Lorenzo Forlani è giornalista freelance e si occupa da più di dieci anni di Medio Oriente. Negli anni è stato corrispondente AGI e ha collaborato con diversi quotidiani e riviste. Al momento scrive principalmente per “Il Fatto Quotidiano”.
Se dovessi tracciare una linea del tempo con i momenti più importanti vissuti dal Libano a partire dalle proteste del 2019, cosa inseriresti come punti salienti?
Le proteste iniziate a ottobre 2019 non sono state stimolate da un vero e proprio shock. C’era stata la notizia della tassa su Whatsapp, che fu la classica goccia che fece traboccare il vaso, ma il Libano ristagnava già da diversi anni. Era risaputo che i fondamenti dell’economia non erano sostenibili: il Libano è un Paese che non produce praticamente nulla e che dopo la fine della guerra civile (1975-1990) ha iniziato a fare affidamento unicamente sul terziario, sui servizi e sul settore bancario. Questo lo ha reso un Paese tendenzialmente fragile ed esposto, soprattutto alla crisi di sfiducia scatenata dall’inizio delle proteste che hanno creato la destabilizzazione attesa.
Oltre alle proteste, un altro momento importante sono state le ennesime dimissioni di Saad Hariri a circa un mese dall’inizio delle manifestazioni. Questo ha creato un aumento di fiducia nei confronti dei manifestanti e si pensava avrebbe scatenato una sorta di effetto domino, che però non è mai arrivato.
Anche lo shock della pandemia a inizio 2020 non può essere ignorato, perché il Libano, così come il resto del mondo, era altamente impreparato. Tutti i problemi sistemici, come nel caso di una pandemia, sul Libano hanno un impatto potenzialmente devastante non essendoci neanche un settore pubblico e, in questo caso, una sanità pubblica adeguata.
L’esplosione al porto di Beirut nell’agosto 2020 è stata poi l’ennesima crisi. Senza esplosione si sarebbe comunque arrivati a una soluzione drammatica. L’esplosione ha però prodotto ulteriori danni materiali nella città di Beirut, causando sfollati, morti e feriti, e non può quindi essere ignorata. La situazione era però critica già prima dell’esplosione.
Tutto ciò che è successo da allora, la svalutazione della lira libanese di oltre il 90% del suo valore, la crisi del carburante e dell’elettricità, la rimozione dei sussidi statali su numerosi beni (cibo, medicine, carburante, ecc.), sono da leggere nell’ambito della non sostenibilità del sistema confessionale, economico-finanziario ed energetico del modello libanese. Si sapeva sin dagli anni Novanta che in un momento di congiuntura particolarmente sfavorevole ci sarebbe stato questo rischio. A oggi il Libano avrebbe bisogno in maniera immediata di diversi miliardi di dollari in aiuti o donazioni per potersi riassestare. Aiuti che la comunità internazionale vincola però all’avvio di alcune riforme molto sensibili, che potrebbero creare ulteriori attriti.
Quali di questi problemi hanno radici che vanno ben oltre la crisi del 2019?
Ce ne sarebbero diversi, ma potremmo parlare principalmente di alcuni aspetti essenziali. Il primo problema è quello della discontinuità del sistema di approvvigionamento energetico. È un tema concretamente preoccupante e che esisteva sin dalla fine della guerra civile. Un altro grande aspetto è quello onnipresente della corruzione della classe politica in Libano, che si appoggia a ciò che in arabo viene definita wāsṭa: “raccomandazione”, “clientelismo”, “nepotismo”. La wāsṭa indica anche l’impossibilità di arrivare allo Stato senza affidarsi sempre agli intermediari locali e comunitari su cui si regge il sistema del confessionalismo libanese.
Questo sistema tende ad alimentare il potere negoziale dei leader comunitari in cambio di servizi che dovrebbero essere garantiti, quali ad esempio elettricità e sanità pubblica. La wāsṭa dà l’impressione al libanese medio che sia impossibile fare qualcosa senza avere agganci o conoscenze. Tutto ciò si poteva osservare ben prima delle proteste e ha portato diversi libanesi a emigrare nel corso degli anni successivi alla guerra civile, tanto che, a oggi, la comunità libanese della diaspora conta più persone dell’intera popolazione residente in Libano.
