La genealogia del caos libico: l’intervento occidentale

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ليبي صح, CC0, via Wikimedia Commons

La Libia appare come uno stato disunito, in cui nessuna istituzione ha l’effettivo controllo del territorio. Questa situazione rappresenta anche un terreno fertile per il prosperare di gruppi estremisti, organizzazioni criminali e trafficanti di esseri umani. Ma quali fattori hanno ridotto il forte stato libico dell’era Gheddafi ad una semi-anarchia? Qual è stato il ruolo degli stati occidentali in questo processo?

La Libia prima dell’intervento

Per dare una risposta a questa domanda dobbiamo tornare indietro nel tempo, al 2011, anno in cui molti regimi arabi vengono travolti dall’ondata delle così dette Primavere Arabe. Tra i paesi colpiti “dall’effetto domino” compare anche la Libia. Fino ad allora, Gheddafi era sempre stato in grado di governare nonostante un contesto sociale così frammentato basando il proprio potere su un rapporto personale diretto con tutti i possibili referenti locali. Questo sistema venne però distrutto sia dalle rivolte iniziate il 17 Febbraio, divenute sempre più aggressive, sia dalla violenta repressione del governo libico. Secondo Human Rights Watch in soli due giorni furono 84 le vittime degli scontri. In poche settimane la situazione degenerò, dando vita alla prima guerra civile libica.

La crisi raggiunse il suo apice il 17 Marzo, quando le truppe lealiste si avvicinarono alla città di Bengasi, ultimo baluardo degli insorti e seconda città libica più popolosa. Gheddafi annunciò un massacro senza pietà contro i ribelli, promettendo di “andarli a stanare casa per casa”. Al fine di evitare una strage e con il sostegno della Lega Araba, David Cameron e Nicolas Sarkozy convocarono una riunione di emergenza delle Nazioni Unite per l’adozione della Risoluzione 1973. In poche ore il Consiglio di Sicurezza autorizzò gli Stati Membri a proteggere la popolazione attraverso “tutte le misure necessarie”, per quanto sia stato precluso esplicitamente l’occupazione militare straniera “in ogni forma ed in ogni parte del territorio libico”.

Le caratteristiche dell’intervento

Normalmente, il Consiglio di Sicurezza utilizza il termine “tutte le misure necessarie” per autorizzare una coercizione tramite strumento militare. Tuttavia, a causa dell’estrema rapidità di approvazione, il testo della risoluzione rimase molto ambiguo. Alcuni stati interpretarono la risoluzione come un’autorizzazione a destituire l’allora vigente governo libico. Infatti oltre alle circostanze inusuali che hanno portato all’adozione della risoluzione, la sua formulazione riflette un compromesso tra stati come la Gran Bretagna e la Francia, che cercarono di massimizzare la portata dell’azione militare consentita, ed altri come la Cina e la Federazione Russa che avrebbero invece invocato il loro diritto di veto.

Come può l’ONU autorizzare un intervento militare in uno stato sovrano? Il fondamento giuridico dietro il mandato ONU, e che quindi ha autorizzato l’intervento in Libia, è da ritrovarsi nella responsabilità di proteggere (R2P). Questo principio ribadisce la sovranità degli Stati ed il loro dovere di garantire la sicurezza ai propri cittadini, ma nel caso in cui questi falliscano (causa impossibilità o mancanza di volontà), tale responsabilità passa alla comunità internazionale. La risoluzione 1973 è stato il primo ed unico caso in cui questo principio è stato richiamato concretamente dalle Nazioni Unite. Ciò non toglie che sia il principio della responsabilità di proteggere e sia la risoluzione 1973 presentino grossi limiti alla discrezionalità degli attori che decidono di intervenire. In particolare, l’uso della forza dev’essere proporzionale alla minaccia ed è consentito solamente se necessario per proteggere la popolazione civile e quando risulta l’unico mezzo possibile. Tuttavia, l’implementazione da parte degli Stati membri non trova pieno riscontro nell’autorizzazione delineata dalla risoluzione.

Sotto il punto di vista diplomatico, sebbene la risoluzione incoraggi gli sforzi per una soluzione pacifica e durevole della situazione libica, tale posizione appare contraddetta dalle ripetute azione militari da parte di paesi NATO. Un episodio eloquente avvenne subito dopo l’approvazione della risoluzione, in quanto Gheddafi dichiarò un cessate il fuoco e la sua disponibilità a collaborare con la Commissione Internazionale d’Inchiesta sulla Libia, ma questa possibile soluzione diplomatica fu stroncata sul nascere da un attacco dei cacciabombardieri francesi il 19 Marzo. Successivamente Gheddafi fece ulteriori proposte di riappacificazione, mediate dall’Unione Africana, concedendo anche l’amnistia, ma tutte furono sempre rifiutate dai ribelli. Infatti gli insorti collegarono la fine del conflitto ad una caduta del governo libico, sentendosi protetti militarmente dalla comunità internazionale ed in particolare da alcuni stati (USA, Francia, Gran Bretagna) che appoggiarono apertamente il cambio di governo. La mancanza di un accordo diplomatico ha non solo allungato ed esacerbato ulteriormente i conflitti, ma rappresenta anche un punto cardine per l’attuale situazione.

