Lo scorso 16 settembre, l’omicidio di Mahsa Amini – nome ufficiale di Jina Amini (nome curdo, in quanto tale vietato dalle autorità) – ha scatenato in Iran un’ondata di proteste senza precedenti per durata e composizione di classe ed etnica dei partecipanti. L’omicidio di Jina per mano della polizia religiosa iraniana – la ventiduenne era stata arrestata il 13 settembre per aver indossato in maniera scorretta il velo in un luogo pubblico (mostrando parzialmente i capelli) ed è morta tre giorni dopo in ospedale a causa delle lesioni riportate alla testa durante la detenzione – ha infatti catalizzato il malcontento ben radicato nelle popolazioni della Repubblica islamica. A quasi tre settimane di distanza dall’episodio, le proteste – in breve diventate sommosse – stanno spingendo diversi analisti e giornalisti a usare il termine “rivoluzione”.
La reazione dei curdi e delle altre minoranze etniche all’omicidio di Jina “Mahsa” Amini: solidarietà anti-regime interetnica?
A poche ore di distanza dall’annuncio della morte di Jina, diventata virale a livello nazionale e internazionale grazie all’uso dei social network, migliaia di donne hanno partecipato ai funerali della ventiduenne celebrati nella città di Saqqez, nell’ovest del Paese, togliendosi il velo e in alcuni casi bruciandolo in segno di protesta contro la polizia morale iraniana e la legge nazionale che impone alle donne di coprirsi i capelli nei luoghi pubblici.
Nonostante la brutale risposta delle forze di sicurezza iraniane, che sono riuscite a rintracciare e ad arrestare alcune delle partecipanti riconoscibili nei video diventati virali durante le prime proteste, la minoranza curda iraniana (circa il 10% della popolazione totale) ha imbracciato la protesta allargandola alle cinque province che storicamente ed etnicamente formano il Kurdistan orientale (Rojhilatê Kurdistanê in kurmanji), ovvero la provincia dell’Azerbaijan occidentale, la provincia del Kurdistan, la provincia di Kermanshah, la provincia di Ilam e quella di Hamadan.
Il femminicidio di Jina “Mahsa” Amini e la conseguente reazione dell’apparato repressivo centrale iraniano è stato percepito dalla comunità curda come l’ennesimo episodio di repressione su base etnica, innescando ulteriori proteste che hanno portato a gesti simbolici estremamente gravi come la distruzione delle effigi dedicate all’ayatollah Ali Khamenei, il capo politico e spirituale della Repubblica islamica d’Iran. Le rivendicazioni del diritto di scelta e maggiori libertà per le donne si è rapidamente sovrapposta alle recriminazioni della comunità curda iraniana che, come le altre minoranze etniche del Paese, subisce diverse forme di controllo sociale, economico e politico.
Di fatto, come sostenuto dall’accademico iraniano Mostafa Vaziri, l’identità nazionale iraniana moderna è strettamente legata al concetto di Umma, ovvero di comunità musulmana, che mette in secondo piano le identità laiche o non sciite di alcune minoranze. Tuttavia, l’identità nazionale costruita a partire dalla Rivoluzione islamica del 1979 si sovrappone e si appropria delle basi di quella utilizzata sotto la dinastia Pahlavi (regnante dal 1925 al 1979). Gli Sha elaborarono un’identità costruita dall’alto in maniera violenta con l’imposizione della supremazia economica e politica della componente etnica persiana-sciita a danno delle altre comunità (curdi, turkmeni, azeri, arabi, beluci e altri), che spesso si è articolata nel divieto di usare lingue, costumi e tradizioni appartenenti a specifiche etnie.
Tenuto in considerazione la dicotomia “noi-loro”, che tende a controllare socialmente le minoranze all’interno della nazione iraniana, si capisce il perché le proteste siano dilagate, inizialmente, soprattutto in Kurdistan e nelle altre regioni abitate da minoranze etniche – come il Khuzestan (confine con l’Iraq, in cui le proteste per il femminicidio di Jina si sono sovrapposte a quelle per la pessima gestione statale della siccità prolungata), a maggioranza araba, e il Balochistan nel sud-est del Paese, a maggioranza belucia.
