L’abolizionismo: immaginare un mondo senza polizia e carceri

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La scorsa estate gli Stati Uniti sono stati attraversati, per tre lunghi mesi, da manifestazioni che hanno inondato pressoché ogni città del Paese. Riunitesi attorno al movimento Black Lives Matter, dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis da parte del dipartimento di polizia locale, molte persone hanno iniziato a chiedere a gran voce lo smantellamento del sistema poliziesco e carcerario statunitense. Una polizia sempre più militarizzata ha storicamente colpito in modo repressivo le minoranze e le fasce più marginalizzate della società statunitense, seguendo le leggi approvate al Congresso da maggioranze di vario colore. Lo stesso approccio si allarga alle carceri, nel Paese che ha il più alto tasso di detenzione al mondo.

Considerata l’enorme quantità di fondi pubblici che viene riversata nelle casse di dipartimenti di polizia e istituzioni carcerarie – i corpi di polizia a New York e Los Angeles hanno, da soli, più di 10 miliardi di dollari di finanziamenti – non sorprende che la richiesta più forte del movimento fosse quella di definanziare la polizia (Defund the Police). Per molti manifestanti, questo sarebbe dovuto essere un primo tassello verso l’abolizione di polizia e carceri. L’abolizionismo, infatti, prevede un percorso lungo e complesso per arrivare all’eliminazione di queste istituzioni.

 

Abolizionismo e giustizia trasformativa

L’abolizionismo è un concetto strettamente connesso a quello della Transformative Justice (TJ), o giustizia trasformativa. La TJ è una cornice teorica che ha come obiettivo mettere in campo strumenti e pratiche che rispondano alla violenza rompendo il ciclo che la rigenera. Già qui si vede una differenza sostanziale con l’approccio repressivo che promuovono polizia e carceri: è comprovato, infatti, che entrambe le istituzioni siano poco efficaci nella riduzione della criminalità, mentre il carcere può essere addirittura criminogeno, ovvero associato con un aumento della criminalità. In apparenza questo concetto è controintuitivo, ma nella realtà polizia e carceri sono corpi sociali che agiscono in modo violento e che, soprattutto, non risolvono i problemi strutturali che spesso sono all’origine della violenza stessa – povertà, marginalizzazione, isolamento. La giustizia trasformativa e l’abolizionismo hanno invece come ambizione quello di spezzare questo circolo vizioso.

Questo può avvenire, secondo i teorici della TJ, costruendo comunità che mettano al centro valori e pratiche che si sostituiscano all’azione repressiva dello Stato. Dove polizia e carceri creano escalation, violenza e isolamento, la TJ vorrebbe appunto trasformare il modo in cui le comunità vivono e il modo in cui le persone si rapportano tra loro, creando legami solidaristici, basati sulla cooperazione e sulla responsabilizzazione condivisa della creazione di un benessere comune.

Uno dei presupposti fondamentali della giustizia trasformativa è che la violenza è resa possibile non da alcune “mele marce”, quindi da singoli, ma da una struttura che la giustifica e la normalizza. Casi di abusi domestici, di attacchi contro le minoranze o i migranti, di aggressioni a persone della comunità LGBTQ+ non avverrebbero quindi a causa di alcuni individui devianti, ma isolati. Sarebbero, invece, il risultato di alcuni sistemi – il patriarcato, il razzismo, l’omofobia ad esempio – che sono strutturali, ovvero incorporati nelle norme e nelle azioni che regolano la nostra vita, a tutti i livelli.

Il problema di questi sistemi è che sono violenti e disgreganti, ovvero rendono le comunità più fragili: marginalizzano alcune comunità – minoranze etniche e razziali, donne, persone LGBTQ+ – e creano esclusione sociale, spezzando i legami solidaristici tra membri della stessa società. La TJ, invece, vede come obiettivo costruire delle collettività, ovvero comunità che siano unite da una presa di responsabilità collettiva per spezzare questi processi.

