Il nuovo Emirato Islamico d’Afghanistan: un ritorno al passato?

Il ritiro delle forze statunitensi e occidentali dall’Afghanistan, stabilito dagli accordi di Doha del 2020, ha spianato la strada all’offensiva dei talebani. Dopo vent’anni, la bandiera del movimento fondamentalista islamico sventola di nuovo a Kabul, conquistata il 15 agosto. In seguito al completamento delle operazioni di evacuazione dei cittadini occidentali e alla fuga del primo ministro Ashraf Ghani, i talebani sono, de facto, l’unica autorità, ancorché non riconosciuta, del Paese.

Nonostante la disperata resistenza di milizie e membri dell’ex esercito nazionale afghano stanziati nella valle del Panjshir, i talebani sembrano in totale controllo della nazione. Di fatto, anche se si sono susseguite proteste in diverse città, il movimento ha proclamato l’Emirato Islamico d’Afghanistan

Non è la prima volta che i talebani instaurano un regime islamista nel Paese. La parentesi 1996-2001 è stata uno dei periodi più bui della storia afghana e la restaurazione dell’Emirato ha sparso il terrore tra la popolazione. Dalle prime apparizioni pubbliche, i leader dei talebani hanno promesso un regime più moderato, dichiarando che il movimento è cambiato e che non verranno commesse le atrocità del passato. La comunità internazionale pare divisa al riguardo. 

Tra dubbi e pragmatismo, i prossimi mesi saranno fondamentali per capire se i talebani otterranno il riconoscimento internazionale da cui passa la loro legittimità politica e la possibilità di instaurare rapporti economici e diplomatici con gli attori regionali e internazionali.

Il primo Emirato Islamico d’Afghanistan (1996-2001): gli anni più bui del Paese

Con la conclusione della guerra afghano-sovietica nel 1989 e la dissoluzione dell’URSS nel 1991, l’allora Repubblica Democratica d’Afghanistan si trovò senza l’appoggio del principale partner economico e politico. Dilaniato all’interno da conflitti tribali ed etnici, il governo comunista fu incapace di far fronte ai mujaheddin, avversi alle politiche laiciste della Repubblica. Nel 1992, gli Accordi di Peshawar stabilirono un governo ad interim, appoggiato da gran parte, ma non da tutte, le fazioni islamiste, fondando lo Stato Islamico d’Afghanistan, presieduto da Burhanuddin Rabbani. Tuttavia, la pace sperata non fu raggiunta e nel 1994 sorse il movimento dei talebani.

Nel 1996, il movimento conquistò Kabul, costringendo il presidente Rabbani e i suoi seguaci a rifugiarsi nel nord del Paese. In seguito alla presa della capitale, i talebani instaurarono l’Emirato Islamico d’Afghanistan, riconosciuto solo da Pakistan, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Negli anni successivi, le forze talebane riuscirono a conquistare due terzi del Paese, mentre il governo in esilio nel nord del Paese (noto come Alleanza del Nord) opponeva una strenua resistenza.

L’Emirato dei talebani fu caratterizzato da una feroce violenza rivolta verso minoranze etniche e religiose, che furono ripetutamente oppresse. I talebani, infatti, applicarono una rigida interpretazione della Shari’a, in linea con il revivalismo del movimento Deobandi. Quest’ultimo fu fondato in India nel XIX secolo e si basa sul principio del taqlid («conformità ai precedenti legali»), rientrando nella scuola sunnita del Hanafismo. I principi teorici del Deobandi furono sovrapposti e aggregati al Pashtunwali, codice d’onore che regola la vita dei clan pashtun, etnia maggioritaria in Afghanistan, alla quale apparteneva la maggioranza dei talebani. L’organizzazione dell’Emirato impose quindi una serie di leggi che penalizzò e criminalizzò le numerose minoranze etniche e religiose del Paese.

Dal 1996 al 2001, anno dell’intervento militare statunitense-occidentale che causò la caduta dell’emiro, i talebani imposero le loro leggi con la forza. Il movimento vietò, oltre ad alcol e carne di maiale, l’ascolto di musica non religiosa e l’uso della televisione. Le arti furono bandite, così come gli sport considerati non tradizionali, mentre alle donne fu impedito di lavorare, studiare, guidare e uscire di casa senza burqa e accompagnatore maschio (un parente). 

Particolarmente violenta fu l’oppressione delle minoranze etniche, molto spesso definita “genocidio” dalle organizzazioni per la tutela dei diritti umani come Human Rights Watch. Tristemente noto, ad esempio, fu il trattamento riservato agli hazara, etnia di religione sciita. Accusati di essere “infedeli” e leali al vicino Iran, gli hazara furono perseguitati e massacrati in più occasioni: dopo la conquista di Mazara-i-Shaif, dove le milizie hazara resistettero a lungo agli assedianti talebani, i fondamentalisti uccisero indiscriminatamente circa ottomila civili, tra cui una cifra stimata tra i due e i cinquemila hazara

Infine, i talebani proibirono ogni forma di idolatria, in linea con le interpretazioni più ortodosse del Corano. Emblematica è la distruzione dei Budda di Bamiyan e di decine di templi buddisti e shintoisti.    

