Il ruolo della Turchia nei Balcani è da sempre centrale, ma è cambiato nel tempo con l’emergere di nuove circostanze strategiche e di nuove rivalità ed alleanze.
Il ritrovato ruolo di Ankara nei Balcani
L’Unione Europea non è l’unico attore ad esercitare la propria influenza nei Balcani. È certamente il più importante, dato che può vantare di rappresentare il mercato più grande al mondo e il più influente a livello politico. Ne è prova evidente il fatto che tutti i Paesi dei Balcani Occidentali, nessuno escluso, considerino l’ingresso nel blocco come il punto principale della propria politica estera. Anzi, è la lentezza di questo processo ad aver scatenato i maggiori malumori contro Bruxelles, non certo la volontà di abbandonarlo per perseguire altri obiettivi.
Questo fatto non toglie che la relazione con l’Unione sembra essere di convenienza, piuttosto che essere basata su un genuino interesse nei confronti dei valori e della retorica che essa propone. Altri attori, infatti, sono in grado di esercitare un’influenza culturale ben maggiore dell’Unione Europea. Tra questi vi è la Turchia, con i suoi legami storici e culturali, legati alla precedente dominazione ottomana e alla sua continua presenza nell’area.
Ankara si è efficacemente inserita, negli anni ’90, nel contesto della dissoluzione dell’ex-Jugoslavia, ed è riuscita a recuperare parte di quella influenza che aveva perduto a seguito della Prima Guerra Mondiale e del collasso del suo Impero. Il soft power turco si basa su alcuni elementi principali, come la vicinanza culturale – specialmente con la popolazione musulmana: vi è l’idea che i Balcani e la Turchia siano una sorta di famiglia allargata –, la volontà di pacificare la politica della zona e il ritrovato strumento economico.
Quest’ultimo è visibile dando una semplice occhiata ai numeri: gli investimenti totali turchi nei Balcani sono più che quintuplicati nel periodo tra il 2001 e il 2011 e gli scambi commerciali sestuplicati. Questi investimenti spaziano dalla costruzione di infrastrutture, come aeroporti e autostrade, alla promozione della cultura turca nella regione: ad esempio la Tika, Agenzia turca per la cooperazione e lo sviluppo internazionale, sta da anni supportando il restauro e la promozione di opere legate al periodo imperiale, nonché la creazione di nuove moschee nei Balcani. Opere senza dubbio di importanza storica e culturale, ma che hanno fatto storcere il naso a parte della popolazione balcanica non musulmana, che teme questa politica economica aggressiva da parte di Ankara.
Tale aggressività si è vista anche nella caccia alla streghe cominciata dal governo di Erdogan contro l’influenza gülemista – Gülen è accusato di essere la mente dietro il colpo di stato – a seguito del fallito golpe del 2016. Ciò è molto rilevante, data l’importanza che il movimento Hizmet aveva acquisito nel corso degli anni con la creazione di oltre 40 istituzioni culturali, tanto accademiche quanto religiose.
A livello politico, Erdogan ha cercato di giocare il ruolo del paciere, inserendosi ad esempio nelle negoziazioni tra Kosovo e Serbia e ponendosi come un attore in grado di far compiere decisi passi in avanti al processo di normalizzazione nelle relazioni tra i due Paesi. Inoltre, tramite la politica degli “zero problemi” con i vicini, la Turchia ha insistito sulla creazione di relazioni amichevoli con tutti i Paesi della zona, e non soltanto con quelli più vicini culturalmente. Soprattutto negli anni ’90, infatti, una spinta ideologica aveva favorito i rapporti con le minoranze musulmane, alienandosi i favori degli altri gruppi religiosi presenti. È possibile avere prova di questo tentativo di cambio di direzione prendendo in considerazione due Paesi, particolarmente importanti nello scacchiere regionale: la Bosnia-Erzegovina e la Serbia.
Bosnia-Erzegovina
Sarajevo è stata, sin dalla dissoluzione della Jugoslavia, la porta d’accesso ai Balcani per la Turchia. Le relazioni tra i due Paesi sono stati sin da subito amichevoli, grazie alla presenza di un’importante minoranza musulmana nel paese – i cosiddetti Bosgnacchi, o Bosniaci musulmani – e tale vicinanza ha preso la forma di milioni di dollari in investimenti, che hanno contribuito alla ricostruzione post-bellica del Paese. Le relazioni tra i due Paesi sono state in larga parte bilaterali, con l’istituzione di un accordo di cooperazione e commercio.
Quando quest’ultimo è stato sostituito, nel 2002, da un’area di libero scambio, l’export turco in Bosnia è aumentato vertiginosamente, di quasi nove volte in dieci anni, rendendo Ankara il quarto partner commerciale di Sarajevo. La presenza di compagnie turche per la gestione di grandi opere infrastrutturali è preponderante: il caso più recente vede un accordo tra i due Paesi per la costruzione di un’autostrada in grado di collegare Sarajevo e Belgrado. Un progetto da oltre tre miliardi di euro, finanziato e gestito da imprese turche, al momento bloccato a cause di disaccordi sulla percorso che l’autostrada dovrebbe compiere.
