Le vie degli stupefacenti: l’oppio nella Mezzaluna d’oro

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Nell’Asia centro-meridionale, l’area che va dal Pakistan all’Iran passando per l’Afghanistan è storicamente nota come la Mezzaluna d’oro. Il clima temperato umido e il suolo sabbioso della regione, infatti, rendono i Paesi che costituiscono la Mezzaluna d’oro idonei alla coltivazione del papaver somniferum (papavero sonnifero, meglio noto come “papavero da oppio”), pianta dalla quale viene estratto il liquido lattiginoso dal quale viene prodotto l’oppio, alla base degli stupefacenti oppiacei.

L’oppio, nel corso della storia, ha rappresentato a fasi alterne la fortuna di fazioni e bande criminali. Da un punto di vista cronologico, e anche quantitativo, l’oppio ha fatto la fortuna dei mujaheddeen afghani prima, e del regime dei talebani poi, in un Afghanistan in cui il racket delle droghe, così come dei trasporti, è decisamente il business più redditizio.

 

La Mezzaluna d’oro e l’oppio: storia di un antico stupefacente 

Nonostante l’oppio entri ufficialmente nell’immaginario collettivo occidentale con il saggio letterario I paradisi artificiali di Charles Baudelaire nel 1860, la storia di questo stupefacente ha caratterizzato l’area del Mediterraneo da diversi secoli prima. Già nel IV secolo a.C., l’oppio veniva considerato un sedativo e un medicinale dai greci. Se Ippocrate lo consigliava come rimedio per diversi mali, nel V secolo a.C Erasistrato aveva iniziato a notare gli effetti disastrosi del frequente uso di oppio. Gli storici sono anche d’accordo sull’utilizzo di oppiacei nella Roma imperiale, soprattutto tra i ceti alti e tra gli imperatori: Dioscoride, medico greco vissuto all’epoca di Nerone, descrive in un tractatus medico la pianta del papavero da oppio e la sua capsula, riportando le procedure di incisione per l’estrazione del suo contenuto. La Teriaca (θηριακή, thēriakḗ in greco), uno dei primi farmaci a base di oppio, venne utilizzato più volte anche dall’imperatore Marco Aurelio.

Tuttavia, l’utilizzo dell’oppio risale a diversi secoli prima, sia in Asia Minore (l’attuale Levante), sia nel subcontinente indiano e in Cina. Il Libro ermeneutico dei medicamenti, papiro egiziano risalente al 1500 a.C. circa, che descrive l’utilizzo farmacologico di diverse piante – tra cui l’oppio – dimostra che gli abitanti dell’area erano a conoscenza delle proprietà sedative della pianta, la cui capsula è stata ritrovata anche in vari siti archeologici delle civiltà mesopotamiche (circa 5000 anni fa). In Cina, invece, l’oppio venne importato dal subcontinente indiano fin dal 2800 a.C. principalmente per soddisfare il mercato del ceto alto, che probabilmente utilizzava il liquido lattiginoso della capsula del papavero da oppio nell’impasto di dolci dalle proprietà mediche e ludiche. 

Nonostante l’ormai provata diffusione dello stupefacente, gli storici sono concordi sul fatto che fu l’antica Persia il bacino di diffusione dell’oppio, soprattutto per quanto riguarda l’area corrispondente all’odierno Iran e alla Valle dell’Indo (Pakistan). Tuttavia, in tempi moderni, l’oppio riconduce immediatamente all’Afghanistan, Paese che rappresenta il maggior produttore di oppiacei a livello mondiale. Anche qui, però, l’oppio risale a diversi secoli prima della modernità, nello specifico nel XIII secolo d.C, quando la coltivazione di oppio fu potenziata dalla conquista dell’area da parte delle orde mongole di Temujin Borjicin (Qinjis Khan), meglio noto come Gengis Khan. Di fatto, lo stesso leggendario conquistatore mongolo era noto – come molti altri guerrieri mongoli di alto rango – per girare con semi di papavero nella propria bisaccia, che secondo la leggenda spargeva sui campi di battaglia dopo ogni scontro per rendere onore ai suoi guerrieri caduti (gli storici ne stanno recentemente mettendo in dubbio la veridicità). Da un punto di vista economico però, la distensione dell’Impero mongolo – dalle steppe a nord della Cina alle porte d’Europa – favorì probabilmente la circolazione d’oppio sia verso i mercati orientali sia verso quelli europei.

