La cooperazione internazionale in Congo: luci e ombre di un sistema

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Julien Harneis, via Wikimedia Commons, Licenza CC-BY-SA 2.0

di Luca Perrone

Ogni anno le Nazioni Unite, nell’ambito del programma UN per lo sviluppo, stila una speciale classifica dove quasi tutti i paesi del mondo sono analizzati secondo vari fattori al fine di stabilire, con un metodo quanto più possibilmente scientifico, la qualità della vita all’interno di ogni singolo stato. L’indice per lo sviluppo umano (ISU o HDI) tiene quindi conto di fattori quali istruzione, aspettativa di vita e reddito pro capite. In questa classifica, le prime posizioni sono occupate da paesi con un indice molto alto come Norvegia (0,949), Svizzera e Australia (0,939), Germania (0,935) e così via a scendere progressivamente: l’Italia, nel 2016, occupava la ventiseiesima posizione, precedendo di poco altri paesi europei quali Spagna, Portogallo e Grecia. L’ISU Italiano è pari a 0,887, non male se paragonato al valore di paesi quali Niger, Ciad, Repubblicana Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo: questi paesi, che si trovano tutti nel continente africano, occupano stabilmente le ultime posizioni della classifica

La Repubblica Democratica di Kinshasa occupa attualmente la posizione 174 su 186, con un trend assai negativo che, negli ultimi due-tre anni, ha fatto precipitare il Paese agli ultimi posti della classifica. Oltre alla oramai più che decennale guerra civile nello stato del Kivu, il Paese è flagellato dallo sfruttamento economico intensivo, dalla malnutrizione, dall’estrema povertà e per ultimo da una nuova epidemia di Ebola. Il 19 maggio, il Ministero della salute congolese ha confermato la scoperta di ben tre nuovi casi di contagio a Mbandaka, nel nord-est del Paese: dal 1976, quando per la prima volta venne diagnosticata l’Ebola in territorio congolese, sono state ben 9 le epidemie, praticamente una ogni nemmeno cinque anni. I nuovi casi accertati del 2018 sono, ad oggi, meno di una cinquantina, ma si contano già numerose vittime in un Paese che a stento permette a tutti i suoi cittadini di cibarsi ogni giorno con regolarità.

La Repubblica Democratica del Congo è, senza grandi sorprese, uno degli stati al mondo più soggetto e dipendente dagli aiuti internazionali: aiuti, che purtroppo, a causa di molteplici fattori, spesso non sono sufficienti. Per gestire al meglio questa immensa mole di denaro, Kinshasa avrebbe bisogno, a detta di molti osservatori internazionali, di una vera e propria rivoluzione a livello dirigenziale e politico, di un rinnovamento della classe politica troppo spesso impreparata o, ancora peggio, complice degli stessi problemi del Paese. Il risultato, inevitabilmente, è che “grandi popolazioni vengono lasciate non assistite o assistite troppo tardi con pacchetti di aiuti incompleti, mentre il governo trascura la sua responsabilità di proteggere e aiutarli a ricostruire le loro vite”.

Come ammette però La Sida, l’agenzia governativa  svedese che su incarico della corona e del parlamento di Stoccolma ha come mission la riduzione della povertà nel mondo, non basta inviare rinomati esperti per combattere emergenze croniche che, sommandosi tra di loro, e congiuntamente ai vari problemi che il Paese ha, rendono la situazione assai critica, con un parametro di insicurezza stimato al pari di quella di Siria e Iraq. Per la Repubblica Democratica del Congo sarebbero necessari interventi strutturali di ampio respiro, i quali siano adatti per ed efficaci a combattere i problemi non nella loro manifestazione, ma nelle loro cause più profonde.

A livello planetario, secondo i dati forniti dalla Sida, i principali donatori internazionali attivi in Congo sono Stati Uniti, attraverso la Usaid, l’agenzia governativa per lo sviluppo internazionale, Giappone, Svezia, Gran Bretagna, Canada e Belgio: ognuno di questi paesi contribuisce come meglio può in un clima di generale sconforto, dovuto ai pochi risultati ottenuti e al moltiplicarsi delle crisi da fronteggiare. Nel 2017, mentre Usaid forniva aiuti per una cifra che si aggira intorno ai 160 milioni di dollari, alcuni paesi, come L’Olanda, hanno sospeso i loro finanziamenti, volendo ancorare la questione migratoria che imperversa in Europa alla questione dei fondi versati da molti paesi europei (e non solo) per progetti di sviluppo internazionale i quali spesso falliscono senza produrre nessun benefit.

Tra il 2003 e il 2011, infatti, il Paese africano ha ricevuto un ammontare di aiuti pari  a 1.868 milioni di euro, di cui il 72% destinato a fondi per la cooperazione allo sviluppo, il 23,5% aiuti umanitari e la restante percentuale destinate alle politiche di sicurezza. Tra il 1996 e il 2011, l’Unione Europea finanziò la presenza in loco di un special envoy (EUSR): l’ufficio, prima presieduto dall’italiano Ajello e poi dall’olandese Van de Geer, è stato particolarmente attivo nei numerosi negoziati di pace che hanno coinvolto la regione dopo il crollo dello Zaire e la successiva guerra civile in Ruanda, permettendo di fatto l’avvento della missione ONU di peace keeping Monusco attiva nel Paese dal 2010.