Secondo l’analista Allan Hassaniyah, nonostante sia parzialmente errato ricondurre il dilagare delle contestazioni nelle regioni abitate da minoranze a una semplice forma di solidarietà anti-regime, il fatto che le sommosse siano scoppiate prima in tali aree rispetto alle più ricche regioni a maggioranza persiana al grido di “Jin, Jiyan, Azadi” (“donna, vita, libertà” in curdo kurmancji) e/o “da Tabriz a Sanandaj, da Teheran a Mashhad morte al regime” è comunque un fattore indicativo della percezione della repressione condivisa da popolazioni che abitano aree differenti del Paese. Tuttavia, va sottolineato che uno degli elementi di forza degli attuali movimenti ufficiosi che stanno convergendo nelle proteste è la totale mancanza di istanze indipendentiste: ad accomunare uomini, donne e minoranze etniche e religiose è la richiesta di migliori condizioni di vita, economiche e sociali, all’interno di un Iran rivoluzionato. La priorità, secondo slogan e istanze avanzate dai manifestanti, è la fine del regime e la fine dell’imposizione della Shari’a come fonte legale primaria dello Stato.
Le donne come catalizzatore e avanguardia di una tentata rivoluzione
Nonostante sia innegabile che la partecipazione di uomini e di esponenti di varie comunità etniche del Paese sia un tratto significativo delle proteste, il ruolo di catalizzatore del malcontento nazionale è da ricondurre alle donne. Secondo il Global Gender Gap Report del 2022, l’Iran occupa la 143° posizione su 146 Paesi analizzati con un punteggio di 0,576 su 1000 in termini di parità di genere e aspettative/qualità di vita delle donne. Il punteggio, seconda la classifica, ha subito un peggioramento rispetto al periodo precedente all’elezione di Ebrahim Raisi a presidente (2021), considerato molto vicino alle frange più conservatrici della società iraniana; periodo in cui le discriminazioni di genere erano ben consolidate e normalizzate se non istituzionalizzate, dal momento che le donne rappresentano solo il 5,60% dei membri del parlamento e solo il 6,67% degli incarichi ministeriali è ricoperta da donne.
Le modalità dell’uccisione di Jina e il tentato insabbiamento da parte delle autorità – che hanno ufficialmente ricondotto la morte della giovane a un arresto cardiaco – hanno rappresentato per le donne iraniane l’ennesimo episodio di “femminicidio di Stato”. A differenza di altri casi precedenti, il termine femminicidio è stato utilizzato dalle donne iraniane sui propri social network – spazi virtuali in cui le critiche ai principi fondamentali della Repubblica islamica si sono moltiplicati anche grazie all’attivismo di giornaliste e intellettuali in esilio, come nel caso di Masih Alinejad e la sua pagina Facebook My Stealthy Freedom – sostenute anche da diverse organizzazioni femministe e militanti internazionali. Si tratta, ad esempio, del caso del Komalên Jinên Kurdistan (KJK), il Congresso delle donne del Kurdistan – attivo in Iran così come in Turchia, Siria e Iraq – che ha provato fin da subito a dotare la rabbia delle donne iraniane di una struttura ideologica parlando di femminicidi sistemici, necessità di un’autodifesa interetnica delle donne e di patriarcato come forma di colonialismo maschilista. Oltre al KJK, anche la rete internazionale nota come Women Living Under Muslim Law (WLUML) – nata nel 1984 con lo scopo di monitorare la vita delle donne nei Paesi musulmani – ha implementato i propri sforzi in Iran provando a divulgare il più possibile notizie relative alla violenza di genere di Stato, alcune chiavi di lettura tipiche del femminismo islamico e, soprattutto, a fornire nei limiti delle proprie possibilità sostegno legale e materiale alle donne individuate dalle autorità durante le proteste.