 

L’oppio e la guerra civile afghana: la fortuna di tribù pashtun e jihadisti

Complice il divieto degli anni ‘50 di produrre oppio emanato dalla monarchia persiana prima e dalla Repubblica islamica poi – fino alla seconda metà del XX secolo era l’attuale Iran il maggiore centro di produzione mondiale dell’oppio – furono i signori della droga pakistani ad aumentare la produzione degli oppiacei. Sfruttando il controllo del Khyber Pass, il valico montano che collega Pakistan e Afghanistan, le tribù pashtun locali – soprattutto Afridi e Shinwari – si arricchirono tramite il contrabbando di oppio e armi e fornendo hashish e oppio agli hippies nei loro mistici viaggi in Asia (una delle principali tappe era Peshawar, Pakistan). Il traffico di stupefacenti, che sfruttava anche le milizie curde iraniane e irachene e la mafia turca, terminava direttamente in Europa occidentale, tra gli anni Settanta e Ottanta caratterizzata da una vera e propria epidemia di oppiacei.

I legami etno-tribali che uniscono tuttora diverse tribù pashtun pakistane e afghane furono successivamente sfruttate dalla CIA durante la guerra sovietico-afghana. Se da un lato, il legame tra intelligence occidentali e signori della droga pakistani avevano in passato portato a inondare le allora agitate piazze europee e nordamericane di oppio ed eroina per controllare la popolazione in protesta; dall’altro, portarono le parti in gioco a legarsi in funzione anti-sovietica. Tra il 1979 e il 1989, decine di laboratori per la raffinazione dell’oppio in eroina impiegarono chimici turchi e pakistani sotto la supervisione degli agenti della CIA, i quali fornirono anche armi alla guerriglia afghana. 

Con la fine del conflitto, gli Stati Uniti non si curarono dello smantellamento delle infrastrutture di produzione e raffinazione degli oppiacei, lasciando in mano alle milizie locali e ai signori della guerra afghani una rete già pronta per l’uso. Nel suo Talebani, il giornalista pakistano Ahmed Rashid ha documentato nel dettaglio gli equilibri di potere costituitisi successivamente alla ritirata sovietica: coloro che riuscivano a controllare il racket del trasporto su gomma, dei rapimenti e soprattutto della droga erano considerati i veri uomini forti del Paese, con giri di soldi che arrivarono in pochi anni a raggiungere diverse decine di milioni di dollari statunitensi. Con il prolungarsi del conflitto civile negli anni ‘90 – che vide la nascita e la partecipazione dei talebani, sorti anche dai mujahedeen  finanziati da Washington in funzione anti-sovietica – la produzione di oppio proseguì a fasi alterne sviluppando diverse modalità e caratteristiche.

 

Oppio e talebani tra amore e odio: lo stupefacente nella milizia islamista

Secondo l’ONU, nel 2020, l’Afghanistan ha prodotto l’85% dell’oppio a livello mondiale con una produzione che, secondo l’organizzazione intergovernativa internazionale, supera le 6.000 tonnellate annue da ben cinque anni. La coltivazione e il traffico della sostanza è infatti il principale settore economico del Paese e garantisce lavoro a mezzo milione di persone e sussistenza a circa 2 milioni di afghani. Il business dell’oppio, nell’Afghanistan contemporaneo, è strettamente legato a fattori strutturali come l’insicurezza, l’assetto politico, che coinvolge bande e signori della guerra locali, e un’economia tra le più povere del mondo.

Negli anni Novanta, con la fine della guerra sovietico-afghana (1979-1989), la guerra civile si concluse con l’emergere dei Talebani e la nascita dell’Emirato Islamico d’Afghanistan  (1996). Il gruppo, finanziato in larga parte da Pakistan e Arabia Saudita, si espanse dalla regione del Kandahar verso quella dell’Hilmand – centro nevralgico della produzione di oppiacei – e si trovò ad affrontare subito la questione dell’oppio. Il fondamentalismo islamico dei Talebani li spinse da subito a bandirne la produzione, almeno sulla carta. Regolare l’economia di oppio, anche se in via informale, garantiva legittimità al regime talebano dal momento che larghe fette della popolazione dipendevano da questa risorsa. Nel 1999, un divieto voluto dal Mullah Omar fu annunciato nella speranza di ricevere legittimità internazionale ed effettivamente la disponibilità di eroina a livello globale si ridusse del 75% (dati UNODC – United Nations on Drugs and Crime). Tuttavia questa misura spinse ancora più rapidamente l’economia afghana al collasso.

