Islam contro Islamismo: capire il jihadismo in Africa

Islam In Africa
Credits: Armando D'Amaro Canva

di Stefano Avalle

Prima che l’Islam si diffondesse a macchia d’olio nell’Africa sub-sahariana, le professioni religiose locali avevano carattere animista o politeista. Ad oggi, circa 288 milioni di musulmani vivono in Africa sub-sahariana, su un totale di quasi mezzo miliardo di persone presenti nell’intero continente.

L’Africa porterà sempre le cicatrici indelebili delle sanguinosissime guerre civili scoppiate nell’ultimo ventennio, ma anche l’estremismo religioso è un fenomeno che da 15 anni rappresenta una spina nel fianco per la sicurezza e la pace interna dei Paesi africani. Secondo i dati del Global Terrorism Index, in questo arco di tempo, sono più di 40.000 le persone che hanno perso la vita in Africa sub-sahariana a causa di più di 9.000 attacchi terroristici da parte di gruppi di estremisti religiosi. 

Prima di analizzare al microscopio alcuni dei gruppi terroristici di nostro interesse – Ansar Dine (Mali), Boko Haram (Nigeria) e Al-Shabab (Somalia) – occorre far luce sull’origine del jihadismo in Africa, per poterne comprendere il contesto e l’impatto.

Una distinzione preliminare tra Islam africano e Islamismo  

La chiave di lettura per comprendere come tale fenomeno si sia inizialmente sviluppato nel continente africano è rappresentata dalla distinzione tra Islam d’Africa e Islamismo.

Secondo Eva Rosander – ricercatrice in Antropologia Sociale al Nordic Africa Institute in Svezia – per “Islam africano” si intende un Islam più moderato, paragonato ai rigidi dogmi osservati nella penisola arabica, e più spirituale, poiché asseconda la ritualità delle tradizioni africane. L’Islam africano risulterebbe legato agli aspetti spirituali e mistici del sufismo (tasawwuf): le preghiere accompagnate dal canto e dalla danza tipica (hadra), e le visite ai santi e alle tombe sono alcuni degli elementi che hanno permesso il mescolarsi del sufismo con le antiche pratiche religiose africane, riuscendo ad attrarre sempre più fedeli nel corso del tempo.

Per “Islamismo” si intende l’ideologia totalitaria sviluppatasi all’inizio del XX secolo, che si serve della tradizione religiosa islamica per l’acquisizione del potere politico. Le parole di Sayyid Qutb – leader dei Fratelli Musulmani in Egitto tra gli anni ’50 e ’60 – potrebbero darci un’idea della società islamista: “L’Islam conosce soltanto due tipi di società, islamica e Jahili (da Jāhilīyah, letteralmente “ignoranza”, un’accezione negativa per descrivere il modus vivendi delle società pre-islamiche). La prima società segue l’Islam nel credo, nel culto, nella legge, nell’organizzazione, negli usi e costumi; la società Jahili è l’opposto della prima, poiché non riconosce i valori, le credenze e le leggi islamiche”. 

Da un lato, abbiamo l’Islam sufi, intriso di esoterismo, che professa l’amore per dio (invece della paura), e capace di coesistere con i costumi popolari pre-islamici; dall’altro, l’Islamismo punta a una rigida osservazione degli aspetti giuridici e legali dell’ortodossia musulmana. Ciò rappresenta una minaccia per l’Islam sufi, poiché ricreare una società islamica basata sulla Shari’a comporterebbe la soppressione di ogni altra forma di fede, compresa quella sufi. Ed ecco che la retorica e la persuasione divengono, inevitabilmente, gli strumenti più efficaci per diffondere l’Islamismo in Paesi vessati da ingiustizie sociali, regimi militari ed estrema povertà.

Perché l’Islamismo riesce a diffondersi?

La prima ragione è la debolezza degli Stati, cioè  una legittimità sempre più risicata dei governi centrali come conseguenza dei loro tentativi fallimentari di garantire sicurezza e servizi sociali alla popolazione. Spesso, dove non arriva lo Stato si annidano piccole entità che assumono le funzioni statali. Di quali soggetti parliamo? Di gruppi etnici, tribù, clan, movimenti armati, reti di trafficanti e gruppi jihadisti. Ad esempio, Al-Shabab, Boko Haram e i gruppi affiliati ad Al-Qaeda del Mali sono interessati a prendere il controllo delle zone di frontiera per stabilire delle strutture para-statali.

La seconda ragione ha a che fare con la società: per attirare sempre più giovani, le organizzazioni jihadiste fanno leva sul malcontento delle popolazioni locali – causato dall’alto tasso di disuguaglianza sociale. Oltre alla mancanza di mobilità sociale, bisogna considerare anche l’educazione religiosa, poiché diffondere un’educazione di base islamista predispone la popolazione all’apertura verso i militanti jihadisti. La Somalia è un esempio lampante, dato che il collasso del sistema educativo statale è stato seguito dal proliferare di scuole private finanziate dall’Arabia Saudita, in cui gli studi religiosi si basano principalmente sulla retorica wahhabita. 