 

Sotto il lato militare bisogna innanzitutto ricordare che, prima dell’adozione dell’intervento internazionale, la differenza militare tra le due fazioni in guerra era tale che i lealisti nel giro di pochi giorni avrebbero concluso la guerra civile riconquistando Bengasi. Il compito della comunità internazionale era quindi semplicemente quello di difendere la popolazione civile per evitare un massacro e favorire un accordo politico. In effetti, durante la prima fase, i raid aerei occidentali furono concentrati nell’attaccare le forze governative che volevano riconquistare la città occupata dai ribelli. Successivamente le operazioni militari NATO presero un ruolo costantemente più attivo, che praticamente si trasformò in un sostegno aereo ai ribelli nella presa di città importanti come Tripoli, Misurata, Sirte e Bani Walid. Durante lo svolgimento di queste azioni militari, la Commissione Internazionale d’Inchiesta sulla Libia ha rivelato che crimini di guerra sono stati perpetuati dai ribelli e bombardamenti a strutture civili con la morte di persone, non giustificate da parte NATO. Non è un caso che nel dopoguerra l’Isis si sia radicato proprio a Sirte, ultima città espugnata dai ribelli in cui questi ultimi misero in atto una sorta di pulizia etnica contro i cittadini.

Le reazioni e le conseguenze all’intervento

Il modo in cui l’intervento militare venne fortemente criticato non solo da paesi come Russia e Cina che si erano astenuti in seno al Consiglio di Sicurezza, ma anche da paesi che votarono a favore della risoluzione, o da organizzazioni regionali come l’Unione Africana e la Lega Araba che furono i primi a chiedere un intervento delle Nazioni Unite. Il rappresentante sudafricano, Baso Sangqu, si pronunciò così:

Quando il Sudafrica ha votato a favore della risoluzione 1973, l’intenzione era quella di garantire la protezione dei civili. Avevamo sperato che questo avrebbe creato un ambiente favorevole all’interno del quale i libici avrebbero potuto negoziare una soluzione alla crisi che era loro accaduto. La nostra intenzione non è mai stata un cambio di regime. Il futuro della Libia dovrebbe essere deciso dai libici stessi, e non da estranei.

Sempre Sangqu il 28 luglio ammonì il Consiglio di Sicurezza che, in seguito all’intervento della comunità internazionale, la situazione in Libia si era deteriorata maggiormente e che, se avessero continuato a prediligere l’uso della forza invece che un accordo politico, la sicurezza e la stabilità nel lungo periodo sarebbe stata messa a rischio. Gli stati intervenuti hanno però continuato ed intensificato gli attacchi negli ultimi mesi prima della caduta di Gheddafi e soprattutto hanno fatto mancare i principi fondamentali della responsabilità di proteggere, tra cui quello di re-build, ovvero una previsione credibile e sostenibile per il futuro del Paese. Infatti l’operazione NATO Unifed Protector finì il 31 Ottobre 2011, ovvero solo 11 giorni dopo la morte di Gheddafi.

La stabilizzazione libica era vitale poiché le forze ribelli erano formate da un gruppo eterogeneo di attori che spaziavano dai cosiddetti shabab, i giovani che hanno innescato le proteste di metà febbraio fino a gruppi islamisti radicali. Erano tutti accomunati dalla volontà di far cadere Gheddafi, ma non concordavano su chi o cosa avrebbe dovuto prendere il suo posto. Una volta venuta a mancare la forte figura del colonnello, sia come leader per i lealisti, ma anche come nemico comune per i ribelli, le forze centrifughe sono venute prepotentemente alla luce scatenando rivalità tra i vari gruppi. Inoltre, la violenza vissuta durante la guerra civile e la grossa quantità di armi presente in Libia ha diminuito le possibilità di una coesistenza pacifica. Oggi, il fallimento dell’intervento in Libia è stato internazionalmente riconosciuto dagli stessi leader che lo hanno portato avanti.

Da quanto abbiamo avuto modo di analizzare quindi, nonostante si sia agito nel contesto di un intervento umanitario, la comunità internazionale ha mostrato una progressiva emancipazione dal mandato ONU fino ad estenderne ed oltrepassarne i limiti. Il prediligere di azioni militari anziché diplomatiche, unito alla mancanza di un piano di lungo periodo per la stabilizzazione del Paese, ha permesso alle diverse fazioni presenti in Libia di prendere politiche indipendenti per il controllo del territorio, dividendo così quello che era fino a pochi anni prima uno stato unitario.

 

Fonti ed approfondimenti:

UN Doc. A/HRC/19/68, Report of the International Commission of Inquiry on Libya, 2 Marzo 2012..

201C. Focarelli, “La crisi libica: un punto di svolta nella dottrina della responsabilità di proteggere?”, Diritti umani e diritto internazionale, 2011.

G. Pastori, ‘La Nato, la Libia, l’Europa. Alla ricerca di Shangri-La?’, ISPI, Ottobre 2011.

International Commission on Intervention and State Sovereignty, “The Responsibility To Protect”, International Development Research Centre, 2001

U.Villani, “Aspetti problematici dell’intervento militare nellacrisi libica”, Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2011.

 

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