Intervista curata da Lidia Bonifati e Jasmine Faudone
I contatti tra l’Italia e la Bosnia-Erzegovina hanno radici lontane, non solo di carattere politico ed economico, ma anche culturale. Per conoscere meglio il ruolo dell’Italia in Bosnia abbiamo intervistato Nicola Minasi, ambasciatore italiano a Sarajevo.
La Bosnia-Erzegovina è un Paese che presenta diverse particolarità politico-istituzionali nel panorama dei Balcani occidentali. Qual è la Sua esperienza nel porsi con i diversi popoli costituenti e con i rappresentanti delle minoranze?
L’approccio italiano è di apertura verso tutti, non solo verso i popoli costituenti, ma verso tutte le altre anime della Bosnia-Erzegovina. Per esempio, non tutti sanno che in Bosnia è presente una comunità italiana che ricade nei famosi “altri” previsti dalla Costituzione bosniaca. Si tratta di un migliaio di persone, per lo più discendenti dei cittadini italiani venuti nei Balcani dal Trentino-Alto Adige e dal Veneto, ai tempi dell’impero austro-ungarico.
L’Italia ha sempre mantenuto un rapporto profondo con tutte le anime della società, risalente a prima e durante la guerra degli anni Novanta. Il caso della guerra è emblematico, perché probabilmente l’Italia è stato l’unico Paese i cui civili sono stati uccisi a opera di tutte le parti coinvolte nel conflitto. Basta pensare a Gabriele Moreno Locatelli, ucciso sullo stesso ponte su cui caddero le prime vittime della guerra in Bosnia. La cosa positiva è che l’impegno nato in quegli anni è fortissimo ancora oggi, lo dimostrano tutte le iniziative che ci vengono proposte dalle varie associazioni italiane presenti in Bosnia.
Tuttavia, questo approccio di apertura era tale anche prima della guerra. Infatti, l’istituzione del primo consolato italiano a Sarajevo risale al 1863, a soli due anni dall’Unità d’Italia. Già all’epoca erano presenti italiani che venivano in Bosnia per lavorare e che hanno deciso di stabilirsi nel Paese. Per questo motivo vogliamo avere ottimi rapporti con tutti, con l’ambizione che questa amicizia faccia dell’Italia uno spazio in cui gli altri possano riconoscersi e un ponte attraverso cui comunicare.
Passiamo all’orizzonte europeo. Pensa che il futuro della Bosnia sia nell’Unione europea? Questo potrebbe contribuire a risolvere alcuni dei problemi che il Paese vive?
Su questo tema bisogna avere il coraggio di riconoscere che, mentre in Unione europea si discute di allargamento e di politica di vicinato, l’integrazione di fatto sta già avvenendo, ma senza controllo. Ciò si sta concretizzando attraverso l’emigrazione dei giovani in cerca di nuove prospettive, ma anche delle famiglie che già hanno un tenore di vita medio-alto e che lasciano il Paese come scelta di vita. Contemporaneamente, dobbiamo riconoscere anche che nel 2019 l’allargamento è molto diverso e più difficile rispetto al grande allargamento del 2004 o a quello croato del 2013. Ciò deriva dal fatto che l’Unione europea è un organismo vivente, in continua evoluzione: lo sforzo di adeguamento è sempre più alto.
Dal punto di vista dei valori, se c’è un Paese che incarna l’ideale europeo è proprio la Bosnia. Quando l’Unione europea è nata nel 1992 a Maastricht, la Bosnia-Erzegovina era un Paese multiculturale, con un’identità al di sopra delle appartenenze etnico-religiose. La tragedia è che proprio nel 1992, la dissoluzione della Jugoslavia ha portato la Bosnia nella direzione opposta. E questo è il terzo elemento che bisogna sottolineare: l’idea della Bosnia-Erzegovina è molto europea. Oggi, paradossalmente, si chiede a questo Paese di assecondare degli standard europei che prima della guerra esistevano.
Invece, venendo alla qualità dell’amministrazione, è evidente che c’è una grande urgenza di Unione europea. Un esempio “banale” è costituito dalle politiche ambientali. Sarajevo è una delle città più inquinate d’Europa ed è necessario prendere misure in tal senso. Il problema all’origine è che non è stata compiuta una transizione dopo la guerra e quindi tutto l’apparato pubblico è costretto a misurarsi con nuove sfide. Ciò avviene con grande diversificazione, rendendo molto difficile articolare una politica generale. La Commissione europea potrebbe elaborare delle soluzioni per applicare in modo diretto una serie di norme, facilitando l’introduzione di nuovi standard amministrativi e migliorando la qualità della vita dei cittadini. In alcune materie, come quella ambientale, potrebbe essere più facile; in altre, come la concorrenza, la privatizzazione o l’energia, sarebbe sicuramente più difficile.