La Bosnia è stata e rimane tuttora il ponte tra la Turchia e i Balcani, ma questo rapporto privilegiato è stato anche causa di tensione nel corso degli anni. La potenza economica di Ankara è infatti spesso stata diretta solamente verso la popolazione musulmana, con le altre fasce della popolazione tagliate fuori o poco amichevoli nei confronti degli ingenti investimenti effettuati dalla Tika – spesso di natura ben poco secolare. Tale ostilità si è riflessa anche nelle relazioni con Stati diversi dalla Bosnia, che hanno cercato di trovare il proprio alleato principale in altri attori, come l’Unione Europea – è il caso della Macedonia in tempi recenti – o la Russia. Il principale pupillo di Putin nei Balcani, la Serbia di Vucic, è stata a lungo ostile nei confronti di Ankara. Ma la situazione è cambiata, a seguito del golpe del 2016.
Serbia
Dopo il fallimento del colpo di Stato, la posizione di Erdogan è cambiata. Il “sultano” turco si è ulteriormente allontanato dai vecchi alleati occidentali, che si sono rifiutati di garantirgli supporto, e ha stretto relazioni più amichevoli con la Russia, fino a quel momento considerata una rivale sul teatro siriano. Questo scongelamento con Mosca ha portato, quasi immediatamente, a un ammorbidimento della linea dura tenuta da Belgrado nei confronti della Turchia.
Gli scambi economici tra i due Paesi sono aumentati, così come gli investimenti diretti e indiretti; compagnie turche avranno un ruolo importante nella costruzione di una seconda autostrada, tra Sarajevo e la città montenegrina di Bar, e le relazioni politiche sono diventate più strette. La Turchia ha istituzionalizzato tale avvicinamento tramite il meccanismo di consultazione trilaterale, cui partecipano la Bosnia e la Serbia, indirettamente elevati al rango di due paesi ritenuti più importanti. Il presidente serbo Vucic ha dimostrato di apprezzare, riconoscendo recentemente come la Turchia sia il Paese balcanico più grande e importante.
L’impegno turco in Serbia è legato a motivazioni strategiche. Belgrado è l’attore più importante nei Balcani occidentali, ed Erdogan non ha mai nascosto di ritenerlo fondamentale per garantire stabilità all’intera regione. Il Ministro degli Interni Turco, Suleyman Soylu, ha dichiarato come le relazioni tra Turchia e Serbia abbiano toccato il proprio apice, grazie alla cooperazione tra i due presidenti anche su temi fondamentali per la sicurezza, come il terrorismo, la lotta al traffico di droga e alla migrazione irregolare.
Una coalizione contro l’Europa?
L’avvicinamento con la Serbia dimostra come la politica turca abbia, con il tempo, perso la sua connotazione ideologica – rappresentata dal supporto quasi esclusivo alle comunità musulmane in Bosnia e Albania – e sia ormai spinta da motivazioni più pragmatiche. Alcuni analisti europei temono la creazione di un’alleanza tra Serbia, Turchia e Russia, in grado di compromettere gli sforzi dell’Unione nel promuovere riforme strutturali nei Balcani. Funzionari e diplomatici turchi hanno dichiarato in più occasioni di non essere contrari all’allargamento dell’Unione Europea nei Balcani Occidentali e anzi di sostenerlo e incoraggiarlo.
L’ex diplomatico turco Ülgen ha sottolineato come sia inutile negare o contrastare l’influenza turca, basata su una storia e una cultura comuni, e ha preso le distanze dall’idea di un “asse” Mosca-Ankara-Belgrado, sostenendo che la Turchia non propone un modello politico alternativo a quello europeo, a differenza della Russia. Non è chiaro quanto queste dichiarazioni siano di facciata, data la chiara rivalità tra Ankara e Bruxelles, e quanto riflettano il recente desiderio di Erdogan di instaurare nuovamente relazioni amichevoli con gli ormai ex alleati europei.
Le relazioni tra Unione e Turchia nei Balcani non sono necessariamente destinate a rimanere un gioco a somma zero e gli investimenti turchi nella zona sono senza dubbio un valore aggiunto. Sta all’Unione stessa riuscire a trasformare la propria potenza economica in influenza politica, integrando efficacemente i propri vicini nel Sud senza rinunciare alle fondamentali riforme economiche e politiche.
Fonti e approfondimenti
http://nena-news.it/analisi-il-ritorno-della-turchia-nei-balcani-occidentali/
http://www.limesonline.com/turchia-bosnia-serbia-profondita-strategica-ritorna-nei-balcani/47283
https://www.b92.net/eng/news/politics.php?yyyy=2018&mm=05&dd=08&nav_id=104104
https://www.politico.eu/article/turkey-western-balkans-comeback-european-union-recep-tayyip-erdogan/
http://www.balkaninsight.com/en/article/turkey-s-balkan-shopping-spree