Il Big Bang europeo: l’allargamento del 2004

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L’allargamento del 2004-2007 ha portato all’ingresso nell’Unione di ben 12 nuovi Stati membri. Il processo è stato particolarmente difficoltoso a causa delle pesanti riforme che i candidati post-sovietici hanno dovuto attuare, e tutt’oggi esistono dubbi riguardo la sua efficacia.

Dall’Europa a 15 a quella a 27

La politica estera dell’Unione è sempre stata limitata: il vecchio “secondo pilastro” dell’azione comunitaria è di competenza quasi esclusiva degli Stati Membri. Questi sono restii a cedere all’Unione Europea il controllo della propria politica estera, una delle massime espressioni di sovranità. Ecco perché Bruxelles fa un ampio uso del cosiddetto soft power – l’influenzare altri attori tramite mezzi indiretti, come quelli economici, culturali o valoriali. Quello che viene unanimemente considerato uno dei principali successi della politica estera dell’Unione, il Big Bang Enlargement del 2004, ne è stato un esercizio classico. Grazie ad esso, dieci nuovi Stati sono entrati tra i ranghi dell’Unione Europea: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Malta, a cui vanno aggiunte Bulgaria e Romania nel 2007.

Davide Bevacqua | Lo Spiegone

I vari allargamenti dell’UE. Fonte: Wikimedia Commons

 

Prima del 2004, l’Unione Europea si componeva di 15 membri, parte di quello che durante la Guerra Fredda era chiamato blocco occidentale. Spinti dal desiderio di unificare un’Europa spaccata dalla Seconda Guerra Mondiale e di ripagare finalmente il debito verso l’Est – “abbandonato” in mani sovietiche da Yalta in poi – l’Unione si imbarcò nell’ambizioso progetto dell’allargamento verso oriente. A tali ragioni ideologiche se ne accostavano di altre, più pragmatiche. Tra di esse il rischio che gli ex satelliti sovietici tornassero a gravitare attorno a Mosca piuttosto che a Bruxelles, nonostante al tempo i rapporti tra le due fossero molto più rilassati di ora. Oppure, a livello degli Stati Membri, la consapevolezza che un allargamento tanto ambizioso avrebbe impedito una maggiore integrazione politico-militare: il Regno Unito, da sempre sostenitore di un’Unione prettamente economica, si pose per questo motivo a capo dei sostenitori dell’allargamento.

Le modalità

Le differenze tra i quattro allargamenti precedenti e quello del 2004 erano evidenti fin dall’inizio. Le difficoltà principali erano da ricercarsi nel numero di Stati coinvolti e nelle condizioni di partenza dei candidati. Sino ad allora, infatti, le pretendenti erano state economie avanzate dotate di sistemi democratici, con le parziali eccezioni di Spagna e Portogallo. La situazione in Europa centro-orientale era molto diversa: l’eredità post-sovietica aveva lasciato paesi dalla debole economia centralizzata, con apparati istituzionali carenti e poco avvezzi al pluralismo politico e democratico.

Ecco perché la Commissione dovette rivedere i propri metodi per condurre l’allargamento: in passato il criterio principale era il rispetto dell’acquis communautaire, il corpo normativo comunitario, ora chiaramente non sufficiente. Nel 1993 vennero così ideati i criteri di Copenhagen (qui nel dettaglio), i quali in sostanza permettevano all’Unione di stabilire il momento in cui gli stati candidati sarebbero stati pronti per l’accesso. Dati gli enormi benefici economici derivanti da un eventuale ingresso nell’Unione e nel suo ricchissimo mercato unico, i dieci paesi candidati iniziarono il lento processo per arrivare a rispettare gli standard politici, democratici ed economici richiesti dall’Europa.

Il meccanismo chiave in questo contesto fu quello della condizionalità. Tramite essa l’Unione subordinava al raggiungimento di un premio tutta quella serie di riforme necessarie per rispettare i criteri di Copenhagen. Nel 2004 il premio finale, l’accesso nelle istituzioni di Bruxelles, era abbastanza invitante da far compiere ai candidati tali riforme, spesso dolorose a livello elettorale. A oggi, la condizionalità ha cessato di svolgere un ruolo rilevante in Europa centro-orientale, dato che l’Unione non è più in grado di offrire un incentivo tanto valido da convincere i nuovi stati membri a rispettare i voleri di Bruxelles.