Secondo Azadeh Kian, sociologa francese di origine iraniana, una delle principali differenze tra le attuali proteste e quelle, comunque recenti, del biennio 2016-2018 è proprio il rinnovato background ideologico femminista che sta portando le donne a organizzarsi per mettere in dubbio la legittimità di uno Stato in cui il connubio tra dominio sulle donne e autorità islamica è ormai palese anche a una popolazione strettamente controllata dagli apparati repressivi statali e profondamente influenzata dalla narrazione di Teheran. Quella che oramai è diventata una sommossa collettiva guidata dalle donne vede la partecipazione non solo delle generazioni più emancipate dalla tradizione religiosa, ma anche di persone più anziane che vedono nell’obbligo del velo il tradimento della rivoluzione islamica nei confronti delle iraniane, le quali, come sancito dal Corano, preservano il diritto di scelta e la parità, sia in ambito pubblico che privato, con gli uomini, soprattutto se componenti del loro stesso nucleo familiare.
Come sostenuto da Azadeh Akbari, ricercatrice dell’Università di Twente, in questo momento le donne iraniane, e il popolo in generale, stanno realizzando che la violenza di Teheran nell’imporre l’obbligo di velo è un pratica di «controllo del corpo delle donne che non rientra nei problemi attribuibili all’attuale governo quanto alla natura stessa della Repubblica islamica e alle sue fondamenta». Per questa ragione, secondo la ricercatrice iraniana, le donne stanno ottenendo vasto sostegno anche dalle compagne di genere che, pur essendo religiose «vogliono indossare il velo ma che si oppongono con forza alle pratiche violente dello Stato, sia nell’imposizione stessa dell’hijab, sia nella repressione degli apparati di sicurezza dello Stato. Il problema non è il velo, è lo Stato e le sue pratiche maschiliste».
Non solo donne e altre minoranze: studenti e operai nella lotta al regime
Il 4 ottobre scorso, sono diventate di dominio pubblico le immagini della repressione di forze dell’ordine e milizie governative ai danni degli studenti che, in massa, hanno sostenuto le recriminazioni delle donne iraniane. Alcune delle università più prestigiose del Paese, come l’università Sharif di Teheran, hanno subito l’irruzione di uomini armati che hanno percosso e arrestato centinaia di studenti, riscontrando però, solo un’ulteriore resistenza da parte di studenti e civili.
La partecipazione in massa degli studenti iraniani alle proteste è un ulteriore dato indicativo della situazione sociale ed economica all’interno della Repubblica islamica: un Paese in cui oltre il 40% della popolazione ha meno di 30 anni ma che, nonostante sia il secondo al mondo per lauree scientifiche (dati Global index), fatica ad assorbire la forza lavoro altamente specializzata in uscita dalle università. Le difficoltà nel trovare solidi impieghi è spesso attribuita all’arretratezza di istituzioni governative incapaci di progredire nello sviluppo economico, tecnologico e industriale del Paese. Inoltre, il deprezzamento della valuta nazionale impatta fortemente l’inflazione iraniana, ormai attestata intorno al 40% su base annua, allarga le difficoltà lavorative anche alle classi sociali considerate più deboli.
Nonostante il quotidiano filo-governativo e conservatore Javan sostenga che il 93% dei manifestanti scesi in piazza nelle ultime settimane abbia meno di 25 anni, diverse testimonianze riportate da svariati quotidiani occidentali parlano della presenza di operai e artigiani nelle piazze. In un’intervista rilasciata a Il Manifesto, il regista e intellettuale curdo-iraniano Fariboz Kamkari ha indicato che le recenti sommosse sono definibili una rivoluzione in quanto vedono la partecipazione anche del ceto medio e delle classi basse. Tuttavia, se è vero che la narrazione degli eventi dettata da Teheran tende a isolare i partecipanti alle manifestazioni e a farli rientrare in classi sociali ben specifiche – come i giovani influenzati da social network e dal desiderio di stili di vita occidentali – è anche vero che operai, artigiani e classi medio-basse persiane sono meno rappresentate all’interno delle sommosse rispetto a giovani, donne e minoranze etniche. Questo dato, però, va interpretato alla luce delle difficoltà storiche riscontrate da tali classi socio-lavorative nell’organizzarsi, in quanto mancano in Iran associazioni collettive come sindacati indipendenti e corporazioni – i bazar sono da sempre luoghi di repressione ma anche di costruzione del dissenso – in grado di coadiuvare le recriminazioni di quegli strati della popolazione che più di tutti soffrono povertà e disoccupazione, ma che raramente hanno accesso a media alternativi a quelli statali.
