In lobby with EU: l’ascesa del big tech

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Nel corso del nostro progetto sulle lobby nell’UE, abbiamo visto che le istituzioni comunitarie hanno un rapporto molto stretto, quasi di interdipendenza, con i rappresentanti di interessi economici. Oggi vedremo un attore entrato a Bruxelles relativamente di recente, ma che è cresciuto esponenzialmente: il big tech, ossia le grandi aziende tecnologiche – e in particolare, la Silicon Valley.

Perché parlare di big tech?

Le nuove tecnologie e il digitale sono una priorità per qualsiasi soggetto politico, e l’Unione europea non fa eccezione.

La Commissione europea ha inserito il Mercato unico digitale tra le priorità del suo mandato. Questo sarebbe, in parole povere, l’estensione del Mercato unico tradizionale: tra gli obiettivi indicati nella Strategia per il Mercato unico digitale, pubblicata nel 2015, c’è la costruzione di una data economy, (“economia dei dati”), ossia  una vera e propria infrastruttura digitale che consenta all’economia europea di rimanere dinamica e competitiva nei prossimi anni. Affinché ciò sia possibile, la Commissione si propone di coniugare apertura – fine del roaming, agevolazione del commercio online tra gli Stati membri e con l’esterno – e protezione – rimozione dei contenuti illeciti, tutela dei dati personali.

A differenza di altri settori, i principali interlocutori dell’UE nell’industria digitale sono grandi aziende, spesso extra-UE: queste costituiscono ormai il 50% dei soggetti attivi. A farla da padrone è la Silicon Valley – con una serie di nomi ben noti, come il cosiddetto gruppo GAFAM (Google-Amazon-Facebook-Apple-Microsoft), ma anche Uber, AirBnb e altri. Dal 2014, che coincide proprio con l’insediamento della Commissione Juncker, la loro presenza a Bruxelles è cresciuta in modo significativo.

Google, iscritta al Registro per la trasparenza dal 2011, spendeva inizialmente tra i 600 e i 700 mila euro annui in attività di lobby – e neppure aveva un ufficio a Bruxelles. Nel 2014, erano già 3.5 milioni; nel 2018, la spesa dichiarata superava i 6 milioni di euro. Una parte di queste spese copre gli stipendi dei lobbisti impiegati direttamente (“solo” 15, secondo Google).

Oltre ai costi per gli uffici e di cancelleria, l’azienda contribuisce anche a diverse associazioni di cui è membro (come l’American Chamber of Commerce, Digital Europe e Business Europe), si avvale di consulenti esterni e organizza eventi su temi di policy. Altre aziende, arrivate più tardi, ne hanno seguito l’esempio: Amazon spende più di 2 milioni, mentre AirBnb si aggira intorno ai 600 mila euro e ha ottenuto il suo primo pass per il Parlamento europeo.

Persino aziende più consolidate, come Microsoft, hanno aumentato sia la spesa che il personale negli ultimi cinque anni – segno che la tecnologia e il digitale hanno un peso sempre più importante nelle politiche europee ed è bene seguirle da vicino.

 

Tra scontri e collaborazione: il difficile rapporto tra UE e big tech

I temi da discutere non mancano: mercato digitale, intelligenza artificiale, fake news, politiche fiscali, ricerca e innovazione, sicurezza e privacy, produzione industriale, politiche commerciali transatlantiche sono solo alcuni degli argomenti in agenda negli incontri tra questi soggetti e i rappresentanti della Commissione.

Un’agenda così variegata riflette anche il rapporto ambivalente che si è impostato tra istituzioni europee e big tech: cooperazione essenziale per produrre e implementare legislazione flessibile e all’avanguardia, ma anche diversi scontri.

Il caso forse più noto è quello del GDPR, il nuovo regolamento sulla privacy in vigore dal 2018. Nel corso del suo mandato, però, la Commissione Juncker ha progressivamente ampliato il suo campo d’azione, andando a scontrarsi con gli interessi dell’industria digitale.

Margrethe Vestager – commissaria uscente alla concorrenza, futura vicepresidente per il Mercato unico digitale – si è mostrata particolarmente combattiva. Uno dei sui ultimi atti come commissaria è l’avvio delle indagini sulla violazione delle norme sulla concorrenza da parte di Qualcomm, che potrebbe spianare la strada per azioni analoghe nei confronti di altri giganti come Google e Facebook.