Le controversie e il gruppo Visegrad

Già nel 2004 diverse voci interne all’Unione si dicevano contrarie ad un allargamento tanto massiccio e repentino. Non solo gli stati coinvolti erano troppo numerosi, ma non erano considerati pronti per l’ingresso. Per questo venne ideato un quarto criterio, indipendente dai paesi candidati, secondo il quale l’allargamento poteva avere luogo soltanto quando l’Unione stessa fosse stata pronta ad accogliere nuovi membri. Tale clausola era necessaria a causa del malcontento da parte di molti paesi dell’Europa a 15, che vedevano nei nuovi arrivati non tanto delle opportunità di crescita quanto delle minacce, specialmente sotto il punto di vista del mercato del lavoro. Ancora oggi, a quasi quindici anni di distanza, il supporto popolare nei confronti dell’allargamento – anche quello futuro verso i Balcani Occidentali – è relativamente basso.

I dubbi erano legati sia al sistema economico che alla tenuta democratica. Dal punto di vista economico, si aveva la consapevolezza che i nuovi arrivati avrebbero avuto difficoltà nel raggiungere il livello dei paesi già membri. Per questo la Politica Regionale, il cui scopo è quello di favorire la convergenza tra le varie regioni europee, assunse un’importanza particolare, e nello specifico i Fondi di Coesione. Questi vengono concessi solo ai paesi più poveri dell’Unione in termini di PIL e sono stati fondamentali in molti dei nuovi entrati del 2004 – un esempio di utilizzatore particolarmente virtuoso è la Polonia.

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Primo meeting del V4 nel 1991 (Fonte: Wikimedia Commons)

Altri critici dell’allargamento temevano che i nuovi membri potessero avere difficoltà nel mantenere solide istituzioni democratiche. Questo tipo di preoccupazioni sembra aver trovato conferme in tempi recenti, quando diverse democrazie nella zona hanno cominciato a mostrare segni di instabilità. I casi più eclatanti sono stati quelli di Polonia e Ungheria, ma il processo è stato più generale. Di particolare rilevanza il cosiddetto Gruppo Visegrad (o V4), composto da Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, un’alleanza informale vista da molti come un’alternativa alle politiche mainstream di Bruxelles. Nella realtà, tale alleanza ha dimostrato vera unità di intenti solo nel respingere le soluzioni europee alla questione migratoria, mentre in generale vede al suo interno vari interessi e visioni spesso contrastanti. Più evidente è il supporto reciproco tra Polonia e Ungheria, fondamentale per impedire la messa in atto delle sanzioni più pesanti dell’Articolo 7 TUE, la cosiddetta opzione nucleare.

L’allargamento e la tenuta democratica

Non è chiaro se le modalità con cui l’allargamento è stato condotto abbiano contribuito a tale debolezza democratica. Le critiche principali riguardano l’uso eccessivo della condizionalità – basata su mere analisi costi-benefici e non su una vera accettazione dei valori europei – e la fretta con cui diversi candidati sono stati accolti nell’Unione. La causa di tale fretta è stata la volontà di far accedere in blocco tutti quanti – malgrado le differenze nella preparazione – in modo da non “lasciare nessuno indietro” e non far perdere motivazione agli eventuali ritardatari. La conseguenza è stata, come nel caso ungherese, una cattiva gestione della transizione verso l’economia di mercato, con ampie disuguaglianze sociali e alti tassi di disoccupazione. Questi disagi sono stati associati alla democrazia, e l’impossibilità per l’Unione di influenzare le dinamiche interne (dato che l’allargamento era ormai concluso) ha favorito l’emergere dell’autoritarismo di Orban.

Tali osservazioni, sebbene valide, non sono da sole in grado di spiegare il declino della democrazia nell’Europa centro-orientale: altri fattori interni sono stati più importanti. Un esempio classico è, di nuovo, la Polonia: nella storia polacca ben tre partiti hanno raccolto più voti di quanto non abbia fatto il PiS (Prawo i Sprawidliwość, il partito ultraconservatore polacco) nel 2015, eppure per una serie di ragioni legate alla composizione delle coalizioni, alle percentuali delle liste e alle schede nulle è stato l’unico in grado di formare un governo senza aver bisogno di alleati.

La complessità delle dinamiche del Big Bang Enlargement non permette di stabilire con certezza se sia stato condotto con successo o meno. Rimane in ogni caso uno degli esempi più eclatanti di come funzioni la politica estera dell’Unione Europea: un costante confronto per indurre e promuovere cambiamenti piuttosto che imporli con la forza. Una strategia tanto apprezzabile sulla carta quanto laboriosa, complicata e spesso inefficace nella realtà, anche a causa della difficoltà di definire ed esportare un modello valoriale che sia veramente europeo.

 

Fonti ed approfondimenti

https://europa.eu/european-union/topics/enlargement_en

https://eur-lex.europa.eu/summary/glossary/accession_criteria_copenhague.html

https://ec.europa.eu/neighbourhood-enlargement/policy/conditions-membership_en

Schimmelfennig & Sedelmeier (2004) – Governance by conditionality: EU rule transfer to the candidate countries of Central and Eastern Europe

Agh (2016) The decline of democracy in east central Europe

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