Il dito puntato contro nemici interni ed esterni: la gestione delle proteste di Teheran
Nonostante il presidente iraniano Raisi abbia annunciato il 4 ottobre che il governo «lavorerà e coopererà per la riduzione dei problemi delle persone», la narrazione ufficiale di Teheran rimane che i cittadini in piazza sono una minoranza rispetto agli iraniani fedeli ai principi della Repubblica islamica e che «l’integrità e l’unità nazionali sono fondamentali per resistere agli attacchi esterni». In questo modo, il presidente iraniano ha fatto eco alle parole giunte il giorno precedente dall’ayatollah Ali Khamenei, il capo dello Stato, che aveva ricondotto le proteste a un complotto ordito «dagli Stati Uniti e dall’entità sionista (Israele) nella speranza di destabilizzare l’Iran».
Tuttavia, la pratica di esternalizzare le cause delle crisi interne rimane un approccio tipico dei regimi autoritari, che solitamente puntano il dito contro nemici all’estero per ricompattare le popolazioni e dividere i manifestanti. Pubblicizzata dai media nazionali e affiancata da una repressione statale diretta sia contro i manifestanti sia contro i cittadini stranieri accusati di essere spie – come nel caso dell’italiana Alessia Piperno, arrestata nei giorni scorsi – tale retorica dimostra un approccio fallace alla gestione del dissenso.
Durante i primi giorni di proteste, infatti, il regime di Teheran aveva provato la strategia del dividi et imperat puntando il dito contro nemici interni dello Stato. Iniziate nel Kurdistan iraniano, le proteste sono state ricondotte dalla narrativa statale a presunte ingerenze indipendentiste dei curdi. All’esordio delle manifestazioni, infatti, esponenti della comunità locale sono stati arrestati, mentre le cinque province curde hanno visto lo schieramento di forze dell’ordine provenienti dalle regioni a maggioranza persiana in cui il sostegno alla Repubblica islamica è ben radicato. Le sedi del Partito democratico del Kurdistan d’Iran (KDPI) e il Partito della Libertà del Kurdistan (FPK), principali partiti curdi-iraniani, sono state prese d’assalto, perquisite e chiuse. Contemporaneamente, le agenzie di stampa irachene hanno riferito del lancio di missili da oltre il confine iraniano contro le postazioni delle milizie e autorità curde-irachene, accusate da Teheran di aver fomentato le proteste.
Tuttavia, nonostante appaia abbastanza chiara la difficoltà dell’Iran nel gestire le proteste e nello scaricare le responsabilità su nemici interni ed esterni, diversi analisti sostengono che, al momento, la situazione è grave ma non totalmente fuori controllo da parte del regime di Teheran. Di fatto, le forze ai vertici della Repubblica islamica godono ancora dell’appoggio delle forze armate e di gran parte degli apparati di sicurezza, possedendo quindi la capacità di gestire, anche in maniera violenta, il dissenso interno. La situazione però è ancora in via di sviluppo e come tale bisognerà attendere per vedere quali prospettive i tentativi di rivoluzione e rinnovo scaturiti dal basso potranno reclamare e avanzare.
Fonti e approfondimenti
Global Gender Gap Report, July 2022.
Hakakian R., “The Bonfire of the Headscarves”, The Atlantic, 24 settembre 2022.
Hassaniyan A., “Iran’s Transformative Moment: Kurdistan on the Frontline”, Kurdish Peace Institute, 3 ottobre 2022.
Siviero G., “Le proteste in Iran viste dai movimenti delle donne”, Il Post, 25 settembre 2022.
Strzyżyńska W., “Mahsa Amini’s death could be the spark that ignites Iran around women’s rights”, The Guardian, 23 settembre 2022.
Vaziri M., “Iran as imagined Nation”, Gorgias Press, 2013.
Editing a cura di Carolina Venco
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