Lo Spiegone Internazionale: intervista a Mônica Benício

Monica Benicio
@LoSpiegone

Durante il Festival di Internazionale abbiamo avuto l’occasione di parlare con Mônica Benício, “figlia del Maré, femminista, attivista e militante per i diritti umani” brasiliana. Mônica è anche la compagna di Marielle Franco, l’attivista e consigliera della città di Rio de Janeiro brutalmente uccisa un anno e mezzo fa. Nel nostro incontro abbiamo parlato di militanza, del ruolo del movimento femminista nel panorama politico internazionale, ma anche della battaglia di Mônica: portare nel mondo la lotta della sua compagna ed esigere la verità su quello che definisce un crimine politico chiedendo a gran voce “Chi ha fatto uccidere Marielle?”.

Essere donna, femminista, lesbica e anche un’attivista per i diritti umani è difficile, in alcune parti del mondo può essere mortale. Come spiegheresti perché lo fai?

Perché faccio tutto questo? Dovrei andare in terapia per risponderti! Credo di essermi identificata come attivista per i diritti umani a 17 anni, quando tramite una borsa di studio ho potuto vedere altri modi di vivere e ho cominciato a pensare che si dovesse lottare per una società più egualitaria e giusta.

Tutte le caratteristiche che hai elencato sono cose che fanno parte della mia personalità e della mia vita, mi compongono. Non posso smettere di essere donna e non lo farei se avessi la possibilità perché mi identifico come tale. Ma sono anche una donna lesbica e mi piace esserlo, non sceglierei altro se anche potessi. Sono nata e cresciuta in una delle favelas più violente di Rio De Janeiro (Marè) e questo fa parte di me al punto che per molto tempo ho banalizzato la violenza perché era l’unica cosa che conoscevo.

Una cosa che mi piace ripetere è che il corpo è la ferramenta politica più potente che abbiamo. Io non posso alzarmi dal letto e uscire di casa senza essere una donna, bianca, lesbica perché questo fa parte di me e quando colloco il mio corpo, così come è, nella società lo trasformo in ferramenta di resistenza politica. Per fare un esempio, in Brasile  molte persone si stanno riappropriando di termini originariamente dispregiativi per riferirsi alle donne lesbiche o agli uomini gay come “sapatão” o “deviados”. Io penso che rivendicarmi e identificarmi come sapatão sia un atto politico e infatti quando mi viene chiesto io mi definisco così, non lesbica. Se qualcuno per strada cerca di insultarmi chiamandomi sapatão, io ringrazio.

Infine, perché essere un’attivista in un Brasile che, letteralmente, vorrebbe distruggere o uccidere tutto ciò che il mio corpo rappresenta? Precisamente perché voglio essere resistenza, voglio trasformare questo Paese affinché non voglia più uccidere ciò che io rappresento e nessun corpo sai più distrutto.

Quindi, la resistenza politica è anche resistenza fisica. Qual è secondo te il ruolo del movimento femminista nell’opposizione a Bolsonaro? Ha più a che vedere con i corpi o con la cultura?

Credo entrambe le cose. Essere femminista in Brasile è molto complicato perché al momento il Paese è politicamente dominato da una classe dirigente che ha costruito strategicamente e storicamente il suo successo anche sulla criminalizzazione di alcune categorie di persone.

Nell’immaginario collettivo una femminista è una donna sciatta, che non cura la sua immagine e il suo corpo e non si conforma a tutto ciò che la società patriarcale identifica come femminile. Inoltre, il presidente del Brasile si comporta come se non fosse il presidente del quinto Paese al mondo per numero di femminicidi, continuando a dire in pubblico che una donna uccisa dal suo compagno non ha niente di diverso da un qualsiasi altro omicidio. Questo è solo un esempio di come la politica influenza le persone e legittima in un certo senso un processo di riproduzione della violenza. Di conseguenza, è molto difficile dialogare con una società che è portata a criminalizzare o, quantomeno, a non vedere con favore certe cose o persone, come le femministe.