Tra le priorità per la Commissione von der Leyen ci sarà, quasi sicuramente, il rilancio di un’imposta sui servizi digitali, che colpirebbe le imprese che generano la maggior parte del reddito dai servizi digitali. È nei piani anche un regolamento sulla e-Privacy, un’estensione del GDPR che dovrebbe proteggerebbe specificamente le comunicazioni online.

Tramite le sue iniziative, l’Unione si sta proponendo come rule-maker, invece che rule-taker: un soggetto che stabilisce le proprie regole, invece di accettare quelle degli altri. È un’operazione quantomai complessa in un ambito, come il digitale, dove i confini sono estremamente sfumati e le giurisdizioni legali sono difficili da tradurre nella pratica. Significa anche che i grandi della Silicon Valley non possono più ignorare l’Europa. Per capire come si sta evolvendo il rapporto tra UE e big tech, prendiamo un nome molto familiare: Facebook.

 

Se non puoi combatterli, unisciti a loro: Facebook e il lobbying

Anche Facebook è una presenza relativamente nuova a Bruxelles. D’altra parte – anche se esiste da quindici anni – è stato rilasciato al pubblico solo nel 2007, e oggi, con quasi 2 miliardi e mezzo di utenti, è il social network più grande al mondo. È iscritto al Registro per la trasparenza dal 2012, con sede a Dublino, ma ha anche un ufficio a Bruxelles dal 2015.

Fino all’anno scorso, il rapporto di Facebook con l’UE – ma, più in generale, con tutti i regolatori – era a dir poco conflittuale. La sua strategia, in linea con quella del settore, consisteva sostanzialmente nel rifiuto di qualsiasi regola esterna. Negli incontri con la Commissione tra il 2014 e il 2018, i cui documenti sono stati pubblicati su richiesta del Corporate Observatory, i rappresentanti dell’azienda sostenevano che le regole interne di Facebook dovessero prevalere su quelle nazionali o europee, e che mettere dei paletti alla raccolta dei dati avrebbe limitato e scoraggiato l’innovazione.

Lo scoppio dello scandalo Cambridge Analytica, però, ha cambiato le carte in tavola. Il caso ha attirato l’attenzione sulle pratiche commerciali di Facebook e sul suo trattamento dei dati degli utenti. Ha anche costretto i legislatori di tutto il mondo, UE inclusa, ad affrontare una questione fondamentale: il settore del big tech, evidentemente, non è in grado di regolarsi da solo. Inizialmente, Mark Zuckerberg si è dimostrato evasivo e poco disposto a collaborare con i legislatori, rifiutando diverse convocazioni da parte di commissioni parlamentari.

 

Dallo scontro alla collaborazione

Le dimensioni dello scandalo e il danno d’immagine hanno, però, costretto Facebook a modificare la sua strategia di lungo corso. La posizione pubblica di Facebook, adesso, è che le leggi sono necessarie: la questione non è più se regolare o meno, ma quanto e come farlo. L’Unione, da “nemico da battere”, è diventata – almeno in pubblico – un possibile partner e addirittura un modello da seguire.

Il caso Cambridge Analytica, infatti, è emerso proprio nelle ultime fasi del dibattito sul GDPR. Questo è diventato, per molti attivisti e governi, un modello regolamentare sulla difesa della privacy. Cosa più sorprendente, lo stesso Zuckerberg ha ventilato la possibilità di adottare una politica sulla privacy ispirata al GDPR, più rigida dunque della legislazione in vigore in molti Paesi, tra cui gli USA.

Il gigante social, insomma, non può più permettersi di ignorare l’UE. Anzi, per evitare problemi in futuro, ha bisogno di farsi molti amici a Bruxelles. A questa nuova priorità risponde la nuova strategia di lobbying e comunicazione pubblica di Facebook, che dedica all’UE un’attenzione particolare. La nomina di Nick Clegg – ex vice primo ministro britannico e leader dei Liberal-democratici dal 2007 al 2015 – a vicepresidente per la comunicazione non è di certo casuale: risponde alla necessità di creare un ponte tra Facebook e Bruxelles e presentare l’azienda di Zuckerberg come un interlocutore serio e responsabile. Facebook non scappa più, ed è pronta a collaborare.