È risaputo che i Balcani, e la Bosnia in particolare, siano oggetto di interesse da parte di attori non europei, come Turchia, Russia, Cina, e Arabia Saudita. Lei pensa che l’Unione europea stia correndo il rischio di “perdere” la Bosnia?
Secondo me questo è un rischio più nella rappresentazione politica delle influenze esterne, che nella realtà. Non arrivano fondi dalla Cina o dall’Arabia Saudita; ci sono state donazioni saudite, ma la maggior parte degli investimenti e dei fondi arrivano dall’Unione europea. Anche in termini di commercio internazionale, il primo partner della Bosnia è la Germania, il secondo è l’Italia, il terzo la Croazia. Sommando tutti questi elementi, l’Unione europea è ancora l’attore principale. Il problema che si sta ponendo è che la Cina sta concedendo dei prestiti, motivo per cui il Paese si sta indebitando velocemente. A ciò si aggiunge un problema di percezione: è difficile far sentire la vicinanza dell’Unione europea, per questo serve una nuova narrativa.
Inoltre, bisogna evidenziare un paradosso, ossia che suoni “strano” che i Balcani siano oggetto di più interessi, mentre le norme dell’Organizzazione internazionale del commercio prevedono che tutti possano commerciare con tutti. Se la Cina volesse costruire a spese sue delle centrali o delle nuove infrastrutture, non sarebbe di per sé qualcosa di negativo; tutti i Paesi europei fanno a gara per avere investimenti cinesi o gas russo. Il punto è che nei Balcani vi è sempre una sovrapposizione tra profilo geopolitico e quello commerciale, perché vengono visti prima di tutto come una porta di ingresso nell’Unione europea.
La cosa importante sarebbe trovare un quadro consensuale tra interessi plurimi, in cui questi possano coesistere e armonizzarsi, per il bene del Paese. In questo l’Europa deve fare la differenza, incanalando i vari interessi verso uno spazio positivo per i Balcani. Questo meccanismo fatica ancora ad affermarsi, anche perché molti analisti dicono che nei Balcani funziona ancora la logica del “clientelismo al contrario”, ossia di cercarsi il padrone giusto e di rispettarlo e controllarlo al tempo stesso. Bisogna trovare una formula che porti alla responsabilità, non al controllo reciproco.
Molti osservatori parlano di “terzo esodo” dalla Bosnia verso l’Europa e il resto del mondo, in particolare di giovani cittadini bosniaci, nati dopo il conflitto. Quale potrebbe essere il ruolo dell’Unione europea per far fronte a questo fenomeno?
Dalla guerra a oggi hanno agito due fattori incontrollabili: da un lato un enorme flusso di profughi che solo in parte hanno mai fatto ritorno, dall’altro la crescente emigrazione dei giovani negli ultimi anni. Su questo non c’è una teoria unica: c’è chi sostiene che il fenomeno nasca dall’insoddisfazione dello stallo istituzionale, altri invece credono che sia una tendenza in linea con gli altri Paesi della regione, come Serbia o Croazia.
Questo fenomeno deve essere analizzato correttamente, dato che non ci sono ancora studi comparati tra i vari Paesi o sulle reali motivazioni che portano a emigrare. Credo che sia pericoloso saltare a conclusioni affrettate. Non va dimenticato, infatti, che al tempo della Jugoslavia il sistema si reggeva sull’emigrazione verso la Germania e sulle rimesse, permettendo alla Federazione di contare su un certo benessere.
Un altro aspetto da considerare, su cui non si è fatto nulla, è l’intenzione della Commissione di passare dalla brain drain alla brain circulation, permettendo ai giovani di tornare. Non ci sono ancora incentivi per far aprire cooperative o aziende a giovani che vogliono tornare o che non vogliono partire. Per ora non ci sono risposte adeguate ed è molto grave, perché alimenta l’insofferenza verso il sistema. Noi ci siamo impegnati tantissimo per l’attivazione di programmi europei che permettano agli studenti universitari di fare una sorta di Erasmus interno al Paese. È stato molto complicato, ma alla fine la Commissione europea ha accettato di introdurlo solo a livello dei Master o ricerca post-laurea. Il fatto che una cosa così semplice sia stata realizzata solo ora dà un’idea di quanto tempo sia stato perso.
Uno degli obiettivi da raggiungere affinché i Balcani occidentali possano aderire all’Unione europea è una maggiore cooperazione regionale e di buon vicinato. Esiste una qualche forma di coordinamento tra ambasciate italiane nei diversi Paesi per migliorare tale cooperazione?