Il problema energetico, quello del confessionalismo e della conseguente corruzione hanno negli anni acuito le fragilità del Paese: la disoccupazione, l’insostenibilità del sistema bancario, la crisi della valuta legata a un tasso di cambio fittizio e molto altro. Tutti aspetti ben noti e sui quali non si è mai cercato di agire o porre rimedio.
In questo contesto, quale ruolo giocano gli attori regionali e internazionali nella situazione libanese odierna? Abbiamo visto in questi mesi un qualche impegno da parte della Francia, in passato l’influenza saudita non è mai stata mascherata, l’Iran supporta chiaramente le zone sciite del Paese. Dunque, su chi può contare oggi il Libano?
Gli attori regionali e globali, in questo momento, hanno loro malgrado il ruolo di alimentare questa dinamica di allontanamento dal centro della società libanese per rifugiarsi nelle proprie comunità di riferimento. Per dirla con altre parole: le potenze regionali, in un modo o nell’altro, comunque continuano a tutelare innanzitutto le loro comunità di riferimento, sempre nel timore di fondo che il Libano prima o poi si sfaldi.
Si potrebbe citare la Francia come esempio. Il presidente Emmanuel Macron si è presentato nel Paese subito dopo l’esplosione al porto, con una mossa politicamente furba, anche e soprattutto avendo capito il livello di disaffezione della società libanese rispetto alla classe politica. Lui ha approfittato della situazione per rivolgersi a un determinato gruppo di libanesi: la borghesia cristiano maronita urbana che vive nelle zone visitate durante il sopralluogo al porto. Questa borghesia è molto diversa dalla stessa borghesia cristiano maronita dei villaggi libanesi: è una popolazione cosmopolita, spesso rivolta all’estero, alla Francia e all’Occidente.
Altri esempi potrebbero essere l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Iran, che forniscono concretamente aiuti al Libano. Salvo alcune eccezioni, la logica è sempre quella di tutelare innanzitutto la propria comunità di riferimento, nel timore o in vista di un irrigidimento che potrebbe far prevalere una comunità sull’altra. Ci sono anche contraddizioni di fondo, come nel caso degli Stati Uniti, primo finanziatore dell’esercito libanese che diffida però del governo in quanto formato da partiti che sostengono il fronte Siria-Iran. Gli Usa si ritrovano quindi a essere alleati dello Stato libanese, ma al contempo a non condividere l’agenda del governo.
Attori regionali e internazionali rimangono dunque nell’attesa che il Paese prenda una direzione politica e che si formi un governo stabile e rassicurante. Tutto ciò contribuisce però allo stallo che sta attraversando il Paese negli ultimi anni.
Questo vago e sempre minore appoggio esterno è dovuto solo a una perdita di credibilità della classe politica libanese, oppure ci sono in gioco altri fattori?
Il Libano come esperimento politico-istituzionale, in cui i poteri politici sono soppesati da rigidi sistemi settari, non è tanto condannato a fallire, quanto ad attraversare costantemente fasi di crisi in attesa di vedere la trasformazione della società in senso laico. Si tratta appunto di un modello insostenibile e totalmente disfunzionale dal punto di vista economico e politico.
A partire dalla fine della guerra civile, non c’è mai stato il processo di riconciliazione nazionale di cui il Paese avrebbe avuto bisogno. Processo che si è sempre rimandato a favore di un sistema di potere calmierato, che tende ciclicamente ad aumentare il malcontento di una comunità o di un partito politico. Il sistema è una condanna stessa per il Libano, tiene il Paese in scacco senza la possibilità di fare passi avanti.
L’altro lato della medaglia è che anche con un eventuale Stato laico e una nuova legge elettorale ci si dovrebbe scontrare con la realtà e con comunità che per decenni si sono abituate al sistema di clientela e favoritismi di oggi. Nonostante la sempre più ampia frattura generazionale, il Libano rimane comunque un Paese abbastanza giovane e sicuramente le nuove generazioni hanno ideali diversi da quelli delle generazioni precedenti.