In parallelo, le spese di lobby dichiarate sono schizzate alle stelle. Nel 2016, l’azienda ha dichiarato poco più di 1 milione di euro. L’anno successivo erano saliti a 2.5 milioni e mezzo, e nel 2018 erano già 3.5 milioni. A marzo 2017, Facebook impiegava 10 lobbisti, di cui 4 accreditati in Parlamento; ora ne impiega 20 e ha 10 pass parlamentari. Per le elezioni europee di quest’anno, ha collaborato con l’Unione europea per contrastare l’influenza di attori esterni e garantire la trasparenza delle campagne elettorali.

 

Conclusioni: tra questioni economiche e geopolitiche

Certo, l’Unione europea è ormai un interlocutore fondamentale per tutti i soggetti economici esterni che intendano espandere le proprie attività in Europa, inclusi quelli dell’industria digitale. Ma le interazioni con quest’industria presentano dinamiche più complesse rispetto ad altri settori.

Tuttavia, l’UE non è sempre efficace quanto vorrebbe. Ne è un esempio proprio il GDPR, che avrebbe dovuto rivoluzionare le pratiche dei service providers online. In realtà, finora sono state comminate solo 82 sanzioni, e di queste solo 4 superano il milione di euro. Tra le aziende multate, però, c’è anche Google, condannata a pagare 50 milioni di euro dal garante per la privacy francese.

La Commissione von der Leyen non avrà vita facile. Il big tech è determinato a dare battaglia, tramite i propri lobbisti e la sua fitta rete di consulenti e associazioni. È anche possibile che questo confronto diventi un altro capitolo dello “scontro” transatlantico, soprattutto se Donald Trump sarà rieletto.

Il presidente USA non ha risparmiato attacchi a Vestager, dichiarando che la commissaria “odia gli Stati Uniti più di qualsiasi persona io abbia mai incontrato”. L’attacco faceva seguito all’annuncio di Vestager di indagare Google e altri “giganti” di Internet per pratiche commerciali scorrette. L’UE dovrà dunque muoversi in uno scenario molto delicato, in cui questioni tecnologiche, economiche e (geo)politiche saranno strettamente legate. Creare “un’Europa che protegge” i dati e la privacy dei cittadini potrebbe avere un prezzo – se non nella Silicon Valley, alla Casa Bianca.

 

 

Fonti e approfondimenti

Kayali, Laura, Facebook embraces regulation – reluctantly, Politico, 29/01/2019.

Corporate Europe Observatory, Lobby Planet Brussels. The Corporate Europe Observatory guide to the murky world of EU lobbying, 2017.

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Antypas, Ioannis, How non-EU actors are lobbying Brussels. Dw, 12/11/2018.

Dialer, D., & Richter, M. (Eds.). (2019), Lobbying in the European Union. Cham, Switzerland Springer.

Toplensky, Rochelle, Vestager revives dormant antitrust weapon against tech groups. Financial Times, 27/06/2019.

Khan, Mehreen, and Brunsden Jim, Brussels braced for EU trade and tech battles with US. Financial Times, 10/09/2019.

Heath, Ryan, Silicon Valley’s European Solution, Politico, 26/10/2018.

LobbyFacts, Facebook, aggiornato al 25 marzo 2019.

Thomas, David, Eprivacy Regulation continues to stall, but there’s hope? Iapp, 12/06/2019.

Berthélémy, Chloe, Captured states – e-Privacy Regulation victim of a ‘lobby onslaught’. EDRi, 23/05/2019.

Commissione europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale europeo e al Comitato delle Regioni. Strategia per il mercato unico digitale in Europa. Bruxelles, 06/05/2015. SWD(2015) 100 final.

Corporate Europe Observatory, Post-scandal Facebook: will the EU stop treating the tech giant as a trusted partner?, Corporate Europe Observatory, 21/05/2018.

Vergely, Antoine, Facebook’s increasing PR job in Brussels, VOXEUROPData Journalism Network, 10/04/2018.

Blaschke, Yannic, How the online tracking industry ‘informs’ policy makers, EDRi, 12/09/2018.

Gotev, Georgi, Trump takes aim at Vestager: ‘She hates the U.S.’Euractiv, 27/06/2019.

Enforcement Tracker, sito che tiene traccia di tutte le sentenze e sanzioni per violazioni del GDPR, divise per Stato membro.

 

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