Esiste un coordinamento che fa capo al ministero degli Esteri, che organizza per esempio la conferenza degli ambasciatori. Quest’estate, l’iniziativa era dedicata proprio ai Balcani occidentali, per condividere ed elaborare azioni comuni. Una difficoltà con cui tuttora ci confrontiamo è che i Paesi ex-jugoslavi hanno pochi contatti tra di loro, nonostante abbiano singolarmente molti scambi con l’Unione europea. Ciò ovviamente non facilita una riconciliazione generale.
Il mercato unico europeo è nato proprio dal principio per cui “più commerciamo, più stiamo in pace”, quindi sarebbe interessante replicare tale modello. Tuttavia, dopo la guerra, si è preferito consolidare i rapporti bilaterali tra UE e singoli Paesi, relegando i rapporti regionali ad appendice secondaria. Quindi, ogni singolo Paese non si è trovato obbligato a dover stabilire buone relazioni con gli altri per poter aderire all’Unione europea, l’unico caso è quello di Serbia e Kosovo.
In passato, si era proposto di creare un mercato comune nei Balcani occidentali, idea poi accantonata per timore di dar vita a un mercato di “serie B”. Ora, un mercato unico “ex-jugoslavo” sembrerebbe una proposta interessante, perché costringerebbe il Kosovo a cancellare i dazi verso Serbia e Bosnia, faciliterebbe la circolazione delle persone e il commercio reciproco e questo favorirebbe buoni rapporti. Sarebbe un mercato in cui applicare le medesime regole europee sulla concorrenza, così che siano facilitati una volta entrati nell’Unione europea.
Il paradosso è che questo richiederebbe ai Paesi di creare una “nuova Jugoslavia” e di farla poi entrare in UE. La Jugoslavia di fatto era un’Unione europea, a modo suo: stessa moneta, istituzioni centralizzate, coesistenza di repubbliche, presidenza collegiale. Era un’Unione europea realizzata in senso federale. Ciò che non ha funzionato era l’effettiva distribuzione delle risorse, perché non c’era una banca centrale indipendente né un patto di stabilità che ponesse regole e vincoli. Inoltre, l’idea dell’Unione europea è fondata sulla limitazione del potere politico, mentre la Jugoslavia non aveva tale limite, perché credeva molto nella politica, lasciando spazio alla manipolazione dell’etno-nazionalismo.
Concludiamo con il versante più italiano: qual è il ruolo dell’Italia e della cultura italiana in Bosnia? Pensa che la diplomazia culturale possa giocare un ruolo importante da affiancare a quella tradizionale?
In un certo senso, tutto quello che facciamo è diplomazia culturale, perché utilizziamo la cultura per entrare in contatto con le varie anime del Paese e per offrire uno spazio neutro in cui incontrarsi e in cui dialogare. È un’attività molto apprezzata ed è una grande sfida, in cui si apprezzano le grandi possibilità e i limiti.
Abbiamo fatto tante iniziative corali e aperte a tutti, come invitare Vinicio Capossela in tour in Bosnia, chiedendo agli studenti bosniaci di tradurre i testi delle sue canzoni. Nel 2017 abbiamo invitato Michelangelo Pistoletto, che insieme a 500 ragazzi da tutta la Bosnia ha realizzato il “Terzo Paradiso”, simbolo di riconciliazione degli opposti. Sono occasioni in cui si cerca di rispettare apertamente la multi-culturalità del Paese. In questi giorni prenderà avvio la “Stagione italiana della cultura”, durante cui si svolgeranno iniziative in tutta la Bosnia. Ci sono ovviamente dei limiti oltre cui non si può andare. Per esempio, stiamo cercando di organizzare un evento per la commemorazione di tutte le vittime civili durante la guerra, nonostante permangano ad ora molte difficoltà e resistenze.
L’Italia da sola non può risolvere i problemi del Paese, però è possibile creare consapevolezza tramite iniziative nelle scuole, in cui mettere insieme studenti delle diverse comunità. Per esempio, l’anno scorso abbiamo organizzato un corso di perfezionamento di italiano con l’università di Enna, rivolto a ventuno studenti bosniaci, che hanno condiviso lo stesso spazio, hanno lavorato insieme e sono diventati amici, nonostante provenissero da culture diverse. Il caso ha voluto che loro andassero in Italia nella settimana in cui in Bosnia è scoppiata la polemica per la condanna in primo grado di Mladic, rimanendo in un certo senso immuni alle divisioni.
Nel nostro piccolo, cerchiamo di sensibilizzare e di investire molto sulle nuove generazioni. Non cambierà la politica generale, ma può sempre nascere qualcosa di importante, contribuendo a cambiare la mentalità.
Per sostenere le attività dell’Ambasciata d’Italia in Bosnia-Erzegovina è possibile seguire i profili su Twitter, Instagram e Facebook.
Be the first to comment on "La cultura come ponte: intervista a Nicola Minasi, ambasciatore italiano a Sarajevo"