L’invasione statunitense del 2001 e la missione “Enduring Freedom” non hanno avuto a loro volta alcun impatto sull’economia dell’oppio afghana. Dal 2002 al 2020, le terre adibite a coltivazione di papavero da oppio sono triplicate ed è apparsa anche l’efedra (UNODC) da cui si ricavano diverse metanfetamine. In un primo momento, gli USA approfittarono dei signori della guerra, spesso coinvolti nell’economia dell’oppio per ottenere informazioni di intelligence o ottenere supporto militare in azioni contro talebani e al-Qaeda, finanziando ulteriormente il mercato dell’oppio, salvo poi provare a ostacolarlo sradicando intere piantagioni. 

Tuttavia, eccezion fatta per alcune azioni antidroga come i programmi di eradicazioni di campi compensate al fine di sviluppare attività colturali legali come grano e zafferano – gli Stati Uniti hanno implementato strategie anti-droga poco ortodosse, come l’impiego di velivoli carichi di pesticidi per colpire piantagioni di papaveri da oppio, ma anche altre tipologie di coltivazioni. A ciò si aggiunga anche il bombardamento di sospetti laboratori di produzione di eroina, che spesso hanno portato all’uccisione di civili.  Queste misure non sono riuscite a intaccare gli introiti dei talebani, ma anzi hanno ottenuto come risultato un ulteriore inimicamento della popolazione locale contro il governo nazionale di Kabul, anch’esso contrario alle azioni di Washington che, nel corso di vent’anni, sono costate circa 9 miliardi di dollari statunitensi. 

Il fallimento delle politiche USA, secondo lo Special inspector general for Afghanistan reconstruction (Sigar – l’organo di monitoraggio delle missioni statunitensi nel Paese centrasiatico) è da ricondurre a due fattori: da un lato, gli obiettivi sono stati basati su stime molto generali e con pochi fondamenti, dal momento che il monitoraggio delle aree controllate dai talebani è sempre risultato difficile, andando a disegnare obiettivi irrealistici. Dall’altro, la sostituzione delle piantagioni di papaveri non sono risultate abbastanza redditizie per soddisfare i coltivatori locali che, spinti dalla necessità di guadagni stabili, si sono trasferiti in massa nelle capitali della produzione oppiacea, tra cui la regione dell’Helmand. Inoltre, secondo diversi analisti del Sigar, il miglioramento delle infrastrutture afghane e degli impianti di irrigazione, unitamente all’altissima infiltrazione criminale e la corruzione degli apparati statali, ha contribuito all’aumento della produzione e alla facilitazione del trasporto.

Oggi, dopo la fuga dell’Occidente e la nuova vittoria dei Talebani, l’Afghanistan non conta più sugli aiuti economici delle istituzioni finanziarie internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale), degli USA e dell’Unione Europea e, anzi, i fondi depositati all’estero e congelati stanno spingendo sempre di più le nuove autorità di Kabul a un aumento dei traffici illegali. I Talebani hanno annunciato un nuovo divieto di coltivazione dell’oppio anche per acquisire legittimità internazionale da parte di Iran, Russia e Cina – tra i Paesi che più soffrono del traffico di stupefacenti afghani. Tuttavia anche il nuovo governo, per garantire il consolidamento del regime e la tenuta sociale del Paese, difficilmente potrà fare a meno della tradizionale economia dell’oppio e le nuove opportunità offerte dal mercato delle metanfetamine e, probabilmente, proseguirà il traffico appoggiandosi a milizie alleate e signori della guerra locali in via del tutto informale.

 

 

Fonti e approfondimenti

Afghanistan Opium Survey 2021 Cultivation and Production – March 2022, UNODC.

Aragone-Poce F., Martin-Fernandez E., Marquez-Espinos C., Perez A., Mora R., Torres L.M., “History of Opium”, International Congress Series 1242, 2002.

Felbab-Brown Vanda, “Pipe dreams: The Taliban and drugs from the 1990s into its new regime”, Brookings Institution, 15/09/21.

Goodhand G., “Frontiers and Wars: the Opium economy in Afghanistan”, Journal of Agrarian Change, Vol. 5 n°2 (pag. 191-216), aprile 2005.

Rashid A., “Talebani: Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale”, Feltrinelli, 2002.

Schetter C., “La linea Durand, dove le tribù rifuggono lo Stato”, in Limes, n°2/2010, “Afghanistan Addio”.

Stone Rupert, “Afghanistan’s drug trade is booming under Taliban rule”, Atlantic Council, 24/08/22.

Windle J., “Insight for contemporary Drug Policy: A Historical account of Opium control in India and Pakistan”, Asian Journal of Criminology, Vol. 7 n°1 (pag. 75-74), 2012.

 

 

Editing a cura di Carolina Venco

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