Il volto del nuovo Emirato Islamico d’Afghanistan: promesse e strategie comunicative dei talebani

La storia recente dei talebani è stata caratterizzata dalla costante evoluzione del movimento stesso. Dalla conquista di Kabul, i talebani si sono presentati al mondo con un volto nuovo, con l’obiettivo di convincere la comunità internazionale del presunto cambiamento dei fondamentalisti. 

Da anni ormai, la propaganda e la comunicazione mediatica dei talebani non appare solo in lingua pashtun o dari, come nei decenni precedenti, ma anche in inglese. Addirittura, in rottura con la totale chiusura nei confronti degli “infedeli”, Sirajuddin Haqqani, uno dei leader dei talebani, ha pubblicato nel 2020 un editoriale dal titolo What we, the taliban, want sul New York Times. L’articolo appare come un manifesto della narrativa ufficiale adottata dai talebani, ovvero quella di aver iniziato il jihad contro l’occidente come strumento di autodifesa, una guerra santa terminabile con il ritiro delle truppe straniere.

Sulla stessa linea, il 17 agosto, Mawlawi Abdulhaq Hemad, tra i vertici del movimento, si è lasciato intervistare in televisione da Behesda Arghand, una giornalista di Tolo News, principale notiziario afghano. Durante l’intervista, Hemad ha ribadito la nuova linea dei talebani: quella del rispetto dei diritti umani nei limiti della legge islamica. In particolare, i fondamentalisti promettono il rispetto delle minoranze e dei diritti delle donne, così come l’amnistia nei confronti degli afghani che hanno collaborato con gli occidentali o il governo. Le stesse promesse fatte da Zabihullah Mujahid, portavoce del movimento, durante la prima conferenza stampa post-conquista di Kabul. 

Alla base del cambio di strategia comunicativa dei talebani c’è il pragmatismo politico del movimento. Infatti, nel 2019, la popolazione afghana (di circa trentacinque milioni) risultava composta per più del 50% da giovani di ventuno o meno anni. Inoltre, nonostante Internet ed elettricità non siano ancora accessibili a tutti gli afghani, gli abitanti delle grandi città godono della possibilità di connettersi da smartphone al traffico di informazioni globale. Di fatto, i talebani hanno ritrattato la messa al bando della tecnologia, imposta nel loro primo regime, sia per l’impossibilità di praticarla, vista la diffusione, sia nel tentativo di accattivarsi l’appoggio dei più giovani. Infine, non va sottovalutato come gli stessi talebani siano sbarcati sui principali social network, soprattutto Twitter, dove esiste anche l’account di al-Emara, il media ufficiale del movimento. Non si tratta esclusivamente dei militanti più giovani, ma anche dei leader, specialmente quelli che, costretti all’esilio dopo il 2001, si sono confrontati con il mondo di Internet e dei social, e le sue potenzialità, in Qatar o in Pakistan.

La diffidenza degli afghani e le proteste

Tuttavia, se negli ultimi giorni i talebani hanno provveduto a presentarsi nelle loro nuove presunte vesti, la popolazione afghana continua a diffidare del movimento

Fin dalla caduta di Kabul, diverse migliaia di afghani hanno sfidato i talebani sventolando nei luoghi pubblici la bandiera della Repubblica Islamica e, addirittura, sostituendola a quelle dell’Emirato Islamico issate dai talebani. A Jalalabad, l’ammainamento della bandiera dell’Emirato ha portato all’intervento dei miliziani che hanno aperto il fuoco sulla folla causando tre morti e una decina di feriti. In altri contesti, le folle sono state disperse esplodendo colpi in aria.

Molto attive risultano anche le associazioni delle donne afghane, internazionali e locali. Pangea Onlus, fondazione italiana che gestisce una decina di progetti tra Italia, India e Afghanistan, ha dichiarato che le proprie attiviste e beneficiarie sono da giorni nascoste nella speranza di sfuggire alla ricerca casa per casa dei talebani. RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) ha invece organizzato diverse proteste nelle città afghane, annunciando ai talebani che le donne afghane non hanno la minima intenzione di rinunciare alla propria educazione e ai propri posti di lavoro. Di fatto, nonostante l’apertura di scuole e università, con classi rigorosamente separate in base al sesso degli alunni, diverse donne e ragazze sono state allontanate dai luoghi di studio. Situazione simile anche per quanto riguarda i posti di lavoro, soprattutto per le posizioni istituzionali ricoperte in ministeri, scuole e università. Diversi video diventati virali, invece, mostrano miliziani intenti a picchiare con bastoni e fruste le donne scese in strada per protestare contro il nuovo regime.