Inoltre, nei Paesi della regione del Sahel, chi vive in zone rurali più marginali tende a essere maggiormente esposto alla fitta e consolidata rete della criminalità organizzata, presente già da prima dell’ideologia islamista. Sebbene i gruppi jihadisti – come Al-Qaeda nel Maghreb (AQIM) – abbiano un ruolo subordinato nelle tratte create per il traffico di esseri umani e di sostanze stupefacenti, ne hanno sfruttato il potenziale per prosperare indisturbati, far circolare armi e aumentare il numero delle  proprie reclute. 

Se nel Sahel i potenziali militanti si avvicinano ai gruppi islamisti come reazione alla propria marginalizzazione sociale, in Africa orientale e in Somalia i clan – coinvolti nei conflitti e nella corruzione – hanno perso legittimazione, favorendo un avvicinamento  dei giovani all’ideologia islamista e al reclutamento da parte di Al-Shabab. 

L’impatto eterogeneo dell’ideologia  

È impossibile parlare di un comune e uguale impatto dell’ideologia islamista in Africa. Non è detto, infatti, che tutti i Paesi con una forte tradizione islamica siano propensi alla violenza dell’Islamismo. Un esempio: il Senegal – dove circa il 90% della popolazione è musulmana – ha vissuto dei conflitti religiosi relativamente lievi, se paragonato alla Nigeria, dove i musulmani sono circa il 50% e sono stati spesso coinvolti in episodi di violenza sia interni alla comunità musulmana stessa che contro quella cristiana. 

Fattori come la disparità economica e la diffusa instabilità politica (a causa di elezioni condotte in modo non democratico, o di frequenti colpi di Stato) hanno fornito le basi per lo scoppio di diversi conflitti nel continente africano, e il conseguente indebolimento (o fallimento) degli Stati. Per tale ragione, ci sono Paesi che sono più inclini al conflitto armato rispetto ad altri. Chad e Sudan sono tutt’oggi testimoni di una guerra fratricida che dura da più di quarant’anni; l’Angola ha vissuto trent’anni di guerra civile; fino ad ora, in 16 Stati dell’Africa occidentale si sono contati 82 conflitti politici, di cui 44 colpi militari.

Gli islamisti trovano terreno fertile sfruttando il deterioramento delle condizioni politiche ed economiche degli Stati africani. Il proporsi come un’entità superiore alla corruzione dei governi centrali e l’accesso ai fondi provenienti dal Golfo hanno permesso loro di ottenere l’appoggio delle comunità più disperate dell’Africa.

Inoltre, è utile ricordare che si contano più di 3.315 gruppi etnici diversi nell’intero continente africano. Gli islamisti hanno saputo sfruttare le rivalità tra clan, etnie e gruppi religiosi – spesso risalenti ai tempi del colonialismo europeo. È questo il fulcro dello scontro tra sufi e islamisti, poiché gli ordini sufi – come nei casi di Nigeria e Senegal – hanno sempre mantenuto una certa prossimità ai governi in carica. 

A mutare l’impatto dell’Islamismo nella regione sub-sahariana è stato anche l’intervento francese del 2013 come operazione anti-terrorismo tra Mali, Burkina Faso e Niger. Il risultato immediato è stato un indebolimento dei gruppi jihadisti e il loro allontanamento dai centri cittadini. Ciò ha comportato l’occupazione jihadista delle zone rurali, dove l’ideologia islamista ha rappresentato una forma di mobilizzazione di massa per le etnie più marginali, come i Rimaibé in Burkina Faso, gli Hausa-Fulani in Nigeria e i Tuareg in Mali.

In casi come il Mali centrale e il Niger occidentale, i jihadisti offrono protezione contro i banditi, giustizia contro gli abusi dei governi centrali, addestramento e armamenti per affrontare le dispute territoriali tra etnie locali. Nel Nord del Burkina Faso, invece, l’occupazione jihadista delle aree rurali tramite intimidazioni e violenze ha avuto l’effetto di suscitare lo scontro tra locali e jihadisti, piuttosto che una cooperazione di base. 

Come abbiamo visto, l’impatto dell’ideologia islamista in Africa è eterogeneo e dipende dal contesto dello Stato su cui ci si focalizza. Per limitare il reclutamento jihadista nelle comunità marginali delle zone rurali, gli Stati africani avrebbero bisogno di una fornitura adeguata di servizi e di una gestione più pacifica dei conflitti locali, anche con un aiuto mirato – ma senza interventi militari forzati – da parte della comunità internazionale. 

Fonti e approfondimenti

https://www.worldatlas.com/articles/countries-with-the-largest-muslim-populations.html 

Institute for Economics & Peace, Global Terrorism Index: Measuring the impact of terrorism, Sydney, Nov. 2018

Eva E. Rosander, Introduction: The Islamization of “Tradition” and “Modernity”, in David Westerlund & Eva E. Rosander (eds.), African Islam and Islam in Africa: Encounters between Sufis and Islamists. London: Hurst, 1997

Hussein Solomon, Terrorism and Counter-Terrorism in Africa: Fighting Insurgency from Al Shabaab, Ansar Dine and Boko Haram, Palgrave Macmillan

Guido Steinberg, Annette Weber, Jihadism in Africa: Local Causes, Regional Expansion, International Alliances, German Institute for International and Security Affairs, Berlin, giugno 2015

Cherbib Hamza, Jihadism in the Sahel: Exploiting Local Disorders, Center for Civilians in Conflict, Washington DC, 2018

 

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