Uno dei concetti fondamentali è, non a caso, quello di responsabilità: chi crea un danno nella comunità non deve essere incolpato, giudicato ed escluso, come accade con l’azione di polizia e carceri. L’obiettivo diventa, invece, provare a reinserire questa persona nella collettività, rendendola una parte sana del tutto. Secondo i teorici della Transformative Justice, questo può avvenire a partire da un’assunzione di responsabilità individuale e un impegno a non commettere più l’azione violenta che ha creato il danno in principio. Al contempo, è necessario costruire meccanismi collettivi per supportare sia chi ha subito violenza, sia chi l’ha creata nei propri percorsi di guarigione.

 

Come nasce la criminalità?

Se il presupposto è quello di avere comunità dove le norme prevalenti siano quelle della cooperazione e dell’inclusione, diventa quindi evidente come polizia e carceri non siano le istituzioni adatte a svolgere questo compito. Soprattutto, non risolvono le condizioni alla base dei comportamenti cosiddetti criminali.

La genesi della criminalità spesso viene attribuita agli atteggiamenti dei singoli: come quando si parla, in maniera fallace, di “mele marce” nella polizia, per dire che gli agenti violenti sono dei casi particolari nelle forze dell’ordine, allo stesso modo è fallace interpretare i comportamenti devianti come anomali, prodotti da attitudini individuali. Al contrario, l’abolizionismo ritiene – in linea con la maggioranza della ricerca delle scienze sociali sul tema, in particolare quella di autori come Robert J. Sampson – che la criminalità nasca dove ci sono comunità più fragili e dove c’è esclusione sociale. Per dirla in breve, non si nasce criminali, anzi: la devianza è frutto dell’oppressione che marginalità, razzismo, sessismo generano, spingendo gli individui verso comportamenti anomali. Ad esempio, le pressioni che disuguaglianze e povertà generano possono spingere gli individui a perdere fiducia in un ordine costituito che non fornisce loro protezione, laddove quest’ordine è rappresentato da leggi, norme e istituzioni.

Da qui la dicotomia che individuano i teorici dell’abolizionismo e della TJ: se violenza e crimine sono generati da povertà, isolamento e sistemi di oppressione, polizia e carceri sono controproducenti. Non solo il loro intervento non diminuisce la povertà e l’esclusione sociale, anzi: spesso la riproduce, peggiorando le condizioni materiali di chi viene arrestato o incarcerato. Allo stesso tempo, questi corpi sociali sono storicamente oppressivi, quindi disfunzionali nel momento in cui l’obiettivo non è più la prevenzione della criminalità, ma la costruzione di società egualitarie.

L’abolizionismo, quindi, interpreta in maniera estremamente critica il ruolo di polizia e carceri nella società: non sono garanti della sicurezza dei cittadini, bensì protettori dello status quo. Questa teoria ritiene che l’azione violenta dello Stato, svolta attraverso le forze dell’ordine e i penitenziari, non sia frutto del caso o di comportamenti isolati, ma sia invece il compito naturale che questi corpi sociali hanno sempre svolto. Tracciando la loro storia e il loro sviluppo, gli abolizionisti vedono in queste istituzioni due forze che hanno protetto un ordine suprematista e profondamente diseguale ovunque hanno operato. Lo stesso avviene anche oggi, tramite azioni come i pattugliamenti, gli arresti e la violenza nelle comunità nere e latinx; tramite gli sgomberi delle persone senzatetto; tramite la noncuranza con cui gestiscono i casi di violenza domestica o sessuale contro le donne.

I problemi del riformismo

Nel momento in cui la questione è compiere una trasformazione, passando da comunità povere e marginalizzate a società eguali e inclusive, l’abolizione di polizia e carceri diventa un passaggio naturale di questo processo. Se la Transformative Justice si concentra, infatti, sulla costruzione di legami all’interno della comunità, questo non può comunque prescindere da un approccio radicalmente diverso da parte dello Stato nell’affrontare il problema della violenza.

