Con l’AUKUS l’Australia fa una scelta di campo

AUKUS
@U. S. Pacific Fleet - Flickr - CC BY 3.0 NZ

Quando si valutano i rischi di un investimento è buona regola diversificare il più possibile. Puntare tutti i propri risparmi o il proprio capitale su un solo asset, infatti, di solito non rappresenta una scommessa sicura. Spesso lo stesso ragionamento si fa nelle relazioni tra gli Stati. 

Immaginiamo, per esempio, la politica internazionale come un grande palcoscenico dove tutti i Paesi sono quotati e ciascuno di essi decide di investire sulle chance degli altri di prevalere o meno. È chiaro che in gioco non vi può essere il classico capitale economico ma esclusivamente un capitale politico, un capitale che ciascun Paese sceglie di scommettere sul Paese che può massimizzarlo.

Solitamente, proprio in quest’ottica, anche i Paesi cercano di seguire la regola della diversificazione. Soprattutto quelli più piccoli, i quali difficilmente possono scommettere tutto su un Paese solo, perché così facendo rischierebbero di inimicarsi altre super potenze. Questa regola, come in tutte le altri parti del mondo, vale anche in Oceania. 

Tuttavia, se la Nuova Zelanda sembra andare in questa direzione, con la recente firma dell’accordo AUKUS il governo australiano sembra invece voler seguire una strategia di segno opposto.

Diversificazione e non diversificazione in Oceania

Un esempio lampante della strategia della diversificazione è la Nuova Zelanda di Jacinda Ardern. Da quando la giovane Prima ministra è entrata nel gabinetto di governo a Wellington, il Paese non ha mai pienamente preso le distanze da Washington e da Pechino ma ha deciso di rimanere equidistante, portando avanti in qualche modo una scelta di diversificazione del rischio. 

In questo modo, infatti, la Nuova Zelanda può dialogare con tutte e due le superpotenze ed evitare grandi ingerenze da parte di entrambe Allo stesso tempo però, perseguendo su questa linea, non sarà mai la favorita né di Pechino né di Washington e quindi non trarrà mai dalla relazione il massimo profitto possibile.

Nel caso dell’AUKUS e dei sottomarini nucleari, l’Australia ha deciso di fare il contrario e puntare tutto su un solo cavallo: gli Stati Uniti. Ma perché ha fatto questa scelta e cosa si nasconde dietro le ultime mosse di Canberra? Prima di capirne le motivazioni profonde però, cerchiamo di fare chiarezza sui fatti. 

L’Australia nel mese di settembre ha firmato un accordo con Regno Unito e Stati Uniti per creare un’alleanza ancora più stretta in funzione difensiva anticinese. Inoltre l’accordo prevede una clausola particolare riguardante sottomarini a propulsione nucleare di classe superiore ai Collins, attualmente  in dotazione della marina militare australiana.

Questi armamenti rappresenteranno una svolta per il ruolo geopolitico dell’Australia nell’area. Nei prossimi dieci anni l’Australia acquisterà dagli Stati Uniti 8 sottomarini nucleari che verranno assemblati direttamente nel Paese, con il supporto di Londra e Washington. Inoltre, per rafforzare ancora di più il legame forgiato con questo patto, Canberra comprerà uranio impoverito dagli Stati Uniti come carburante per i sottomarini, dato che l’Australia non ha energia nucleare, che è proibita anche per usi civili.

I rischi di Canberra

Il Premier Scott Morrison con questo gesto si è attirato le ire di due Paesi in particolare: la Cina e la Francia. Se la risposta di Pechino è stata chiaramente mossa dalla natura stessa dell’accordo – la analizzeremo in seguito – è interessante cercare di capire perché Parigi ha reagito in questo modo

La ragione è presto detta: i francesi infatti avevano in essere un contratto con l’Australia per dei sottomarini di produzione transalpina da consegnare nei prossimi anni, ma l’Australia ha rescisso l’accordo per fare posto a quello con gli Stati Uniti. A questo bisogna aggiungere la paura francese di rimanere tagliata fuori dalla partita neo atlantica, che si gioca da dieci anni a questa parte nelle calde acque dei mari della Cina Meridionale, un quadrante dove Parigi ormai difficilmente può dare le carte.

