La politica estera indiana: il Kashmir

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

La regione del Kashmir rappresenta oggi uno dei nodi cruciali nelle relazioni indo-pakistane. Essa è stata a più riprese teatro di scontri tra i due Paesi sin dalla cosiddetta partition del 1947, termine che indica la nascita di due Stati indipendenti al termine della colonizzazione britannica, la Repubblica dell’India (a maggioranza Hindu) e quella del Pakistan (a maggioranza musulmana). Tale divisione è avvenuta secondo linee religiose, causando massicci flussi migratori di musulmani dall’India al Pakistan e di Hindu in direzione contraria. La regione del Kashmir si è trovata in una situazione particolare: a maggioranza musulmana ma amministrata da un maharaja Hindu, è stata, per decisione di quest’ultimo, annessa all’India anziché al Pakistan. Naturalmente questa decisione ha scatenato la reazione del governo pakistano che, in nome del principio di autodeterminazione dei popoli, ha deciso di invadere la regione pochi giorni dopo la partition, dando avvio a quella che è stata definita la prima guerra indo-pakistana. L’intervento delle Nazioni Unite è riuscito a far cessare il fuoco nel 1949, tracciando una linea di demarcazione tra un’area sotto amministrazione indiana e una sotto il controllo dei pakistani: non si tratta comunque di un confine definitivo e da allora tra i due Paesi ci sono stati numerosi momenti di tensione, che di tanto in tanto nel corso degli anni sono sfociati in scontri aperti. A complicare il quadro, nel 1962 un nuovo attore è intervenuto all’interno della regione: la Cina, riuscendo ad accaparrarsi un’area che ricopre circa il 20% del Kashmir che si trova tuttora sotto il suo controllo.

 

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Le zone di amministrazione indiana, cinese e pakistana in Kashmir – Fonte: Atlas of the world

 

Con l’inizio del XXI secolo, gli scontri sembravano essersi momentaneamente placati (o meglio, proseguivano in forma di conflitto a bassa intensità); negli ultimi anni si è assistito invece a una graduale intensificazione degli scontri e a una sistematica violazione dei diritti umani, da entrambe le parti. La recente notizia di una “vittoria” indiana, apparsa sui maggiori quotidiani del Paese, racconta solo in parte la verità.  La prima domenica di maggio, infatti, truppe del governo indiano hanno catturato e ucciso cinque militanti musulmani nascosti nel Kashmir indiano; uno di questi, Saddam Paddar, era un noto “terrorista” secondo il governo indiano, ricercato da quattro anni per essere il capo di un gruppo militante islamista.

La tattica che sembra essere stata adottata negli ultimi tempi dal governo indiano consiste nel tentare di eliminare quanti più miliziani ribelli possibili, nella convinzione che questo porti inevitabilmente alla scomparsa della militanza in sé. I dati smentiscono però tale ipotesi: le vittime, che includono diversi civili, aumentano di anno in anno (da 117 nel 2012 a 358 nel 2017), così come cresce il numero dei civili che scelgono di affiliarsi a uno dei diversi gruppi militanti islamisti presenti sul territorio per portare avanti la propria causa separatista (circa 140 nel 2015, più di 300 all’inizio del 2017). La strategia del governo indiano dunque non funziona, è anzi controproducente, perché non fa altro che alimentare il sentimento di alienazione dallo Stato indiano che nutre già buona parte della popolazione kashmira. Un sondaggio del Centre for the Study of Developing Societies di New Delhi mostra infatti che l’87% degli abitanti dell’area vorrebbe attuare la secessione dall’India; inoltre, al contrario di quel che il governo indiano vuole far credere, i protagonisti delle insurrezioni nella regione sono prevalentemente originari del luogo, e non solamente pakistani infiltratisi in territorio indiano (senza voler negare la presenza di questi ultimi).

