A seguito della decisione del Consiglio europeo, Macedonia del Nord e Albania hanno formalmente iniziato i negoziati che potrebbero portarle a entrare nell’Unione europea. Quali sono i prossimi passaggi, e in che modo l’attuale allargamento è differente rispetto a quelli passati?
L’inizio delle negoziazioni
Il 26 marzo il Consiglio europeo ha formalmente dato inizio ai negoziati per l’accesso all’Unione europea (noti come accession talks o membership talks) con la Macedonia del Nord e con l’Albania. I due Paesi si uniscono a Serbia e Montenegro, che stanno già negoziando con Bruxelles rispettivamente dal 2011 e dal 2012, mentre Kosovo e Bosnia-Erzegovina rimangono candidati potenziali. Questo sviluppo rappresenta un passo avanti nel processo dell’allargamento dell’Unione europea nei Balcani occidentali, che sembrava aver subito una seria battuta d’arresto negli ultimi anni. L’ultima adesione risale infatti al 2013, quando la Croazia fece il suo ingresso nell’UE.
Il nuovo Commissario per l’allargamento, Oliver Varhelyi, ha definito la decisione “storica”, sottolineando che questa dimostra in modo inequivocabile come il futuro dei Balcani occidentali sia all’interno dell’Unione. Nonostante ciò, bisogna chiarire che l’inizio delle membership talks non garantisce l’accesso in modo automatico. Basti pensare alla Turchia, che ha iniziato i negoziati nel 2005 e che non potrebbe essere più lontana dal diventare uno Stato membro dell’Unione. Inoltre, le negoziazioni richiederanno anni per essere portate a termine. Tuttavia, un progresso simile nel processo di allargamento è certamente positivo, soprattutto a causa della crescente disillusione che lo circonda ormai da anni.
Il prossimo passo riguarda principalmente l’ideazione, da parte della Commissione europea, di uno specifico documento che determini le basi delle future negoziazioni. Dopo che tale documento sarà stato adottato, si terrà con ogni probabilità la prima conferenza intergovernativa con i governi dei due Paesi.
Le difficoltà – a Bruxelles, in Nord Macedonia e in Albania
Il sì di Bruxelles è arrivato grazie al fondamentale consenso della Francia di Macron, la quale aveva posto il suo veto sullo stesso argomento in un summit dello scorso ottobre. Parigi, appoggiata in quell’occasione dall’Aia e da Copenaghen, riteneva che i progressi compiuti dai due Paesi in termini di riforme non fossero sufficienti per iniziare i negoziati. Per convincerla a modificare la sua posizione, sono state necessarie diverse misure. La prima è stato l’inasprimento delle condizioni poste all’Albania in ambito di corruzione, controllo dei media e immigrazione. La seconda è un generale cambiamento delle regole di accesso, rendendo più semplice un’eventuale interruzione del processo.
Le incertezze dimostrate da Bruxelles hanno avuto ripercussioni soprattutto in Nord Macedonia. Il capo del governo Zoran Zaev, social-democratico e principale artefice della svolta europeista nel Paese – divenuto forse l’esempio più virtuoso di integrazione europea degli ultimi anni – si è infatti dimesso a seguito dell’iniziale “non” di Macron. Indebolito anche dalla dura battaglia politica con l’opposizione, Zaev ha annunciato le elezioni anticipate nella speranza di rafforzare i propri numeri al Parlamento. Le elezioni, previste per il 12 aprile, sono state posticipate a data da determinarsi a causa della pandemia di coronavirus. Senza dubbio, il fatto che l’Unione abbia finalmente raggiunto un accordo stabilizza la posizione di Zaev, che è andato incontro a molteplici costi politici per portare avanti il suo programma riformista – arrivando a cambiare il nome ufficiale del proprio Paese per risolvere una decennale lite di natura identitaria con la Grecia, una questione particolarmente sentita dagli elettorati di entrambi i Paesi.
A Tirana, invece le difficoltà sono state di natura diversa, e legate alla generale situazione del Paese. Gli Stati membri più conservatori sull’allargamento come Francia, Danimarca e Paesi Bassi hanno infatti sottolineato come l’Albania fosse particolarmente indietro in diverse delle aree da riformare. Parigi ha infatti chiesto, come accennato, maggiori controlli sullo stato delle riforme nel Paese prima di convincersi a concedere il proprio appoggio all’inizio delle accession talks. Queste osservazioni hanno provocato un certo malcontento nel governo albanese.
Il primo ministro Edi Rama, notoriamente europeista e ben visto a Bruxelles, ha sostenuto che le esitazioni francesi fossero dovute alla disunità europea sull’argomento, e non a mancanze albanesi in termini di riforme. Sebbene ciò fosse in parte vero, la situazione delle riforme in Albania non è tuttora delle migliori, al punto che progressi significativi dovranno essere compiuti e provati, prima di poter procedere con la prima conferenza intergovernativa.