A oggi, non ci sono leader che possano rappresentare un’alternativa credibile con una strategia chiara per la parte più giovane della popolazione. Le elezioni del prossimo anno porteranno sicuramente un cambiamento, banalmente l’attuale presidente libanese Michel Aoun sarà troppo vecchio per continuare a governare il Paese, e potrebbero quindi inserirsi nel sistema elementi di rottura che aprirebbero nuovi scenari.
Di quali riforme avrebbe bisogno il Paese per provare a rimettersi in piedi? Pensi che la pressione di organismi internazionali (Unione europea, Banca mondiale, ecc.) possano in qualche modo favorire e accelerare questo processo di riforma?
Forse io vado un po’ controcorrente, ma credo che i piani di riforma proposti dal Fondo monetario internazionale e da altri organismi siano abbastanza problematici. Le riforme richieste, come quella del segreto bancario, delle privatizzazioni o delle telecomunicazioni, rischiano di creare ancora più disuguaglianze nel breve-medio termine. Queste privatizzazioni non rispondono ai problemi strutturali che bisognerebbe risolvere in Libano. Ci sarebbe bisogno prima di tutto di una riforma politica, che può però avvenire solo nel momento in cui la società libanese sarà abbastanza matura da poterla accogliere favorevolmente.
Queste richieste di privatizzazione permettono sì di tagliare dei costi, ma produrrebbero sicuramente più disoccupazione nel breve termine. Si tratterebbe di tagliare nel settore pubblico innumerevoli posti di lavoro e nazionalizzare una serie di settori chiave. Queste riforme andavano applicate alla realtà libanese di diversi anni fa. In questo momento servirebbero riforme che interessano i settori produttivi, industriale ed energetico, riforme elettorali a discapito del sistema confessionale e settario e riforme del settore bancario.
Cosa aspettarsi nei prossimi mesi? Il Libano ha già raggiunto il baratro, o siamo solo all’ennesima fase in caduta libera verso un qualcosa di indefinito?
Nei prossimi mesi mi aspetto un peggioramento graduale. I prezzi della benzina saliranno, la moneta penso che potrà crollare tranquillamente fino a 20/30.000 lire/dollaro (il tasso ufficiale è di circa 1.500 lire/dollaro), così come mi attendo un aumento delle disuguaglianze e un peggioramento della crisi energetica. Di conseguenza un peggioramento di tutti i settori produttivi, dei trasporti e del commercio interno. Il divario tra ricchi e poveri sarà sempre più ampio. Guardando anche solo ai dati degli ultimi mesi, rapine, furti e microcriminalità sono aumentati esponenzialmente. Mi sembra un po’ di banalizzare il contesto, ma quello che vedo è un graduale peggioramento.
Al momento dell’intervista (8 settembre) la formazione del nuovo governo guidato da Najib Mikati non era ancora stata confermata. Nella seconda metà di settembre, il tasso di cambio lira/dollaro si è abbassato leggermente, ritornando ai livelli di maggio-giugno 2021. Nonostante le speranze e un clima leggermente positivo, numerosi analisti rimangono scettici sull’eventualità che il nuovo governo possa portare il Libano fuori dalla crisi. L’attuale esecutivo nascente potrebbe essere l’ennesimo compromesso tra forze politiche che durerà solo per pochi mesi, senza apportare riforme o cambiamenti tangibili.
Fonti e approfondimenti
Cammett, Melani. 2014. “Compassionate Communalism: Welfare and Sectarianism in Lebanon”. Cornell University Press.
Deeb, Lara & Mona Harb. 2013. “Leisurely Islam: Negotiating Geography and Morality in Shi ‘ite South Beirut“. Princeton University Press.
Di Peri, Rosita. 2021. “Il Libano contemporaneo”. Carocci.
Fisk, Robert. 2009. “Cronache mediorientali”. Il Saggiatore.
Fisk, Robert. 2010. “Il martirio di una nazione: il Libano in guerra”. Il Saggiatore.
Khattab, Lara, & Bassel Salloukh, Rabie Barakat, Jinan Al-Habbal, Shoghig Mikaelian. 2015. “The Politics of Sectarianism in Postwar Lebanon”. Pluto Press.
Salibi, Kamal. 2017. “A house of many mansions. The history of Lebanon Reconsidered”. L. B. Tauris.
Editing a cura di Niki Figus
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