Il movimento femminista oggi ha un ruolo fondamentale nella rivoluzione contro questo modello politico, non solo per la sua capacità di decostruire stereotipi e preconcetti, ma anche perché è l’unico movimento a poter accogliere le domande sociali che per molto tempo sono state collocate sui corpi, soprattutto delle donne, sotto forma di violenza.

In generale, la resistenza politica attuale è un momento di “riassegnazione di significato” nella lotta. Il femminismo ha vissuto molte fasi e trasformazioni e oggi deve essere attualizzato. Non possiamo più limitarci a parlare del diritto delle donne ad accedere al lavoro perché significherebbe non accorgersi che, per esempio, molte donne non hanno mai avuto la possibilità di scegliere di non lavorare, ma sono sempre state costrette a svendere il proprio corpo in occupazioni sottopagate per sopravvivere.

Ridare significato al movimento femminista significa non lasciare nessun corpo indietro, includendo anche le donne trans nel discorso. Chi pensa ancora di escluderle non solo perpetua una violenza, ma a mio avviso non può neanche essere definita femminista.

Il movimento femminista deve essere assolutamente anti-razzista, anti-lgbtfobico, ma anche eco-sistemico e anti-capitalista. Tutto questo deve essere inglobato nel movimento per essere all’altezza del fatto che se oggi è in corso una rivoluzione, questa non può che essere femminista.

Femminista e intersezionale, quindi?

Certo, penso che sia talmente basilare che a volte lo ometto ma invece devo parlarne. Credo, in effetti, che oggi ci troviamo in un’epoca dove l’ovvio debba essere esplicitato e spiegato. Questo semplicemente perché ciò che noi consideriamo ovvio può non esserlo per altri e dobbiamo avere la pazienza di spiegarlo. In ogni caso, credo che il movimento femminista abbia una forte capacità di trasformare la realtà e credo proprio che stia mettendo in atto una rivoluzione. Una rivoluzione che include tutti i corpi e tutte le vite, nella misura in cui questa è l’unica via per costruire una società più giusta e ugualitaria.

L’unico modo è far sì che tutte le persone si percepiscano come ferramenta politica e componente di una trasformazione più ampia.

Che ne pensi della rete delle femministe sudamericane e come si inserisce l’esperienza brasiliana in questo contesto?

Sono quasi certa che il movimento meglio articolato e gestito in Brasile sia quello femminista. In tutta l’America latina l’onda femminista è stata molto forte, basti pensare allo tsunami dei pañuelos verdi in Argentina per la lotta all’aborto legale. Esiste una rete anche simbolica nelle manifestazioni tra le varie esperienze e io sono molto entusiasta di questa forza. Credo che il movimento abbia davvero un ruolo fondamentale, in Brasile come nella Regione, e che si rafforzerà sempre più.

Che significa condividere l’amore nella lotta e nell’esperienza politica?

Amare è un atto di estremo coraggio. Bisogna essere coraggiosi per farlo, ma una volta messo in pratica si inizia la rivoluzione. La politica maggiormente diffusa al giorno d’oggi in tutto il mondo è una politica che non è umana e non serve al pianeta, una politica sottomessa al capitalismo che deve essere modificata prima che distrugga la società. In questo contesto fare politica con affetto, con amore, significa fare una rivoluzione. Una rivoluzione che è urgente iniziare.

Urgente anche perché la politica è dominata dalla violenza, soprattutto in Brasile…

Fare politica con odio, politica mediocre non è difficile. Bisogna avere coraggio per fare qualcosa di differente. Il governo brasiliano non ne ha e credo sia interessante come molte persone riescano a fidarsi di un uomo come Bolsonaro che non ha niente di coraggioso o ispiratore. Eppure, è stato eletto democraticamente, in elezioni questionabili e a tratti fraudolente, ma è stato eletto. Questo anche grazie al fatto che la politica dell’odio si basa sul trasferimento della responsabilità e noi dobbiamo chiederci come contrastare questo.

Qual è secondo te la migliore resistenza a tutto ciò?