L’allargamento: com’è cambiato nel tempo e quali difficoltà incontra
Queste dinamiche politiche dimostrano come, negli anni, il processo di allargamento dell’Unione europea sia cambiato sotto molti punti di vista.
L’aspetto forse più importante è la maggiore importanza che i singoli Stati membri rivestono nell’influenzarlo. Nonostante le dinamiche interne fossero cruciali anche in passato, è indubbio come, nel Big bang enlargement del 2004, la Commissione conducesse i lavori e fosse l’attore più importante. Anche in un tentativo di imparare dagli errori del passato, il futuro allargamento nei Balcani occidentali vede invece un maggiore protagonismo dei singoli Stati, che permette loro – e in questo caso alla Francia – di porre il proprio veto in maniera più incisiva.
Formalmente, questa tendenza è riscontrabile nei cosiddetti benchmark, ossia delle condizioni aggiuntive a quelle imposte inizialmente. Queste possono essere richieste dai governi dei Paesi già membri laddove dovessero riscontrare delle carenze particolarmente gravi. Questo fa sì che i requisiti necessari ai Paesi candidati per accedere all’Unione diventino allo stesso tempo più stringenti e meno prevedibili. Ciò rende ulteriormente difficoltoso il già complesso iter, aumentandone però, almeno in via teorica, la qualità finale.
La stessa dinamica si riscontra in altre modifiche che sono avvenute tra l’allargamento del 2004 e quello tuttora in corso nei Balcani occidentali – in particolar modo nella maggiore attenzione verso aspetti politici, come il rispetto dello stato di diritto, la qualità della democrazia e la lotta alla corruzione. Questo ha portato a modificare l’ordine in cui vengono discussi i capitoli, ovvero le macro-tematiche oggetto delle riforme. Ad esempio, i capitoli 23 (Sistema giudiziario e diritti fondamentali) e 24 (Giustizia, libertà e sicurezza) sono attualmente considerati troppo importanti per essere affrontati solo al termine delle negoziazioni e vengono aperti invece nella fase iniziale. In questo, la lezione imparata da Ungheria e Polonia è la chiave. È noto infatti che Bruxelles perde una gran parte del proprio potere contrattuale una volta che uno Stato candidato diventa membro a tutti gli effetti. Pertanto, è fondamentale che l’accesso avvenga solamente quando le riforme politiche e socio-economiche rispettano i numerosi standard di qualità richiesti.
Le richieste dell’Unione, seppure giustificabili, risultano dunque particolarmente complicate da accontentare, anche a causa del sistema dei benchmark. A ciò si aggiunge un ulteriore problema. Storicamente, l’ingresso nell’Unione corrispondeva con l’accettarne e recepirne, a livello legislativo, il cosiddetto acquis communautaire, ovvero l’insieme di norme giuridiche acquisite con il tempo dal diritto europeo. Tuttavia, già nel 2004 era successo che Bruxelles richiedesse ai Paesi candidati di effettuare riforme aggiuntive, in aree non coperte dall’acquis stesso. In sostanza, ai nuovi Paesi venivano richiesti sforzi maggiori di quelli compiuti dagli Stati già membri. Questo ha portato a grandi difficoltà nel comprendere quando Bruxelles si sarebbe considerata soddisfatta dalle riforme, data l’impossibilità di rifarsi all’acquis come termine di paragone.
Infine, vi sono alcune dinamiche strettamente politiche che rendono il caso dell’attuale allargamento differente rispetto al passato. La prima è quella che in gergo viene chiamata enlargement fatigue, ovvero difficoltà non relative al Paese candidato, quanto all’Unione stessa. Queste difficoltà si legano a doppio filo con la seconda dinamica, ovvero la generale riduzione nel supporto dell’opinione pubblica per l’allargamento. In passato retoriche di solidarietà legate al “ritorno all’Occidente” dei vecchi satelliti comunisti avevano attecchito. Oggi, questo sentimento è poco presente nei Paesi membri, che anzi temono che l’ingresso di nuovi Stati dalla scarsa tenuta democratica possa comportare ulteriori problemi, nei già deficitari meccanismi politici di Bruxelles.
In conclusione, l’allargamento ha compiuto in questi giorni un importante passo in avanti, ma rimane una questione controversa e problematica. Forse l’unico modo per riaffermare l’influenza europea in una zona geografica che vede sempre più interventi russi e cinesi deve anche garantire riforme di qualità sia a livello democratico che socio-economico, per assicurare il miglioramento delle condizioni di vita e della sicurezza delle popolazioni locali.
Fonti e approfondimenti
EWB, EU leaders endorse Council conclusions on North Macedonia and Albania, European Western Balkans, 27/03/2020
RFL, EU Leaders give the final OK to begin North Macedonia, Albania membership talks, Radio Free Europe, 27/03/2020
Jennifer Rankin, EU failure to open membership talks with Albania and North Macedonia condemned, The Guardian, 18/10/2019
Antoaneta L. Dimitrova (2016) The EU’s evolving enlargement strategies – Does tougher conditionality open the door for further enlargement? MaxCap.