Ricorda 1962: la guerra tra Cina e India

Riccardo Barelli - Remix Lo Spiegone - Wikimedia (unknown author)

Il 20 ottobre 1962 la Cina attaccò l’India lungo il confine che i due Paesi condividono nei pressi della regione Aksai Chin, all’interno del Kashmir. Fu il primo scontro aperto tra i due giganti asiatici, ma non l’ultimo: le sue origini risalgono al periodo coloniale e riguardano dispute territoriali ancora oggi irrisolte, che puntualmente riaffiorano e rischiano di sfociare in episodi violenti come di recente nel 2020.

Confini mutevoli

L’Aksai Chin  è un’area tra lo Xinjiang e il Tibet, attualmente amministrata dalla Cina ma rivendicata dall’India come parte della regione del Ladakh, all’interno del Kashmir. Il primo confine tra Cina e Kashmir fu tracciato dai britannici nel 1865, lungo la cosiddetta “Linea Johnson”, che considera la regione territorio indiano. La decisione venne presa all’insaputa della Cina, che a fine Ottocento iniziò a manifestare il proprio disaccordo. Trattandosi di una zona scarsamente popolata, difficilmente accessibile e lontana dal fulcro del potere coloniale britannico, la Cina ne ottenne facilmente la cessione: un secondo confine fu dunque tracciato nel 1899, sempre dagli inglesi, e prese il nome  di “Linea Macartney-MacDonald”.

Tuttavia, poiché la Cina non confermò mai ufficialmente l’adozione di quest’ultima frontiera, la situazione rimase incerta fino al 1947, anno in cui l’India ottenne l’Indipendenza dalla Gran Bretagna e decise di adottare la Linea Johnson e considerare l’Aksai Chin parte del proprio territorio. Le relazioni tra la neo-indipendente nazione e la Cina non iniziarono, quindi, nel migliore dei modi: quest’ultima non ha mai riconosciuto il confine imposto unilateralmente dall’India, al punto da arrivare nel 1962 a cercare di riprendersi con la forza territori che considerava suoi di diritto.

Guerra ad alta quota

Nel frattempo la situazione si era ulteriormente complicata, con la nascita del Pakistan nel 1947 e l’inizio di un’altra controversia territoriale mai risolta: quella per il controllo del Kashmir, fulcro delle maggiori tensioni nelle relazioni indo-pakistane, che comprende l’area dell’Aksai Chin rivendicata dalla Cina. Quando negli anni Cinquanta la Cina intraprese la costruzione di una strada per collegare  lo Xinjiang occidentale e il Tibet che avrebbe attraversato i territori contesi, non informò l’India ma si rivolse al Pakistan, mostrando di riconoscerli come parte del Kashmir pakistano. Come previsto dalla Cina, il Pakistan si mostrò più disponibile a negoziare, e alla fine acconsentì al ripristino della Linea Macartney-MacDonald – e alla cessione dunque di tali territori alla Cina. L’India scoprì che la nuova strada attraversava territori considerati sotto il proprio controllo solo a cose fatte, trovandosi all’improvviso sotto attacco.

Si trattò di una guerra breve ma dura, che costò la vita a migliaia di persone – le stime ufficiali dei due Paesi variano tra le 2.000 e le 5.000 vittime. Un numero imprecisato di persone non morì direttamente a causa degli scontri ma per le condizioni estreme del campo di battaglia: cinquemila metri di altitudine, gelo e inaccessibilità di queste zone himalayane determinarono  la maggior parte delle perdite per entrambi gli eserciti, in una guerra che durò appena un mese. Il 21 novembre la Cina dichiarò una tregua unilaterale, annettendo l’Aksai Chin fino alla cosiddetta “Line of Actual Control” (Linea di controllo effettivo), che ancor oggi costituisce la frontiera tra i due Paesi. In cambio, Pechino si dichiarò disposta a cedere un altro territorio da tempo conteso – l’Arunachal Pradesh, stato indiano che la Cina aveva sempre considerato parte del Tibet, non riconoscendo mai la cosiddetta “Linea McMahon” tracciata dagli inglesi nel 1914 e che aveva di fatto rappresentato il confine sino-indiano in questa regione dell’Himalaya orientale. 

