Canabis protectio: intervista a Flavia Pansieri

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Il 2 dicembre 2020, la Commissione per gli stupefacenti dell’ONU ha rimosso la cannabis dalla lista delle sostanze più pericolose per gli esseri umani. Dopo più di settanta anni, i Paesi membri della Commissione hanno finalmente dato un nuovo status a questa pianta, segnando una svolta politica storica.

Per comprendere meglio le dinamiche che hanno portato a questo cambiamento, abbiamo intervistato la dottoressa Flavia Pansieri, ex Alto commissario aggiunto ai diritti umani per le Nazioni Unite. Durante la sua carriera all’ONU è stata direttrice del Programma di controllo delle droghe in Laos, direttrice esecutiva aggiunta per il Fondo di sviluppo per le donne a Vienna e coordinatrice di numerosi programmi per lo sviluppo nell’area MENA. La sua testimonianza è un contributo prezioso, perché ci offre una prospettiva interna alle istituzioni internazionali e un punto di vista critico sugli effetti della criminalizzazione della cannabis sui diritti umani.

Quali fattori hanno contribuito alla decisione ONU del 2 dicembre 2020?

La presenza della cannabis tra le sostanze schedule 4 è sempre stata un’anomalia. Infatti, la Tabella IV della Convenzione contiene esclusivamente droghe particolarmente pericolose e questo non è il caso della cannabis. L’aver mantenuto questo status fino ad oggi è stata una scelta sostanzialmente politica e trainata da quei Paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti, che avevano politiche molto restrittive non solo nei confronti delle cosiddette droghe pesanti, ma anche della cannabis. È importante ricordare che non è l’ONU a prendere le decisioni, ma sono i Paesi membri, nel contesto dell’ONU, che prendono certe posizioni piuttosto che altre. Il fatto che in passato la cannabis fosse strettamente regolamentata era dovuto a un contesto socio politico che oggi sta cambiando. Possiamo riscontrarlo non soltanto grazie al Canada o all’Uruguay, ma guardando ad altri Paesi che, anche con orrore dell’ODC (Office of drugs and crime, ndr), stanno prendendo scelte alternative. Non solo per quel che riguarda la legalizzazione o la decriminalizzazione della cannabis, ma soprattutto in termini di trattamento di persone dipendenti da droghe più pesanti, un tempo solo criminalizzate e oggi riconosciute come bisognose di trattamento di sostegno. Oggi, le strategie di harm reduction, (“riduzione del danno”: con questa espressione ci si riferisce a politiche pubbliche volte a ridurre gli effetti negativi che ricadono sui consumatori di sostanze stupefacenti, sul piano dell’offerta sanitaria, dell’inclusione sociale e legale ndr) che per un certo periodo sono state considerate “anatema” all’interno dell’ODC, sono riconosciute come valida alternativa rispetto a politiche più rigide.

Anche la pandemia, forse, può aver contribuito a smuovere alcuni dei Paesi che in passato erano un po’ più tentennanti. Ma da tempo era in atto una discussione, anche all’interno della Commissione sui narcotici, rispetto alla necessità di rivedere alcuni approcci, perché non più sostenibili nel contesto attuale. Ad esempio, da quel poco di ricerca che viene fatto, sappiamo che alcune terapie con la cannabis possono essere molto efficaci, specie per la riduzione del dolore in malati terminali – e non solo (anche al gatto di mia figlia che prende il cbd per l’insufficienza renale e per stimolare l’appetito). Inoltre, la disattenzione di uno dei Paesi principali, gli Stati Uniti, impegnati con il contenzioso delle elezioni e con la crisi pandemica, può aver contribuito ad aiutare il passaggio della decisione. Resta il fatto che, secondo me, i tempi erano maturi e anche senza pandemia si sarebbe arrivati a una decisione che doveva essere presa da tempo. In sintesi, però, il passaggio di categoria della cannabis è il risultato del riconoscimento, da parte di un numero sufficiente di membri della Commissione sui narcotici per avere la maggioranza, che il mondo è cambiato e quindi non è più giustificabile mantenere la cannabis allo stesso livello delle droghe pesanti.

All’interno dell’ONU chi si è opposto più fermamente al cambiamento di status della cannabis? E quali sono i fattori che hanno contribuito maggiormente a questa opposizione?

Premetto che io sono al di fuori del sistema e del programma antidroga da un numero di anni non indifferente, e mi sono occupata di altro nel frattempo, quindi non ho il polso sulle dinamiche interne tra i Paesi membri, cioè quelle che non si vedono. Posso dire, però, che quando un gruppo regionale prende una certa posizione è dovuto sia a una decisione autonoma, sia a quello che potremmo chiamare un “incoraggiamento” da parte di qualche Paese, che invece vuole – o non vuole – che certe decisioni vengano prese. Nel caso dei Paesi africani per esempio (che si sono opposti anche nella sessione del 2 dicembre scorso, ndr), esiste una preoccupazione dovuta al fatto che, negli ultimi decenni, l’Africa è diventata sempre più una zona di transito. Non solo per la cannabis, ma in generale per tutti i tipi di sostanze stupefacenti. Quando un Paese diventa zona di traffico non c’è mai solo il traffico, ma c’è sempre qualcosa che resta nel Paese. Si devono pagare baksheesh (le “mance” ndr) e creare le vie per poter istituire questi traffici. Quindi si genera un grosso impatto economico sulla popolazione locale in Paesi che spesso non hanno gli strumenti non solo di conoscenza, ma più propriamente finanziari per far funzionare un sistema di controllo del traffico e di trattamento delle persone che, eventualmente, dovessero sviluppare dipendenze di qualsiasi tipo. Questo, secondo me, può spiegare un po’ la riluttanza dei Paesi africani, al di là di possibili incoraggiamenti da parte di altri Paesi membri, nel sostenere una posizione un pochino più rigida.

