L’indagine dei Pandora Papers è uno dei maggiori sforzi mai compiuti per smascherare i meccanismi che si celano dietro il mondo della finanza offshore. Le dimensioni dell’indagine del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ) sono senza precedenti, con 11,9 milioni di files ottenuti da 14 tra le più importanti agenzie di servizi offshore e indagati da oltre 600 giornalisti.
Con “offshore”, letteralmente “al largo della costa”, in economia intendiamo tutti quei Paesi in cui sono in vigore leggi che permettono di ricevere un trattamento fiscale di favore, solitamente protetto da fortissime garanzie di segretezza e anonimato. Per estensione, con “finanza offshore” ci riferiamo al complesso di tecniche e normative con cui si spostano capitali in queste zone tramite la costituzione di società localizzate nei cosiddetti paradisi fiscali, in maniera più o meno lecita e predatoria.
I Pandora Papers hanno evidenziato come, mai prima d’ora, le élite politiche ed economiche globali dispongano di strumenti, tecniche e coperture in grado di permettere loro di evadere la tassazione nazionale e nascondere i propri capitali. A impressionare non è solo il grado di perfezionamento di questi strumenti, ma anche la dimensione e ramificazione della finanza offshore. Basti pensare che l’indagine ha riguardato migliaia tra i personaggi più prominenti del business, dell’intrattenimento e della politica (compresi trentacinque capi di Stato) provenienti praticamente da tutto il mondo.
La finanza offshore è un fenomeno noto da tempo, specialmente dopo il simile scandalo dei Panama Papers, ma questa indagine ha evidenziato come la dimensione e il funzionamento di questo settore minacciano gravemente le economie nazionali. L’Africa è stata interessata da queste rivelazioni in due modi. Innanzitutto perché ben cinquantatré giornalisti africani hanno preso parte all’inchiesta, ma soprattutto perché i documenti emersi hanno coinvolto decine e decine di politici, imprenditori e personalità importanti del continente.
L’Africa nella geografia dell’offshore
Dai report appare come il continente africano sia perfettamente integrato nell’economia globale dell’offshore. Questo dato non è però una novità, visto il ruolo giocato dai Paesi africani nell’economia globale proprio negli anni in cui questo settore sommerso si è andato a formare.
Fin dagli anni Ottanta, una lunga serie di cambiamenti nell’economia globale ha permesso la finanziarizzazione dell’economia internazionale portando allo sviluppo del complesso sistema su cui oggi sussiste l’offshore. Nella stessa congiuntura temporale, l’Africa subiva le sue prime crisi del debito e i conseguenti Piani di Aggiustamento Strutturale (PAS) delle Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFI). Queste misure draconiane hanno fatto sì che ad accompagnare la finanziarizzazione delle economie africane e il loro ingresso sulla scena globale ci fossero deregolamentazioni selvagge, instabilità e confini poco chiari tra le sfere pubbliche e private.
Questo caos ha generato le condizioni ottimali grazie alle quali molte élite economiche del continente hanno potuto assumere una posizione egemone e predatoria nel sistema economico dei loro Paesi, facendo crescere a dismisura le diseguaglianze tra la popolazione africana. Nel frattempo, questa situazione permetteva alle stesse persone di entrare in contatto con la galassia internazionale dell’offshore, con il risultato che gli enormi capitali, ottenuti depredando il continente, sono confluiti nei paradisi fiscali.
Nonostante la perfetta integrazione delle élite africane nella geografia dell’offshore, la posizione dell’Africa rimane comunque peculiare. Nel continente mancano infatti importanti paradisi fiscali, fatta eccezione per Seychelles e Mauritius che però ricoprono un ruolo secondario nel sistema, quindi la quasi totalità dei capitali coinvolti in questi traffici abbandona l’Africa in favore di altre zone del mondo. Le istituzioni politiche, giuridiche e finanziarie africane sono infatti ritenute troppo fragili e inattendibili dalle élite internazionali che per questo sono meno inclini a scegliere Paesi africani come luogo in cui nascondere le loro fortune, nonostante molti di questi offrano vantaggi fiscali difficili da eguagliare.
Il sistema emerso dai Pandora Papers sembra quindi relegare l’Africa in una posizione subordinata all’interno della geografia della finanza offshore. Una volta integrata nel sistema, infatti, all’Africa spettano tutti i mali e poco o nulla dei vantaggi della filiera, persino in un caso come questo in cui è opinabile se ci siano effettivamente dei vantaggi per la collettività.
Chi appare nei Pandora Papers
Il numero di politici africani coinvolti nello scandalo è quarantatré, di cui dieci sono nigeriani, nove angolani e i rimanenti provengono da Marocco, Costa d’Avorio, Ghana, Ciad, Gabon, Repubblica del Congo, Kenia, Zimbabwe e Sudafrica. Tra le personalità di spicco travolte dall’inchiesta ci sono tre presidenti: Denis Sassou-Nguesso (Repubblica del Congo), Uhuru Kenyatta (Kenia) e Ali Bongo (Gabon). A questi vanno sommati grandi magnati dell’economia del continente, in particolare legati al business del petrolio e di altre risorse.