Torniamo però alla reazione cinese. Le tensioni tra Pechino e Canberra vanno ormai avanti da molto tempo, in particolare gli scambi si molto surriscaldati dopo l’esercitazione militare di Malabar dello scorso anno nell’ambito del QUAD, l’accordo quadrilatero di difesa tra Stati Uniti, Giappone, Australia e India.

Pechino si sente minacciata da questo accordo soprattutto per via degli step successivi: questi sottomarini infatti saranno armati della più aggiornata delle tecnologie e saranno utilizzati per garantire la libertà di navigazione nel quadrante del Sud Est Pacifico. Questo vuol dire che la Cina tra qualche anno dovrà affrontare, all’interno dell’alleanza statunitense (oltre alla superpotenza Washington, minacce significative come Giappone, India e Gran Bretagna) anche un nuovo nemico estremamente aggressivo e legato a doppio filo con gli USA: l’Australia.

Questo sviluppo rende ancora più tesa la situazione strategica del quadrante del Mar Cinese Meridionale. Attualmente, infatti, le forze che si contendono sono numerose. La Cina ha oggi la marina militare più grande al mondo, con 360 unità da combattimento contro le circa 267 degli Stati Uniti. Resta tuttavia ancora dietro agli Stati Uniti per sviluppo tecnologico militare, nonostante il gap si stia riducendo. 

L’annuncio dell’AUKUS cambia però l’equilibrio sul lungo periodo. Infatti, per quanto si stimi che Pechino nei prossimi anni aumenterà sensibilmente la propria capacità di proiezione marittima, se gli Stati Uniti dovessero riuscire a far salire l’impegno dei propri alleati nell’area – vedi l’Australia in questo caso – lo sforzo cinese potrebbe non essere sufficiente a cambiare le forze in campo. In ogni caso, la corsa agli armamenti è ormai iniziata e difficilmente potrà terminare nel breve periodo.

Il filo di Morrison e il futuro della politica estera australiana

Riprendiamo però l’iniziale questione del rischio e analizziamo le ragioni della decisione australiana. Canberra ha scelto questa strada perché non può più permettersi di fare da punto di appoggio per gli Stati Uniti in Oceania, mantenendo poi un contatto diplomatico ambivalente con Pechino. La svolta dell’AUKUS nasconde però un rischio: Canberra potrebbe trasformarsi di fatto nella marina militare statunitense.

Durante un eventuale scontro con Pechino, i soldati australiani diverrebbero la principale forza per affrontare la prima linea di attacco cinese. Questo comporta una perdita di autonomia strategica. Almeno nel breve periodo, però, legarsi mani e piedi a Washington può essere estremamente vantaggioso sapendo che alla Casa Bianca c’è Joe Biden e che tendenzialmente la tensione rimarrà allo stato attuale per molto tempo. 

Tanti sono gli assunti nella strategia di Scott Morrison e nulla assicura che questi non possano cambiare nel tempo, per adesso però l’Australia ha scelto in modo chiaro e definitivo da che parte stare, e potrebbe anche guadagnarne.
Canberra vuole essere riconosciuta da Washington come guardiana dell’area e dei suoi flussi commerciali, con la serie di vantaggi e benefit che questo comporta. 

A questo si aggiunge la volontà di Morrison di garantirsi un minimo di clemenza in tema di cambiamento climatico, in virtù della sua utilità dal punto di vista strategico. Il Primo ministro australiano, infatti, è largamente appoggiato dalla lobby del carbone e del petrolio, e se gli Usa dovessero chiedere un cambio di rotta su quel fronte, per lui potrebbe configurarsi uno scenario preoccupante in casa.

Ormai però le pedine australiane sono schierate, ora tocca a Pechino muovere nella scacchiera dell’Asia-Pacifico.

 

Fonti e approfondimenti

Alexander L. Vuving, AUKUS Is a Short-Term Mess but a Long-Term Win for Australia, Foreign Policy, 11 Ottobre 2021.

Stephen M. Walt, “The AUKUS Dominoes Are Just Starting to Fall”, Foreign Policy, 18 Settembre 2021.

George Parker, Sebastian Payne, Anthony Klan, Katrina Manson, Anna Gross and Victor Mallet, “Aukus: How transatlantic allies turned on each other over China’s Indo-Pacific threa”t, Financial Times, 24 Settembre 2021.

 

Editing a cura di Emanuele Monterotti

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