Donald Tusk sarebbe poi diventato presidente del Consiglio europeo. In secondo luogo, il PiS non impostò la propria campagna elettorale del 2015 in modo particolarmente aggressivo, né annunciò di voler riformare radicalmente la Costituzione. La chiave di volta fu l’inaspettata maggioranza assoluta conquistata dal PiS, che gli permise di governare senza bisogno di una coalizione.
Da quel momento il partito, guidato informalmente da Jarosław Kaczyński, ha intrapreso una serie di riforme accentratrici, prendendo come riferimento il modello di Orbán. A differenza del Primo ministro ungherese, però, Kaczyński ha in ben più di un’occasione violato la legge e addirittura la Costituzione polacca per raggiungere il proprio obiettivo. Con questa mossa, ha perso il sostegno di gran parte dell’elettorato polacco, soprattutto quello urbano e più istruito, che rappresenta quasi metà della popolazione. Se l’Ungheria è infatti unita sotto il proprio Primo ministro, la Polonia risulta spaccata in due: chi si rivede nella retorica nazionalista, conservatrice e fortemente cattolica di Kaczyński (molto simile a quella proposta da Orbán) e chi abbraccia ideali più liberali, laici e moderati.
Indipendenza del giudiziario
Le riforme portate avanti dal PiS hanno politicizzato i più alti organi giudiziari del Paese, svuotandoli della propria funzione e rendendoli alleati del governo – come nel caso del Tribunale costituzionale e della Corte suprema. Spicca la riforma sul pensionamento dei giudici, che ha rimosso dalla propria carica oltre un terzo dei membri della Corte suprema in modo da poterli sostituire con giudici favorevoli al regime. Anche le corti ordinarie e il Consiglio nazionale della magistratura (KRS) sono stati colpiti dalle riforme. Nello specifico, i giudici del KRS sono ora nominati dal Parlamento, quando in precedenza erano eletti dai propri pari. Emendamenti e leggi sono stati spesso approvati in fretta, nel cuore della notte, in assenza dei deputati dell’opposizione e in aperta violazione delle norme procedurali e costituzionali polacche.
Particolarmente controverso è anche il fatto che le cariche di procuratore generale e di ministro della Giustizia siano ricoperte dalla stessa persona. Così un ministro, politico per definizione, ha il potere di trasferire procuratori o di fornire istruzioni sulla gestione di alcuni casi – anche quando questi hanno una forte componente politica.
Libertà dei media
Nel panorama polacco, la massima autorità in materia di media è il Consiglio nazionale delle Telecomunicazioni (KRRiT). Sebbene la Costituzione ne garantisca l’indipendenza, soprattutto le procedure di nomina dei suoi membri destano sospetti e suggeriscono una certa influenza politica. Inoltre, in Polonia non vi sono chiare leggi che regolino il controllo politico sui media.
I problemi maggiori riguardano la crescente criminalizzazione del reato di diffamazione, usato sempre più spesso dalle corti contro media indipendenti e critici verso il governo. A ciò si aggiunge la severità nei confronti di insulti contro i simboli dello Stato, la religione e i pubblici ufficiali, usati strumentalmente contro diversi giornalisti.
Nonostante queste criticità, la situazione polacca è sicuramente migliore rispetto a quella ungherese, con una maggiore libertà e rilevanza dei media non governativi, come emerge dalle analisi di Reporters sans frontières nei report su Ungheria e Polonia.
Un percorso diverso dai presupposti simili
La differenza principale tra il caso polacco e quello ungherese sta nella modalità con cui si è arrivati al (parziale) svuotamento delle istituzioni democratiche. Orbán vi è arrivato in oltre un decennio di maggioranze schiaccianti, modificando legalmente la Costituzione e stabilizzando un Paese prima di lui sull’orlo del baratro, ottenendo in cambio il supporto quasi incondizionato della popolazione. Kaczyński ha, invece, usato metodi molto più bruschi, violando apertamente la propria Costituzione e allargando la preesistente frattura all’interno della società polacca. Le reazioni della popolazione evidenziano anche un diverso ruolo della società civile: più vivace, libera e plurale quella polacca, più controllata dall’élite al potere quella ungherese.
Ciò che è simile riguarda innanzitutto il risultato, che ha spinto l’Unione europea a innescare la sua cosiddetta “opzione nucleare” (l’articolo 7 del TUE) nei confronti di entrambi i Paesi. Il processo, altamente politicizzato e dipendente da requisiti procedurali troppo complessi, non ha portato al cambio di rotta sperato e ha sottolineato le mancanze istituzionali dell’Unione nell’influenzare i propri Stati membri, anche quando in ballo ci sono valori fondanti come lo stato di diritto.
Tuttavia, il punto più in comune riguarda i presupposti creati dai due leader per legittimare le proprie azioni. Entrambi hanno accusato i passati governi di non aver adeguatamente gestito la transizione post-comunista e di aver permesso con le loro negoziazioni pacifiche di aver mantenuto al potere la vecchia classe politica comunista (in Polonia nota come układ, “il sistema”). Tale classe avrebbe agito di concerto con le forze liberali, incarnate dall’Unione europea, per indebolire l’identità nazionale e le radici cristiane, che sono invece da difendere e preservare. Entrambi hanno quindi puntato sulla forza unificatrice del sovranismo, esemplificata dalle violente reazioni ai piani di riallocazione dei migranti attuate dall’Unione europea e interpretate come tentativi di “de-cristianizzazione”.
In altri termini, entrambi hanno polarizzato il dibattito socio-politico, improntandolo sull’opposizione nei confronti di un “altro”, che può essere comune tra i due Paesi (i comunisti, l’Unione europea, i migranti, i non patrioti), o in certi casi individuato in patria. In Ungheria, il “nemico” è rappresentato dal miliardario ungaro-statunitense George Soros, la cui università è stata espulsa da Budapest ormai nel 2018. In Polonia, invece, il caso più recente riguarda l’intellettuale Wojciech Sadurski, accusato di diffamazione dal PiS per diversi tweet critici verso il governo. Difeso tanto all’interno quanto all’esterno dell’ambiente accademico, Sadurski è diventato un simbolo della lotta per la libertà di espressione, opposto a un tipo di discorso populista che, oltre i confini polacchi e ungheresi, continua a riscuotere grande successo politico anche nel resto d’Europa.
Fonti e approfondimenti
Commissione europa, Rule of law report Hungary, 2020.
Commissione europea, Rule of law report Poland, 2020.
Brand, Constant, Independence of Hungary’s judiciary ‘under threat’, Politico.eu, 20/03/2012.
Amnesty International, Fearing the unknown – How rising control is undermining judicial independence in Hungary, 2020.
Hopkins, Valerie, How Orban’s decade in power changed Hungary, Financial Times, 21/05/2020.
Szczerbiak, Aleks, An anti-establishment backlash that shook up the party system? The October 2015 Polish parliamentary election, European Politics and Society, 2017.
Sadurski, Wojciech., How democracy dies (in Poland): A case study of anti-constitutional populist backsliding, Legal Studies Research Paper, 2018.
de Búrca, Gráinne; Morjin, John; Steinbeis, Maximilian, Stand with Wojciech Sadurski: his freedom of expression is (y)ours, Verfassungsblog, 2019.
Editing a cura di Carolina Venco