L’Italia e il Jihadismo europeo: affinità e divergenze 

Jihad
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In un articolo pubblicato quest’estate sul “The Guardian” si poneva la domanda del perché l’Italia fosse stata risparmiata dall’ondata di attacchi terroristici di matrice jihadista che negli ultimi anni hanno insanguinato l’Europa.

“Is Italy just lucky?” una domanda simile merita non una ma diverse risposte che partono da questioni storiche, legali, psicologiche, sociologiche, economiche e soprattutto demografiche. All’interrogativo posto dal quotidiano britannico si potrebbe rispondere affermando che l’Italia non è stata fortunata ma semplicemente ha sviluppato caratteristiche che la rendono diversa dai paesi del nord Europa.

Le due fasi del jihadismo in Europa

Il Jihadismo tradizionale

L’evoluzione storica del jihadismo in Europa è un buon punto dal quale partire, è opportuno distinguere due fasi per comprendere a pieno le differenze fra Italia e nordeuropa. La prima fase è a cavallo tra anni 80 e 90. In questi anni a causa della repressione nei paesi di origine, principalmente paesi MENA, alcune centinaia di militanti jihadisti trovarono rifugio in Europa.

Ciò non comportò un pericolo immediato per i paesi ospitanti. Gruppi come l’egiziana Gamaa islamiya o il Gruppo Islamico Armato Algerino crearono sul territorio europeo sofisticati apparati dediti alla propaganda (anti occidentale), alla raccolta di fondi e al reclutamento di nuovi adepti per supportare le loro attività in Nord Africa. In parte a causa del riconoscimento di diritti a loro prima sconosciuti e favorevoli, in parte a causa dell’utilizzo dei paesi europei come base logistica, questi individui non avrebbero usato la violenza nel vecchio continente.

Gli unici attacchi contro un paese dell’Europa occidentale in questa prima fase furono gli attentati in Francia del il 1994 e del 1995. L’atto nacque come punizione al governo francese per il suo supporto al governo di Algeri durante la guerra civile di quegli anni. Un caso del genere, che potrebbe segnalare un’incongruenza con quanto affermato finora, sintetizza invece al meglio l’essenza della prima fase del jihadismo europeo: il focus dei militanti era ancora il loro paese di origine e il relativo regime, l’Europa era una base organizzativa.

L’Italia si inserisce in questa dinamica della prima fase storica. Milano è il luogo su cui concentrarci, nello specifico il centro culturale islamico di viale Jenner. Aperto nel 1988 questo garage adibito a moschea venne monopolizzato da uomini legati a Gamaa islamiya che utilizzarono l’italia come base per attività durante il conflitto in Bosnia. Le dinamiche sono coerenti con quanto detto precedentemente: raccolta di fondi e supporto logistico dall’Europa, attacchi in paesi esterni. In questo caso i paesi esterni non erano nordafricani o mediorientali ma balcanici, il gruppo si inserì infatti nel contesto delle guerre che insanguinarono la regione negli anni ’90.

I militanti di viale Jenner compirono il primo attentato suicida in un paese Europeo, facendosi esplodere davanti a una caserma della polizia croata a Fiume nel 1995, l’unica vittima fu l’attentatore stesso. Procacciavano armi, documenti falsi e ogni tipo di materiale utile ai gruppi attivi fuori dall’Europa, per i quali reclutavano nuovi combattenti. Le loro caratteristiche demografiche rispecchiavano quelle dell’immigrazione islamica in Italia, e la maggior parte dei soggetti coinvolti in essi erano immigrati di prima generazione provenienti dalla Tunisia, Algeria, Marocco, Libia ed Egitto. Molti di essi erano nel paese illegalmente e vivevano in condizioni di forte disagio socio-economico.

Da al-Qaeda al “leaderless jihad”

Con il lancio della jihad globale promosso da Bin Laden ha inizio la seconda fase del jihadismo europeo. Questa fase vede sia una cooperazione dei network, precedentemente isolati, in funzione di un singolo obbiettivo: per far crollare i singoli regimi bisogna attaccare gli stati occidentali che li aiutano economicamente e militarmente. Già presenti da anni e con una struttura ben definita furono proprio militanti Europei a condurre gli attentati dell’11 settembre 2001. L’impatto di quell’evento scatenò una durissima reazione che ebbe l’effetto di rompere i rapporti tra nuclei europei ed al-Qaeda.

Si apre così l’epoca del “leaderless jihad”. Contributo fondamentale alla formazione di un jihad europeo senza leader e con strutture diverse da quelle della prima fase fu soprattutto il fattore demografico, si passò da militanti di prima generazione, nati e cresciuti fuori dall’Europa a individui nati e cresciuti nel vecchio continente.

Con le relative variabili da paese a paese le autorità antiterrorismo assistettero a un proliferare di  piccoli network di jihadisti autonomi ed autoctoni. Individui nati e cresciuti in Europa, radicalizzati nelle grandi città ma anche in provincia. A differenza dei loro predecessori questi “lone actors” non provenivano da organizzazioni gerarchiche con un preciso obbiettivo ma costruivano progressivamente e personalmente la propria ideologia jihadista. La rete diventa un mezzo importante di radicalizzazione, a discapito del contatto. Gli obbiettivi di questa nuova generazione, che potrebbe sembrare meno pericolosa, sono spesso imprevedibili: dall’unirsi a gruppi jihadisti extraeuropei, al combattere in conflitti all’estero, al perpetrare attacchi in Europa.

Proprio la radicalizzazione appare oggi, nel momento attuale che potremmo definire “ascendente” della seconda fase, tanto determinante quanto difficilmente ascrivibile a categorie granitiche. Come affermano gli esperti “In molti casi, per identificare le dinamiche di radicalizzazione, la psicologia offre più spunti d’analisi della sociologia.”

Diversi casi di jihadismo presi in analisi ci raccontano che in Europa i profili dei militanti includono criminali che vivono ai margini della società e laureati che lavorano in alcune delle più prestigiose istituzioni del continente, oppure ancora teenager e cinquantenni, convertiti, senza alcuna conoscenza dell’islam, e musulmani con diplomi in teologia islamica, donne e uomini.

È proprio successivamente all’11 settembre che le dinamiche italiane non seguono i ritmi di quelle europee. Mentre nel resto del continente assistiamo agli attentati di Madrid ed Amsterdam del 2004 e all’attentato di Londra del 2005 in italia la scena jihadista appare tranquilla. La spiegazione forse più semplice è anche la più convincente: l’azione dell’antiterrorismo è stata molto efficace nell’estirpare i network tradizionali ancora presenti sul territorio. Ma una delle cause più importanti è senza dubbio la demografia, fattore al quale l’Italia dovrà prestare particolare attenzione nei prossimi anni. Bilanciare sicurezza e integrazione rimane una missione difficile ma determinante per il nostro così come per molti altri paesi.

Nel 2007 Giuliano Amato, allora ministro dell’Interno, dichiarò: “Non ho mai sentito, né letto in rapporti segreti di musulmani di seconda generazione sospettati di attività terroristica. Per ora, non è un problema italiano. Ma vi posso dire che temiamo che diverrà un problema in futuro”.

 

Fonti ed approfondimenti:

http://www.ispionline.it/it/EBook/Il_jihadismo_autoctono_in_Italia.pdf

https://amp.theguardian.com/world/2017/jun/23/why-has-italy-been-spared-mass-terror-attacks-in-recent-years

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