 

Proprio la missione Monusco è stata funestata, ad inizio 2018, da un terribile attacco dei miliziani ribelli nelle regioni orientali del Paese dove sono morti 14 caschi blu. Nonostante questo gravissimo episodio, la missione dell’ONU continua ad operare nel Paese, dove ha lanciato, dietro finanziamento di 175.000 dollari, un progetto rivolto all’istruzione e alla formazione lavorativa di circa 490 donne vittime di abusi sessuali nelle regioni del Nord Kivu e zone limitrofe.

Per combattere la criminalità organizzata giovanile, a Oicha, Monusco ha presentato un progetto per dotare i quartieri più pericolosi della città di un sistema di illuminazione notturna alimentata da energia solare: il costo complessivo si aggira sui 50.000 dollari.

La missione dell’Onu, prima ancora che riportare la pace in questo Paese, è chiamata essenzialmente ad una funzione di supplenza del governo centrale, che di fatto ha “appaltato” ai caschi blu la gestione totale della sicurezza e il governo delle regioni più a rischio del Paese.

Il contributo italiano

Anche l’Italia contribuisce attivamente alle politiche di cooperazione internazionale in RDC: tra il 2011 e il 2013 i fondi italiani, che contribuiscono per poco più del 12% dell’ammontare complessivo del FES (fondo europeo di sviluppo) 2008-2013, sono stati impiegati per il potenziamento della zona Sanitaria di Matadi, obiettivo ritenuto fondamentale dallo stesso governo congolese, per la costruzione di un centro a Kinshasa rivolto a fornire assistenza ai malati d’Aids e finanziatore esso stesso della ricerca in campo medico; sul campo della sicurezza alimentare, invece, è stato messo in atto nel 2011 un programma per la distribuzione di riso e concentrato di pomodoro alle famiglie più povere di Kinshasa, per una spesa di circa 400 000 Euro e “di significativa importanza è stata anche l’attività delle numerosissime ONG italiane operanti in RDC. La maggior parte dei progetti co-finanziati dal MAE, approvati negli anni scorsi, risulta in fase avanzata di realizzazione e riguarda settori prioritari quali lo sviluppo rurale, la sanità, la prevenzione delle epidemie, la formazione professionale e la protezione dell’infanzia abbandonata. Da rilevare inoltre l’estensione territoriale dei progetti che toccano praticamente quasi tutte le province del Paese”

La cooperazione italiana in Congo, però, è oggetto anche di feroci critiche. Innanzitutto, è possibile rilevare come molti paesi europei, eccezion fatta per Svezia, Lussemburgo, Danimarca e Olanda, abbiano drasticamente ridotto la propria percentuale di pil destinata agli APS (aiuti pubblici allo sviluppo).

Secondo una direttiva dell’ONU, ogni paese ad alto ISU dovrebbe versare lo 0,7% del proprio pil al fondo che gestisce appunto gli APS: Germania e Francia, insieme a Malta, Belgio, Irlanda e Finlandia si attestano su un 0,5% che molto si avvicina alle indicazioni internazionali, mentre altri paesi come Italia, Romania, Bulgaria, Cipro e Polonia viaggiano sulla media dello 0,15-0,2% circa. Tra il 2014 e il 2015, venne varata addirittura la riforma del sistema della cooperazione internazionale con la creazione di una Agenzia ad hoc che gestisse in autonomia i fondi destinati agli APS, che nelle stime del Governo Renzi avrebbero raggiunto lo 0,25% del pil.

La riforma, ben accolta inizialmente dalle ONG, è stata poi oggetto di ripensamento non tanto per la presenza dei privati, non legati quindi al mondo no profit, ma piuttosto per lo statuto che, a loro parere, non permetterebbe una leale compartecipazione tra profit e no profit, svantaggiato il secondo a favore del primo settore. Solo il tempo sancirà la bontà o meno di questa operazione.

Operare in Congo non è assolutamente facile, eppure il paese africano può vantare una nutrita schiera di onlus e altre organizzazioni, sia nazionali che internazionali, che investono massicciamente per portare speranza. Uno dei progetti più interessanti è quello della piccola ma super attiva onlus Schola Mundi di Roma. La onlus collabora attivamente con altre istituzioni congolesi in aree particolarmente svantaggiate e attanagliate dalla lunga guerra civile che insanguina il Paese.

 

A Milihu, nella periferia di Mweso, dal 2013, Schola Mundi e la Cadep Ong gestiscono il progetto “Gli Orti di Mweso”: 87 donne vulnerabili, tra cui molte vedove, ragazze madri, senza famiglia o profughe a causa della guerra, ricevono un’adeguata istruzione agraria e sono invitate a partecipare attivamente alla produzione di vari ortaggi. L’attività di formazione ha permesso loro di apprendere nuove tecniche che hanno che hanno portato ad un sensibile aumento della produzione di cibo del villaggio. Grazie alle eccedenze rivendute al mercato, il progetto si sta avviando verso un completo autofinanziamento.

Sempre a Mweso, la onlus Schola Mundi e la Cadep Ong hanno aiutato finanziariamente l’istituto tecnico agricolo della città: grazie alla collaborazione internazionale, sono arrivati i fondi necessari per la costruzione di una fattoria didattica. Fino ad allora l’istituto poteva permettersi al massimo qualche disegno degli animali che i ragazzi dovevano poi studiare.

Piccole azioni, queste, che permettono al Kinshasa team di guardare con rinnovata speranza a un futuro migliore, realizzabile anche grazie alla cooperazione internazionale tra i popoli.

Fonti e bibliografia

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