Inoltre, posso assicurare che c’erano delle posizioni piuttosto rigide verso la cannabis e la sua regolamentazione sancita dalle convenzioni all’interno della Commissione anti-narcotici. C’era un diffuso sentimento di sacralità verso le convenzioni. Io non sono mai stata d’accordo. Le convenzioni sono importanti ed è importante che si seguano, ma solo fintanto che sono e rimangono valide. Lo dico con l’esperienza del mio lavoro ai diritti umani, dove è importante ed essenziale che ci siano certe convenzioni, perché permettono sia di ingaggiare un dialogo coi Paesi che ancora non le hanno ratificate, affinché le ratifichino, sia con quelli che magari le hanno già ratificate, affinché le mettano in pratica, cosa che spesso non fanno. Non sto negando l’importanza delle convenzioni, però, come si può cambiare una Costituzione, si può cambiare anche una convenzione, una volta che si riconosca non essere più adatta al contesto storico sociale in cui ci si trova.

La criminalizzazione della cannabis, con il conseguente rallentamento dello studio di questo prodotto, può essere considerato un fattore che ha contribuito al rallentamento dello sviluppo di certe aree del globo?

La risposta semplice è assolutamente sì. Ci troviamo di fronte a una carenza di conoscenze circa i vantaggi e/o gli svantaggi dell’impiego della cannabis e questa carenza di ricerca rende difficile, alle volte, sostenere argomentazioni favorevoli. Un ricercatore è sicuramente dissuaso dal lavorare su un qualcosa che è considerato illegale e che lo può mettere in pericolo personalmente. Quindi questa situazione ha impedito, o quantomeno rallentato, una ricerca puntuale ed efficace rispetto ai diversi scopi della cannabis. Dopotutto questa pianta può essere utilizzata per produrre tessuti, come materiale da costruzione o come terapia sanitaria alternativa. Tutti elementi che sarebbero stati utili allo sviluppo di certi Paesi, se si fosse potuto più agevolmente studiare come utilizzarla, fuori da un contesto che, alle volte, viene seriamente criminalizzato. Che poi questo sia stato un elemento principale sullo sviluppo non lo direi. Esistono anche tanti altri fattori che vanno presi in considerazione. Credo che un ritardo nello sviluppo sia generalmente dovuto a problemi di governance, perché mancano le istituzioni, le competenze tecniche, amministrative e burocratiche per promuovere ricerche e introdurre nuove tecnologie, in questo contesto c’entra anche la cannabis, ma non è l’unico elemento.

Che effetto crede possano avere, all’interno dell’ONU, le politiche di apertura alla cannabis, o ad altre sostanze stupefacenti, adottate da Paesi come Uruguay, Canada e Portogallo?

Credo sia molto importante che, nel contesto del dialogo all’interno della Commissione anti-narcotici, si radichi una predisposizione positiva verso queste sperimentazioni. Ci sono ancora alcuni Paesi, che consideriamo parecchio avanzati, che su questo argomento hanno delle posizioni sorprendentemente conservatrici. Sto pensando, per esempio, alla Svezia che tuttora ha un atteggiamento molto intransigente sia verso le droghe pesanti che verso quelle leggere. Era una situazione che mi aveva preoccupato particolarmente quando ero all’Alto commissariato ONU per i diritti umani, proprio perché criminalizzando l’utilizzatore si incentivano comportamenti dannosi, sia da parte del singolo che della comunità. Come la ricerca delle sostanze nel mercato nero, la paura e la difficoltà di accedere ai servizi sanitari o la stigmatizzazione sociale. Tutti questi comportamenti comportano una violazione del diritto alla salute, e quindi dei diritti umani, di cui il Paese in questione è responsabile. Quindi, credo sia importante non partire da posizioni preconcette, ma aprirsi al dialogo con questi Paesi che tentano vie nuove e apprendere le buone pratiche che portano avanti.

Per risolvere il problema dell’abuso di sostanze stupefacenti e garantire il diritto alla salute, decriminalizzazione e liberalizzazione sono politiche necessarie?

Per quanto riguarda le droghe pesanti credo sia necessario continuare a mantenere uno stretto controllo, perché possono creare molti problemi agli individui e alla società. Per quelle leggere, credo dovremmo cominciare trovando proprio un’altra terminologia per classificarle. Perché non si parla solo di cannabis e già dire che sono droghe ci mette in una direzione sbagliata. Senza dubbio la decriminalizzazione è necessaria. Anche perché la criminalizzazione della cannabis, in particolare, si porta dietro delle connotazioni tragicamente razziali. Si è agito molto più pesantemente contro un afroamericano in possesso di qualche grammo di cannabis, che contro un broker che nel fine settimana si faceva di cocaina. Quindi c’è un discorso di equità, di giustizia e di rispetto nei confronti dei diritti umani di tutte e tutti che è giusto garantire. Credo sia necessario molto studio e ricerca sulla cannabis, sui suoi aspetti positivi e su come limitare e controllare le conseguenze negative. Purtroppo, ancora non ne sappiamo a sufficienza a causa della carenza di ricerca derivata dalla sua criminalizzazione. In ogni caso, spingerei comunque per radicare nella mente di tutte e tutti questa grossa distinzione tra le sostanze schedule 4 e la cannabis che, finalmente, è stata rimossa da questa classificazione e dalle conseguenze che ne derivano.

 

 

Editing a cura di Carolina Venco

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