Nella storia dell’America Latina, gli anni 80 sono ricordati come la decade che segnò la fine di gran parte dei regimi totalitari. Per il Cile, la svolta è rappresentata dal referendum del 5 ottobre 1988, il quale marcò il punto di rottura nel sistema di potere instaurato nel 1973 dal Generale Augusto Pinochet. La vittoria del No innescò in maniera non violenta la transizione democratica: fu accolta dai cittadini come una festa e come il primo passo verso un nuovo modello di società. Trent’anni dopo, vale la pena di ricordare il coraggio con cui il popolo cileno si espresse per la libertà, ma allo stesso tempo di riflettere sulle contraddizioni che ancora oggi gettano ombre sulla democrazia.
Era il 1988 e mentre si espandeva per tutto il continente l’ondata di rivendicazione della sovranità popolare, anche in Cile la dittatura dava segni di logoramento e di instabilità. Pinochet si manteneva al potere, ma già da tempo non riusciva più a passare sotto silenzio la brutalità con la quale il suo governo reprimeva le opposizioni. Inoltre, la visione di sviluppo e liberalizzazione promossa dal suo regime stava perdendo credibilità sotto i colpi della crisi economica.
Tutto ciò venne a coincidere con la convocazione del plebiscito che era stato deciso già nel 1980, quando grazie a una maggioranza controversa fu approvata la Costituzione redatta dai sostenitori di Pinochet.
Gli articoli 27 e 29 stabilivano che, al termine di otto anni di “mandato” del Generale, la Junta Militar avrebbe dovuto proporre un candidato per la carica di Presidente della Repubblica, da sottoporre alla ratificazione del giudizio popolare. Il 30 agosto ‘88, i Comandanti delle Forze Armate e dei Carabinieri confermarono la nomina di Pinochet. Di conseguenza, il referendum era praticamente uno strumento in mano alla dittatura per legittimare l’accentramento di potere e, in caso di vittoria del Sì, assicurarsi altri otto anni di controllo sul paese. Se il No si fosse imposto, invece, si sarebbe prorogato l’incarico di un anno per poi convocare elezioni generali e votare legalmente per il Presidente e il Parlamento.
Nonostante le criticità del momento storico, Pinochet era fiducioso: non aveva dubbi che i cileni, spaventati dallo spettro della miseria e dell’anarchia, non si sarebbero pronunciati per l’alternativa.
«Raquel, mi deve scusare, parlo per 15 anni di silenzio!»
Così Ricardo Lagos, il Presidente del Partito per la Democrazia (PPD, formatosi poco prima del referendum per iniziativa degli ex-socialisti), si rivolse alla giornalista Raquel Correa durante il programma televisivo “De Cara al País”. Il discorso di Lagos fece scalpore perché, approfittando di uno dei pochi spazi di dibattito che l’epoca concedeva alla sinistra, puntava (letteralmente) il dito contro il General. Guardando fissamente in camera, proseguì:
“Le vorrei ricordare che fu lei il giorno del plebiscito del 1980 a dire che Pinochet non sarebbe stato il candidato a Presidente, nel 1989. E ora promette al paese altri otto anni di torture, omicidi e violazioni dei diritti umani. Mi pare inammissibile”.
Prima di Lagos, nessuno aveva osato tanto in una dichiarazione pubblica; anche se anni di repressione avevano ridotto il paese a una condizione veramente insostenibile. L’11 settembre 1973 Pinochet e la Junta Militar avevano assunto il potere con un colpo di stato, assediando e bombardando la Moneda (il palazzo del governo). Il Presidente democraticamente eletto, Salvador Allende, si era rifiutato di dare le proprie dimissioni. Con la sua morte svaniva l’utopia marxista e iniziava un’epoca di dittatura sanguinaria e violazioni dei diritti umani, perpetrate sistematicamente dal governo stesso. Furono creati organismi finalizzati alla persecuzione e al sequestro dei dissidenti, tra cui la Polizia Segreta (DINA, Dirección de Inteligencia Nacional) e la CNI (Central Nacional de Informaciones). Numerosi centri di tortura sorsero in tutto il paese. Il report della Commissione di Verità e Riconciliazione (Informe Rettig) stima che 3500 persone morirono a causa della dittatura, alle quali si aggiunge un numero imprecisato di esiliati e desaparecidos.
Per tutte queste ragioni, il clima di terrore rischiava di essere il fattore determinante perché il 5 ottobre vincesse il Sì. Sebbene l’opposizione fosse riuscita a riorganizzarsi in un’unica coalizione, firmando nel 1985 l’Accordo Nazionale per la Transizione alla piena Democrazia, molte altre sfide rimanevano aperte.