Polizia e carceri vengono individuate come il cuore del problema perché sono il braccio armato e repressivo dello Stato. L’abolizionismo vede l’istituzione statale come afflitta dagli stessi problemi strutturali di cui sopra: un corpo razzista, patriarcale e classista, che per questo crea e riproduce modelli sociali opprimenti. 

Le teorie conservatrici e liberali, pur se con le loro differenze, guardano allo Stato (e lo stesso discorso vale per i mercati) come a un’istituzione funzionante, dove le storture sono il frutto di attitudini individuali, facilmente correggibili con delle riforme. L’abolizionismo si pone in netto contrasto rispetto a questa attitudine, riconoscendo gli atteggiamenti oppressivi come strutturali. Ovvero, che permeano ogni ambito della vita pubblica, dal mercato del lavoro ai processi legislativi passando, appunto, anche per il ruolo di forze dell’ordine e delle istituzioni penitenziarie.

L’abolizionismo, quindi, si oppone a un paradigma riformista: i problemi che individua sono strutturali, ovvero legati al funzionamento stesso dello Stato, di cui polizia e carceri sono l’espressione più violenta. Per questo, i tentativi di riforme parziali sono destinati a infrangersi contro un sistema che ha problematiche molto più profonde. Non è un caso, ad esempio, che le riforme di stampo liberale delle forze dell’ordine negli USA si siano frantumate contro il muro razzista, sessista e corporativista che le permea. I bias training (ovvero le formazioni agli agenti per renderli più imparziali) e l’uso delle body cams (videocamere incorporate) sono alcuni degli strumenti spesso sostenuti quando si parla di riformare la polizia. Tuttavia, si sono sempre dimostrati inefficaci nel ridurre la violenza che le forze dell’ordine perpetrano.

In questa sua battaglia contro il riformismo, l’abolizionismo si configura come un movimento che è per natura anticapitalista e profondamente trasformativo. Riconosce, cioè, che l’oppressione che lo Stato genera e riproduce attraverso razzismo, omofobia, patriarcato e criminalizzazione della povertà deriva da un sistema di produzione che per sopravvivere necessita delle disuguaglianze e di un ordinamento giuridico che le legittimi. Laddove il riformismo liberale ritiene di dover sanare solo alcune parti del sistema, gli abolizionisti riconoscono la necessità di trasformare la società, costruendone una radicalmente diversa.

 

Sicurezza e insicurezza sociale e la strada verso l’abolizionismo

I passaggi che dovrebbero portare all’eliminazione di polizia e carceri sono spesso fraintesi. Di solito si crede che gli abolizionisti vogliano un loro smantellamento repentino, senza colmare il vuoto di sicurezza – pur se repressiva – che lascerebbero. In realtà, questo movimento si basa su un concetto più profondo: l’obiettivo è un cambiamento radicale delle politiche di sicurezza, con l’obiettivo di rendere queste istituzioni, e quindi la repressione dello Stato, obsolete.

Carceri e polizia mantengono un ordine sociale più o meno sicuro, ma uno dei grossi punti di scontro per chi si immagina un mondo senza queste istituzioni è sul concetto di sicurezza stesso. Gli abolizionisti intendono questa come sicurezza sociale: libertà dalla povertà, dal patriarcato, dall’eteronormatività, dal razzismo. Libertà da tutte quelle strutture che creano insicurezza – intesa come esclusione sociale – e senso di non appartenenza, quindi devianza.