Sembra banale parlare di “amore che cambia il mondo” e forse lo è, ma ti direi tramite questo. Quando parlo di amore non mi riferisco a un concetto romantico. Parlo di solidarietà, di rispetto, di ripensare il modo di vivere e stare nella società in maniera armonica. Essere empatici non è facile, soprattutto quando la vita è molto dura, ma è necessario. Quando dico che l’unica rivoluzione possibile è quella fatta con amore mi riferisco a un processo molto difficile in cui ciascuno deve mettersi in discussione e modificare la sua pratica politica. Amare una donna per me è un atto rivoluzionario e, ancora una volta, non c’è niente di romantico in questo. La rivoluzione sta nel fatto che le donne comprendono e percepiscono il mondo in un modo differente e sono più capaci di praticare empatia perché proprio sui corpi femminili si è concentrata storicamente la maggiore violenza del sistema, patriarcale e globale. In generale le persone riescono a mettere in pratica tutto ciò, la solidarietà e l’empatia, perché hanno le proprie esperienze di vita come forza motivazionale per la trasformazione.

Quali sono le prospettive per le indagini sulla morte di Marielle Franco? Sulla sua maglietta c’è scritto “Chi ha fatto uccidere Marielle”, lei che idea si è fatta?

Io mi sono fatta varie idee, ma non posso parlare solo di ciò che penso. La giustizia brasiliana deve spiegarmi e provare ciò che è successo. La campagna che ho lanciato, Quem mandou matar Marielle, è molto dura sotto diversi punti di vista. Io non voglio parlare di ciò che penso perché non voglio fare speculazioni e intralciare la giustizia, il mio unico impegno è quello di arrivare alla verità.

Le indagini sono in corso e sia l’autista che l’esecutore, entrambi accusati, sono in fase di processo. Io mi auguro che le responsabilità di ciascuno siano chiarite e che, chi deve, paghi per ciò che fatto. Ma in tutto ciò la domanda più importante non è ancora stata posta ufficialmente: oltre agli esecutori materiali, chi ha voluto l’uccisione di Marielle? Quali sono le motivazioni di questo crimine?

Lo Stato brasiliano deve rispondere a queste domande non a me, Mônica, in quanto compagna vedova di Marielle. Lo deve alla democrazia del Brasile, a tutta la popolazione brasiliana e anche alla comunità internazionale. Dobbiamo sapere. Quindi, la mia battaglia esula dal volere giustizia per la mia compagna perché onestamente, dovendo essere emotiva, non esiste giustizia per me perché nessuna risposta la riporterà da me. Ma posso lottare affinché chi ha voluto e fatto questo ne risponda.

Ci sono varie piste giudiziarie e tutte devono essere investigate e appurate in maniera seria e responsabile. Ieri, per esempio, tra le persone identificate e fermate per coinvolgimento nella distruzione dell’arma utilizzata nell’omicidio, è stato trovato un uomo che aveva svariati selfie con il presidente della Repubblica. E’ sicuramente una coincidenza, ma pretendo che sia investigata.

Quando il presidente Lula è stato incarcerato, il Pubblico Ministero dichiarò “non servono prove perché abbiamo convinzioni”. In un Paese in cui il presidente della Repubblica diventa un prigioniero politico, unico modo per permettere ad altri di essere eletti, per giunta senza prove, pretendo che le coincidenze siano investigate.

Cosa ci ha lasciato Marielle?

Molto lavoro, ma anche tante cose positive. Non so se questa espressione, lasciare, sia corretta. Posso assicurare che l’immagine di Marielle che oggi è riconosciuta internazionalmente non era la mia compagna. Quell’immagine è stata costruita collettivamente dalle tante persone che si sono sentite rappresentate dalle sue battaglie e che sono state profondamente colpite dalla violenza perpetuata contro di lei. Dalle persone che pensano che una società più giusta può essere costruita e che vogliono questa trasformazione sociale.

Ecco, credo che la cosa migliore che Marielle, non so se ci lascia, ma sicuramente ispira, è questa speranza che il mondo possa davvero essere migliore. Questa speranza che ci incoraggia nella resistenza.

Leave a comment

Your email address will not be published.


*