Come ha sostenuto a più riprese il politologo Mohammed Ayoob, se si cercasse di risolvere la questione del Kashmir da un’altra prospettiva, concentrandosi sui problemi interni alla regione, e si lavorasse realmente per trovare soluzioni concrete, forse si otterrebbe maggior successo. Il Kashmir è stato infatti abbandonato a sé stesso, la sua economia non si è sviluppata alla stessa velocità del resto del Paese, e soffre di gravi carenze nei servizi pubblici. Ma la questione è troppo delicata per essere affrontata in questi termini, gli interessi in gioco sono tanti, e resta il fulcro attorno al quale ruotano le relazioni indo-pakistane: se il Pakistan insiste sul diritto all’autodeterminazione, l’India risponde con la retorica del terrorismo pakistano, fenomeno destabilizzante per l’intero Paese e quindi da combattere con ogni mezzo.

Ma chi sono questi terroristi pakistani? Si tratta di una fitta rete di gruppi e sottogruppi, che a volte collaborano tra di loro e a volte si scindono in ulteriori fazioni. La componente più importante, in termini numerici, del jihadismo indigeno kashmiro è costituita da Hizbul-Mujahideen, gruppo terroristico nato nel 1989 e sospettato di legami con i servizi segreti pakistani; negli anni Novanta, uno dei suoi principali membri ha sposato Asiya Andrabi, fondatrice di un’altra importante organizzazione islamista, Dukhtaran-e-Millat. La particolarità di quest’ultima risiede nel fatto che si tratta di un’organizzazione interamente al femminile: Asiya (soprannominata la Iron Lady del Kashmir) si autodefinisce “femminista islamica”, e porta avanti la causa separatista insieme ad altre donne che, come lei, sognano di creare uno Stato indipendente in cui applicare la Sharia, la legge islamica.

Ma oltre al jihadismo “autoctono” della regione, altri gruppi esterni hanno avuto e continuano ad avere una certa influenza. Tra questi vanno ricordati al Badr e Harkat-ul-Mujahideen, con base in Pakistan e probabili legami con Al Qaeda; il primo in particolare è stato molto attivo nell’addestramento di civili pakistani da inviare come combattenti in Kashmir (utilizzando soprattutto la tattica degli attacchi suicidi), tramite la creazione di campi appositi in cui le nuove reclute vengono indottrinate al Jihad in senso estremista.

Infine, un ruolo di primo rilievo è stato ricoperto da Lashkar-e-Taiba, organizzazione nata nel 1987 in Afghanistan, ma che ha stabilito il proprio quartier generale in Pakistan e diversi campi di addestramento nel Kashmir pakistano. Vanta legami stretti con Al Qaeda sin dalle origini, e per questo il suo campo d’azione è più ampio rispetto alle organizzazioni precedentemente nominate: con l’obiettivo di instaurare uno Stato islamico in Asia, Lashkar-e-Taiba si impegna a liberare i musulmani da governi “infedeli”, motivo per cui è stata artefice di diversi attentati in India (tra cui quello del 2008 a Mumbai) e sostiene attivamente i ribelli del Kashmir nella lotta per la secessione.

La situazione rimane dunque estremamente delicata. Se il 16 maggio un cessate il fuoco unilateralmente proclamato dall’India (in segno di rispetto per il mese del Ramadan) aveva alimentato la speranza di una, seppur momentanea, tregua dagli scontri, la violazione di tale impegno da parte delle stesse truppe indiane pochi giorni dopo ha fatto crollare questa speranza. Gli attacchi effettuati dall’esercito indiano, giustificati perché (come è stato sostenuto dal governo) “il cessate il fuoco era inteso nei confronti dei civili desiderosi di seguire i propri rituali religiosi in modo pacifico, e non riguardava i terroristi”, sicuramente non facilitano il tentativo di raggiungere un dialogo fra le parti. E in assenza di un dialogo sarà difficile pensare di risolvere quello che, dall’ONU, è stato definito come “il più antico conflitto internazionale al mondo ancora irrisolto”.

Fonti e Approfondimenti

https://www.economist.com/asia/2018/05/12/indias-victories-against-militants-in-kashmir-are-largely-pyrrhic

https://thediplomat.com/2018/05/kashmir-killing-militants-wont-kill-militancy/

https://www.theguardian.com/world/2014/jun/14/al-qaida-video-muslims-kashmir-jihad-india

https://www.hindustantimes.com/books/the-kashmir-reading-list-11-books-to-understand-the-conflict/story-PKmPCQ5WtigTwp85vvSpRM.html

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