Gli approcci tradizionali alle politiche di sicurezza prevedono un intervento dello Stato a posteriori. Al contrario, l’approccio abolizionista che mira a creare società più sicure ha come obiettivo quello della prevenzione della criminalità, riconoscendo come questo possa avvenire proteggendo le persone da povertà ed esclusione, attraverso investimenti in welfare, alloggi pubblici, istruzione universale. Come scrive Angela Davis, storica esponente del movimento: “Se i fondi attualmente diretti a queste istituzioni – dipartimenti di polizia, Immigration and Customs Enforcement (ICE), carceri e strutture di detenzione per immigrati – venissero dirottati verso il bene pubblico, la necessità e la giustificazione per la costante espansione della violenza dello Stato diminuirebbero sicuramente”.

L’abolizionismo è quindi un processo atto a rendere polizia e carceri obsolete, tramite un progressivo reindirizzamento dei finanziamenti da queste verso investimenti nelle comunità, per garantire il loro benessere. Non è da intendere come un cambiamento repentino, bensì come una trasformazione costante, che va al di là di polizia e carceri. Il movimento si pone come obiettivo quello di cambiare radicalmente i rapporti sociali: non più basati sulle disuguaglianze, sulla competizione, sullo sfruttamento e sull’oppressione, ma sulla cooperazione, sul mutualismo e sull’eguaglianza delle persone.

Polizia e carceri sono il primo target del movimento perché sono uno degli ostacoli più visibili verso la costruzione di una società diversa da quella odierna, ma il vero obiettivo è più ampio. Di fatto gli abolizionisti vedono come possibile una riorganizzazione in toto del sistema, dove violenza e repressione sarebbero, semplicemente, non più necessarie per mantenere un ordine sociale che verrebbe trasformato.

Quali politiche per rendere polizia e carceri obsolete?

La strada verso l’abolizionismo è quindi un processo lungo, che ha una visione che va oltre l’intervento su polizia e carceri. Ciononostante, concentrandosi su queste, l’abolizionismo immagina delle politiche che possano renderle progressivamente obsolete, servendo al contempo l’obiettivo di creare una società giusta ed eguale.

In questo senso, il definanziamento della polizia – e lo stesso discorso vale per il sistema carcerario – e il reindirizzamento dei fondi verso il potenziamento del welfare sarebbero il primo passo del processo. Garantire un alloggio, un’istruzione, un reddito e il senso di appartenenza a una comunità sono le componenti basilari della sicurezza sociale, così come è concettualizzata dall’abolizionismo. Al contempo, ridurre l’azione repressiva della polizia richiede un dirottamento dei fondi dalle loro casse verso quelle di corpi sociali con personale qualificato per gestire emergenze come quelle legate all’abuso di sostanze, a crisi di salute mentale, a casi di violenza domestica. Tutto questo dovrebbe avvenire, idealmente, ponendo al centro le comunità, i loro membri e le loro esigenze, come richiede la giustizia trasformativa. In questo senso, esperienze come quella di Denver, dove degli operatori sanitari hanno sostituito i poliziotti in questi compiti, lasciano ben sperare.

L’idea di base è quella di ridurre progressivamente non solo i fondi, ma in generale il potere e il raggio d’azione di cui le istituzioni repressive dispongono oggi, concentrando gli investimenti nelle comunità. Secondo l’abolizionismo, alla fine di questo processo a lungo termine polizia e carceri scomparirebbero naturalmente, poiché non ci sarebbe più bisogno di loro per mantenere un ordine sociale non più imposto tramite la repressione, ma basato sull’eguaglianza e il benessere di tutti.

 

Fonti e approfondimenti

Davis, A. Y. (2020) Why Arguments Against Abolition Inevitably Fail, Medium. 

Kaba, M. ‘Opinion | Yes, We Mean Literally Abolish the Police’, The New York Times, 12/06/2020. 

Maynard, R. e Sahra, S. (2020) ‘Building the World We Want: A Roadmap to Police Free Futures in Canada’.

Mingus, Mia ‘Transformative Justice: A Brief Description’, Leaving Evidence, 09/01/2019.

Vitale, A. S. (2017) The End of Policing. London ; New York: Verso.

 

Editing a cura di Elena Noventa

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