Una svolta nelle relazioni internazionali

La celerità con cui si risolse il conflitto ne evitò l’escalation che avrebbe determinato l’intervento di Stati Uniti e Unione Sovietica, in quel momento impegnate con la crisi dei missili a Cuba ma che avrebbero di lì a poco fatto sentire la propria presenza. Al tempo stesso, il conflitto rappresentò un cambiamento nelle relazioni tra i due Paesi coinvolti e le due superpotenze. Il governo indiano aveva richiesto un supporto militare agli Stati Uniti che, impegnati con una crisi alle porte di casa loro, rifiutarono. L’Unione Sovietica, invece, si mostrò molto più disponibile, come del resto aveva già iniziato a fare dalla rottura dei rapporti sino-sovietici. Il conflitto del 1962 fu l’occasione per sancire l’inizio di un’era di relazioni prospere tra i due Paesi, con un incremento netto del supporto militare all’India tradottosi in invio di armi sofisticate e assistenza tecnica. Due anni dopo, l’India diventò uno tra i principali acquirenti di armi russe, e fino alla fine della Guerra fredda rimase stretto alleato dei sovietici. 

Le relazioni sino-indiane peggiorarono nonostante la fine degli scontri, ma le conseguenze del conflitto si riversarono anche internamente. Il partito comunista indiano fu accusato di appoggiare la Repubblica Popolare Cinese, e per questo motivo diversi suoi membri finirono in carcere. Di conseguenza, nel 1964 il partito si divise in due e nacque il Partito comunista marxista (attualmente il maggiore partito comunista indiano a livello nazionale). Parallelamente si rafforzavano invece le relazioni sino-pakistane, fattore che non ha aiutato a migliorare i rapporti data la rivalità tra India e Pakistan, sfociata più volte in scontro aperto come nel 1965 – per questioni legate ancora una volta ai territori kashmiri – o nel 1971 – con la secessione del Pakistan orientale e la nascita del Bangladesh. Cina e India hanno continuato nel corso degli anni Settanta ad accusarsi reciprocamente di supportare gruppi ribelli nei rispettivi territori, alimentando un clima di diffidenza e tensioni.

L’eredità lasciata dal conflitto

Ufficialmente, le relazioni diplomatiche tra i due Paesi sono riprese nel 1979, in seguito a una visita del ministro degli Esteri indiano a Pechino. L’eredità del conflitto del 1962 torna però a farsi sentire puntualmente, e ancora  oggi continua a costituire uno dei principali ostacoli a una piena distensione dei rapporti tra i due giganti asiatici. Nonostante la firma nel 1993 di un accordo tramite cui entrambe le parti dichiaravano ufficialmente di accettare la “Line of Actual Control” e di impegnarsi per garantire pace e sicurezza lungo il confine, disordini e tensioni non hanno mai smesso di interessare la regione. Nell’estate del 2020 si è temuto il peggio, in seguito a un’escalation di violenze che ha portato centinaia di soldati ad affrontarsi di notte tra le montagne della valle di Galwan, zona dell’Aksai Chin sotto controllo cinese. Negli scontri hanno perso la vita 20 soldati indiani e tra i 20 e i 35 soldati sul versante cinese.

Le conseguenze di questi scontri sono ricadute inevitabilmente anche sui rapporti commerciali tra i due Paesi, che invece proprio negli ultimi decenni avevano visto incrementare gli scambi. Considerato il ruolo che entrambi rivestono nella regione e la grandezza delle rispettive economie, il perpetuarsi di un simile clima di tensione potrebbe avere ricadute anche su altri Paesi. I rispettivi leader riconoscono l’importanza e l’urgenza di trovare una soluzione alle diverse controversie territoriali, tanto da mettere la questione in cima all’agenda dei loro rapporti bilaterali. Gli incontri periodici con questo obiettivo non sono mancati – da ultimo nel 2018 a Wuhan – ma superare una crisi che ha segnato profondamente la storia dei due Paesi non è così semplice.

 

Fonti e approfondimenti

The Economist, “India and Pakistan should stop playing with fire”, 28/02/2019

Sudha Ramachandran, “India and Pakistan on the Brink”, The Diplomat, 28/02/2019

Samuel Ramani, “Can China mediate between Pakistan and India?”, The Diplomat, 09/07/2018

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