La difficile scommessa di Pedro el guapo

Dopo due elezioni in pochi mesi e quasi un anno senza un governo nel pieno delle sue funzioni, la situazione politica spagnola finalmente si sblocca e Pedro Sánchez torna a essere presidente del governo, per la prima volta dal 1936 alla guida di un governo di coalizione. Troppe, però, sono le incognite per dissipare i dubbi.

La cronaca

Le elezioni del 10 novembre avevano replicato sostanzialmente il risultato del 28 aprile, con una maggioranza relativa del Partito Socialista (PSOE), che non aveva però i numeri per governare nemmeno in alleanza con i populisti di sinistra di Podemos. Alla luce delle difficoltà perduranti in Catalogna e del fatto che lo scorso governo, guidato dallo stesso Sánchez, fosse caduto per un voto contrario sulla legge di bilancio proprio degli indipendentisti catalani, si era immaginato che i socialisti avrebbero alla fine formato una grande coalizione con il centrodestra del Partito Popolare. Sánchez ha però convintamente perseguito la difficile strada del governo progressista sostenuto dalle forze autonomiste e indipendentiste e, per il momento, ha avuto successo.

Il nuovo governo ha una maggioranza di soli due voti ed è sostenuto dagli autonomisti baschi del PNV, dai più vari e curiosi movimenti locali (tra cui spicca il deputato di un partito chiamato “Teruel existe”, nato per ricordarci la presenza dell’altrimenti dimenticabile cittadina aragonese) e, più controversamente, si regge sull’astensione degli indipendentisti catalani di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) e di EH Bildu, i successori del braccio politico dell’ETA, il disciolto movimento terrorista basco. Questa risicatissima maggioranza, oltre a rendere il governo fortemente ricattabile da parte di ogni singolo movimento autonomista, corre il rischio di collassare anche per incidenti di percorso, come la malattia o l’assenza improvvisa di un singolo deputato. Dal punto di vista parlamentare, la strada del nuovo governo Sánchez risulta dunque essere fortemente in salita. Tuttavia, il leader socialista punta forte sul suo ambizioso programma.

Le basi dell’accordo

All’indomani delle elezioni, il PSOE e Podemos hanno trovato un accordo di governo, con i due leader che hanno firmato un documento programmatico di 50 pagine. Tra i punti salienti dell’accordo c’è una decisa riforma fiscale, caratterizzata da pesanti tasse sui redditi più alti e per le grandi imprese. Le maggiori entrate finanzierebbero un deciso rialzo del salario minimo e altri ambiziosi programmi sociali, di cui nel governo si occuperebbe, almeno stando ai rumours, lo stesso Pablo Iglesias, leader di Podemos. L’accordo prevede inoltre la cancellazione delle norme di austerità sul diritto del lavoro introdotte dal governo conservatore di Rajoy per far fronte alla crisi, con l’obiettivo di dare maggiori tutele ai lavoratori. Altro punto molto importante è il femminismo, vero cavallo di battaglia del partito di Iglesias, che per questo ha addirittura cambiato nome in “Unidas Podemos”. Il governo si impegnerà dunque a favorire l’uguaglianza delle condizioni di lavoro e retribuzione tra i due sessi, a cambiare la legge sullo stupro, secondo lo slogan “solo un sì è un sì” e ad abbassare l’IVA per i prodotti di prima necessità per le donne.

I nomi del nuovo governo non sono ancora stati resi noti, ma è facile immaginarne uno molto ampio per dare voce a tutti i membri della maggioranza e con una folta rappresentanza femminile. È importante ricordare infatti che lo scorso governo Sánchez fu uno dei primi della storia mondiale formato da più donne che uomini. Non mancano tuttavia i nomi controversi, come Alberto Garzón, ex leader di Izquierda Unida (partito di estrema sinistra poi confluito in Podemos), e autore del saggio “Perché sono comunista”. Questa presenza, il cui ruolo è però ancora da definire, rischia di facilitare le accuse di estremismo che sta già subendo da più parti il governo.

Il nodo catalano

Tuttavia, la vera partita del governo si gioca in Catalogna. A livello ideologico, Esquerra Republicana de Catalunya è un partito progressista e affine a PSOE e Podemos, ma è dichiaratamente indipendentista. Vari suoi deputati hanno dichiarato che “non gli importa nulla della governabilità della Spagna” e che se Sánchez non farà presto delle vere concessioni in Catalogna, questo governo avrà vita breve come il precedente. Il leader di ERC, Oriol Junqueras, è in carcere condannato a 13 anni per l’organizzazione del referendum e la successiva dichiarazione d’indipendenza senza l’avallo di Madrid nel 2017. Una delle condizioni per il sostegno di ERC al governo era proprio la sua scarcerazione (Junqueras è stato anche eletto parlamentare europeo alle ultime elezioni, dunque godrebbe dell’immunità parlamentare), ma solo il 9 gennaio la Corte Suprema spagnola ha negato questa possibilità, rifiutando di dare seguito alle richieste di Parlamento e Corte di Giustizia Europea.

Sánchez ha promesso di aprire un tavolo di trattative con il governo regionale catalano, guidato dall’indipendentista Quim Torra, il quale però appartiene al partito di ispirazione liberale Junts per Catalunya, che ha negato il suo sostegno al governo. La richiesta degli indipendentisti catalani per ora è molto rigida: referendum sull’indipendenza. Se Podemos si è più volte dichiarato possibilista su questa ipotesi, il PSOE ha sempre mantenuto una linea di fedeltà allo Stato spagnolo e alla monarchia, respingendo fermamente questa possibilità. È probabile che alla fine le richieste da Barcellona si ammorbidiranno, ma è innegabile che per Sánchez, anche vista la situazione in Parlamento, lo scoglio catalano sarà difficilmente sormontabile.

Il disfattismo delle opposizioni

Le opposizioni di destra e centro-destra sono sul piede di guerra. Pablo Casado, leader del Partito Popolare, ha accusato Sánchez di vendere l’unità della Spagna per la propria ambizione personale. Il nuovo governo, inoltre, rischia di mettere a repentaglio le riforme dei governi popolari che hanno faticosamente fatto uscire la Spagna da anni di dura crisi. La destra di Vox usa toni ancora più duri e drammatici.

Paradossalmente, questo atteggiamento intransigente e catastrofista delle opposizioni potrebbe essere un vantaggio per Sánchez, che ha buon gioco ad accusare Casado di essere ormai succube di Vox e di giocare al “tanto peggio tanto meglio” per i propri fini elettorali. La scommessa del leader socialista è tanto ambiziosa quanto rischiosa: difficile che ci saranno esiti intermedi. Riuscirà “Pedro el guapo” a salvare l’unità della Spagna e a diventare la guida del nuovo socialismo europeo? L’alternativa rischia di essere uno scenario alla David Cameron, addio con ignominia a un altro enfant prodige della politica europea.

Fonti e approfondimenti

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