Prima di tutto, era necessario risvegliare la coscienza politica dei cittadini e convincerli a riscriversi ai registri elettorali, dopo che questi erano rimasti chiusi per 15 anni. Per quanto riguarda i due blocchi politici, il candidato ufficiale era appoggiato, tra gli altri, da Unión Democrática Independiente, da Renovación Nacional e dai liberal-democratici. A dare impulso al No, invece, furono in tutto 17 partiti, tra cui la Democrazia e la Sinistra Cristiana, i contadini di MAPU, i socialdemocratici e socialisti di vario tipo, molti dei quali furono obbligati a moderare le loro posizioni pur di salvaguardare l’unità della Concertación.
Dopo di che, bisognava pensare a una campagna referendaria vincente, anche se sembrava inverosimile che Pinochet accettasse tale risultato.
La chiave del successo furono i 15 minuti di propaganda televisiva, concessi a ciascuna delle due opzioni, durante il mese anteriore al voto. I pubblicitari incaricati dello spot dell’opposizione decisero di accantonare il tono drammatico e i riferimenti alle violenze della dittatura. A costo di apparire irriverenti preferirono adattarsi alle “regole del mercato” e, con la campagna del No, trasmettere un messaggio gioioso e leggero. Per contro, la retorica obsoleta determinò il fiasco della propaganda per il Sì; eppure, il regime poteva disporre di molti più fondi e aveva il controllo di tutte le altre fasce orarie del palinsesto. La storia della campagna, però, va molto al di là del logo colorato e dei jingle accattivanti: per raccontarla, il regista Pablo Larraín ha girato il film “NO, i giorni dell’arcobaleno” (2012), includendo anche alcuni filmati originali del Cile di allora.
Il 5 ottobre, i cittadini a recarsi al voto furono più di 7 milioni, un eccezionale 97% degli aventi diritto. Appena chiusi i seggi, si diffusero indiscrezioni che davano il Sì in vantaggio e fecero temere per una manomissione del risultato. La prospettiva però si ribaltò durante la serata, come fu costretto a riconoscere il Capo delle Forze Aeree Fernando Matthei (fu il primo tra gli esponenti del governo). Alle due di notte, l’annuncio ufficiale: il No aveva prevalso, 54.71% contro 43.01%. Mentre la folla si riversava in strada, Pinochet rilasciò un comunicato televisivo, annunciando che, sulla base della sua sconfitta, si sarebbe proceduto secondo le linee guida della Costituzione. Le elezioni dell’anno successivo premiarono il candidato democristiano Patricio Aylwin e segnarono per il Cile l’inizio della fase democratica.
Al giorno d’oggi, si può considerare terminata la transizione o ci troviamo ancora di fronte a una “democrazia incompleta”? Il dibattito è aperto tra gli storici. La reputazione (soprattutto internazionale) del caso cileno è quella di un processo di transizione esemplare: paragonandolo con altri stati della regione, si considera che il Cile abbia coltivato a partire dall’ ‘88 una sana e democratica vita politica. Ma se si osservano più da vicino la dimensione costituzionale ed elettorale e i diritti dei cittadini, è evidente che, per certi aspetti, l’autoritarismo non appartiene solo al passato.
In primo luogo, la Costituzione dovrebbe essere il fulcro della sovranità popolare. Non si spiega, quindi, come il Cile democratico abbia ereditato, seppure con alcune riforme, il testo costituzionale del 1980, stilato proprio dalla dittatura. Non si tratta solo di una questione di legittimità: a uscirne indebolito è anche il sistema elettorale. Le minoranze politiche si devono scontrare con le restrizioni normative e il potere di veto della maggioranza, che le permette di imporsi ogni volta che viene messo in discussione il disegno istituzionale del paese. Per di più, fino allo scorso anno, vigeva il sistema binomiale che se da un lato favoriva la stabilità, dall’altro ostacolava l’emergere di coalizioni terze.
Oltre a ciò, la libertà di espressione e il diritto all’informazione risentono del grave sbilanciamento verso destra della stampa e della concentrazione del potere mediatico nelle mani degli impresari.
A livello socio-economico, le disuguaglianze sono particolarmente critiche per quanto riguarda la tutela dei lavoratori, la sanità e l’educazione. Le conseguenze si riflettono, amplificate, sulla popolazione e si vanno a sommare alle carenze che riguardano la parità dei sessi, i diritti delle minoranze LGBT e dei popoli indigeni.
È vero che, dal 1988, grazie alla consapevolezza civica si sono compiuti e si continuano a compiere grandi passi avanti. Nella mentalità dei giovani, specialmente, è ben chiaro il valore dell’individuo come figura politica. Il trentennale del referendum rappresenta una grande occasione di bilancio e messa in discussione: il Cile guarda al futuro, ma non ha smesso di fare i conti con il passato.
Fonti e approfondimenti:
https://www.diagonalperiodico.net/saberes/31772-plebiscito-cambio-la-historia-chile.html
http://news.bbc.co.uk/hi/spanish/latin_america/newsid_7646000/7646154.stm
GARRETÓN, R. (2010). La democracia incompleta en Chile: La realidad tras los rankings internacionales. Revista de ciencia política (Santiago), 30(1), 115-148.