Secondo alcuni analisti, l’intento primario dei potenti africani nel nascondere le loro fortune non è quello di evitare la tassazione. In moltissimi Paesi del continente, infatti, la tassazione è generalmente molto bassa nei confronti dei grandi patrimoni, se non quasi nulla. L’obiettivo principale delle loro azioni è piuttosto quello di ottenere privacy e segretezza per quanto riguarda le loro posizioni fiscali, oltre che la protezione dal sequestro di questi asset in caso di guai giudiziari.
Il quadro generale che emerge è quindi molto chiaro: le élite africane sono perfettamente inserite nei circuiti dei cosiddetti “global rich and powerful” e dispongono degli stessi mezzi e della stessa capacità di accesso ai servizi finanziari offshore delle loro controparti di altre zone del mondo.
Di molti dei potenti coinvolti nello scandalo, è interessante notare come già da anni si vociferasse dei loro asset nascosti all’estero. Esiste infatti un certo cinismo verso i comportamenti delle élite politiche tra la popolazione africana, che quindi non si aspetta che uno scandalo del genere possa generare dei cambiamenti nella condotta di questi soggetti o un cambiamento delle regolamentazioni finanziarie del continente. Questo potrebbe tradursi in un’ulteriore delegittimazione dello status quo agli occhi della popolazione, specialmente quella più giovane, con effetti difficili da prevedere.
Gli effetti della fuga di capitali sul continente
Secondo le stime dell’OCSE ogni anno il continente africano perderebbe almeno cinquanta miliardi di dollari tra elusione fiscale, investimenti offshore, riciclaggio e altre forme di dirottamento dei capitali. Alcuni dati del think tank Global Financial Integrity, mostrano infatti come lo spostamento illecito di capitali potrebbe valere mediamente tra il 7,5% e l’11,6% dell’intero valore del commercio in Africa Sub-Sahariana. Ovviamente l’impatto di questo fenomeno è diverso da Paese a Paese, ma sembra interessarli tutti, seppur in forme diverse, con le situazioni più preoccupanti in Paesi produttori di petrolio come Nigeria e Angola.
L’analisi dei Pandora Papers ha evidenziato ancora di più come esista in molti Paesi africani una correlazione diretta che lega l’ingresso di capitali attraverso cooperazione internazionale e investimento estero alla fuga di capitali verso i paradisi fiscali. Da questo dettaglio emerge ancora con più chiarezza come i colli di bottiglia nei meccanismi di distribuzione della ricchezza siano i punti dove alcune élite predatorie riescono ad appropriarsi di enormi fortune, che immediatamente vengono dirottate offshore.
Un’emorragia di denaro di questa portata non può non avere effetti concreti, che impattano direttamente sulle vite di milioni di africani. La mancata tassazione su questi capitali si traduce in budget decisamente più ristretti per le amministrazioni dei Paesi africani, cosa che a sua volta significa meno istruzione, infrastrutture e servizi di welfare.
Una volta entrati nell’economia offshore, inoltre, i grandi capitali che lasciano l’Africa non vi fanno ritorno se non nell’ambito di progetti di investimento che hanno l’obiettivo di generare un profitto che a sua volta prenderà la rotta dei paradisi fiscali. Le risorse già carenti a disposizione dei programmi di welfare nazionali rischiano quindi di diventare ancora più scarse sul lungo periodo, a mano a mano che sempre più denaro viene impiegato per generare profitto privato piuttosto che impatto sociale.
In Africa come altrove, quindi, il problema è che ogni dollaro che si inabissa nella finanza offshore rappresenta ricchezza sottratta alla comunità a favore di una minoranza privilegiata e che smetterà quindi di generare valore per la collettività per foraggiare invece l’interesse egoistico di pochissimi.
Fonti e approfondimenti
Ricardo Soares de Oliveira (2021) Researching Africa and the Offshore World, The Oxford Martin Programme on African Governance.
Ricardo Soares de Oliveira (2021) What the Pandora Papers mean for Africa, Geneva Solutions.
Ricardo Soares de Oliveira (2021) Pandora Papers: 4 lessons Africa can draw from the leak, the Africa Report.
Jaysim Hanspal (2021) Pandora papers: From Congo to Zimbabwe, the implicated African leaders, The Africa Report.
Alex Booth (2019) How can Africa solve its capital flight problem?, The Africa Report.
Global Financial Integrity (2018) Trade-Related Illicit Financial Flows: Data by Country.
Ecofin Agency (2021) 43 African politicians named in the “Pandora Papers”.
Treccani (2012) Off Shore, Dizionario di Economia e Finanza.
Editing a cura di Giulia Lamponi