Nonostante le promesse, ritorsioni contro manifestanti ed ex collaboratori del governo e degli stranieri si sono verificate in diverse città. A Firozkoh, ad esempio, Banu Negar, una poliziotta che lavorava nel locale carcere, dove erano detenuti diversi talebani, è stata picchiata e uccisa da un gruppo di militanti, sintomo che le promesse fatte sono solo di facciata. 

La disastrata economia afghana e la necessità di collaborare con le potenze estere

La necessità dei talebani di presentarsi come un movimento cambiato, se non ammorbidito, passa anche dalla disastrosa situazione economica del Paese. Nonostante alcuni successi ottenuti dal governo filo-occidentale in settori come quello agricolo, l’economia afghana porta ancora i segni di vent’anni di conflitto. Per decenni legata alla pastorizia, all’economia dell’oppio e al racket dei trasporti, l’economia afghana dipende in gran parte dagli aiuti umanitari ricevuti dai Paesi occidentali, come sostenuto dall’Afghanistan Analyst Network. Nello specifico, secondo l’organizzazione, il ritiro di aiuti economici andrà ad aumentare l’incidenza di persone che vivono sotto la soglia di povertà (47,3% nel 2020), esattamente come la transizione politica si rifletterà anche sul già alto numero di disoccupati (11,7% nel 2020) e sul prezzo dei beni di prima necessità, triplicato dalla caduta di Kabul.

Con il completamento delle operazioni di ritiro ed evacuazione, Stati Uniti e alleati hanno sospeso i finanziamenti diretti in Afghanistan, almeno fino a quando i talebani non daranno prova del loro impegno nel rispettare i diritti della popolazione, delle minoranze e delle donne. Contemporaneamente, gran parte degli afghani in possesso di lauree o di expertise tecnico-economico hanno abbandonato il Paese. I talebani si trovano quindi a dover gestire uno Stato in crisi senza la possibilità di poter avviare uno sviluppo nazionale basato sulle risorse umane locali. 

Un eventuale convincimento della comunità internazionale della nuova natura dell’Emirato servirebbe proprio a trovare nuovi partner economici, oltre che alleati politici. Ne è un esempio l’avvicinamento con l’Iran, che in cambio della riapertura della diga sul fiume Helmand ha ripreso a esportare carburante verso l’Afghanistan. Nuovi investimenti vengono cercati anche da altre potenze regionali. In seguito alla nomina del governo provvisorio, i talebani hanno invitato alla cerimonia di insediamento del loro primo esecutivo il Pakistan (dal quale ci si aspetta un ruolo di primo piano, visti i legami col movimento), il già citato Iran, la Turchia, il Qatar (alleato da sempre), la Russia e la Cina. Quest’ultima è particolarmente interessata all’Afghanistan per i minerali rari e il ruolo di crocevia svolto dal Paese nell’ottica della Nuova Via della Seta.

Se al momento sembrano escluse le potenze occidentali, il neo Emirato Islamico d’Afghanistan ha già accennato a un qualche tipo di apertura. Con la crescente minaccia dell’IS-KP (Islamic State – Khorasan Province), branca afghana dell’Isis rivale di al-Qaeda e dei talebani, il movimento si è visto costretto a “collaborare” con gli occidentali, nel tentativo di garantire la sicurezza durante le operazioni di evacuazione: intento fallito con gli attentati di agosto. Tuttavia, tra le varie questioni a cui Stati Uniti e alleati hanno legato possibili futuri aiuti economici vi è proprio la collaborazione nell’ambito della lotta al terrorismo. Ci si aspetta, ad esempio, che i talebani continuino le loro operazioni contro lo Stato islamico, ma anche che rinneghino i propri legami con al-Qaeda, cosa difficile visto che di recente è rientrato nella sua città natia Amin al-Haq, uno dei collaboratori più stretti di Bin Laden.

 

 

Fonti e approfondimenti

Afghanistan Analyst Network, 2021, Afghanistan’s looming economic catastrophe: What next for the Taleban and the donors.

Afghan Women Mission, 2021, RAWA responds to the Taliban takeover.

Al-Monitor, 2021, UAE sends aid to Taliban’s Afghanistan.

Amnesty International, 2021, Afghanistan: Taliban responsible for brutal massacre of Hazara men – new investigation.

Asian Development Bank, 2020, Poverty Data Afghanistan.

Human Rights Watch, 1998, Afghanistan: The Massacre in Mazar-I Sharif.

Rashid, Ahmed. 2002. “Talebani. Islam, petrolio e il grande scontro in Asia Centrale”. Feltrinelli.

Rashid, Ahmed. 2008. “Caos Asia”. Feltrinelli.

Russo, Carla Herreria, “New York Times Gets Blasted For Publishing Op-Ed From Taliban Deputy Leader, Huffington Post, 25/2/2020.

Szuba, Jared, “Sources: Taliban move helped US keep Afghans off Kabul airfield last week, al-Monitor, 25/8/2021.

 

 

Editing a cura di Niki Figus

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