Il Consiglio europeo del 23 giugno scorso passerà alla storia per aver riconosciuto a Ucraina e Moldavia lo status ufficiale di Paese candidato per entrare a far parte dell’Unione europea. La portata della decisione presa dai leader europei è duplice: se da un lato l’approvazione della candidatura di Kiev (in ucraino Kyiv) a quattro mesi dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha un peso significativo, dall’altro molti osservatori hanno interpretato l’annuncio di Bruxelles come un segnale di rivitalizzazione generale della politica di allargamento dell’Unione. Le due cose camminano lungo binari paralleli, dato che il già lento processo di adesione dei precedenti Stati candidati e potenziali candidati è stato ulteriormente rallentato dallo scoppio del conflitto in Ucraina.
Per capire l’importanza del vertice del 23 giugno è sufficiente sapere che, poche ore prima che il Consiglio si riunisse, si è tenuto un incontro tra i leader europei e quelli dei Balcani occidentali, salutato dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel come un momento importante “per inviare un messaggio forte e chiaro” ai governi candidati all’ingresso nel “club europeo”. Ma la strada che porta a Bruxelles è tortuosa e piena di imprevisti: i criteri per poter essere accettati come nuovi membri sono molti e particolarmente severi. In aggiunta a riforme strutturali, sociali ed economiche, i Paesi candidati devono oggi far fronte all’insorgere di posizioni contrarie allo sblocco dei processi di adesione anche tra i leader più europeisti, come quella del presidente francese Macron. Infine, l’aggressione russa, che è stata sicuramente una spinta propulsiva per l’accettazione della domanda di Kiev, potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio.
L’allargamento europeo: dove eravamo rimasti
Il riconoscimento dello status di Paese candidato di Ucraina e Moldavia ha senza dubbio lanciato un segnale forte agli Stati dell’Europa orientale, attualmente minacciati dalla possibilità di un’aggressione armata russa. Non c’è dubbio infatti che, nonostante il via libera del Consiglio non sia garanzia di ingresso nell’UE, lo status di candidato sia considerato come una rassicurazione geopolitica da parte dei Paesi limitrofi. Se abbandoniamo la lente dell’attuale conflitto ucraino, infatti, noteremo che questa percezione non è una novità: la possibilità di passare dagli Accordi di Associazione (che l’Unione europea stipula con gli Stati limitrofi in varie aree per regolarne i rapporti, dal commercio alla ricerca scientifica) al riconoscimento dello status di candidato è da sempre al centro delle agende politiche di molti governi dei Paesi che aspirano a entrare nell’UE.
Quando lo scorso giugno Kiev e Chişinău sono diventati ufficialmente candidati all’ingresso, alcuni degli aspetti più problematici dell’allargamento europeo sono venuti a galla. In primo luogo, la posizione sempre più influente dei singoli Stati membri. Fino al 2004, anno del cosiddetto Big bang enlargement, infatti, era la Commissione ad avere il ruolo di attore principale: gli Stati si limitavano a esprimere un giudizio senza esercitare pressioni particolari.
La deriva autoritaria di alcuni dei Paesi entrati nell’UE nel 2004, primi fra tutti Ungheria e Polonia, il rafforzamento delle istanze portate avanti dai Paesi che fanno parte del cosiddetto Gruppo di Visegrad (che ha spesso ostacolato l’adozione di misure più progressiste in tema di stato di diritto, energie rinnovabili e diritti umani), unitamente alla crisi economica del 2008, hanno fatto crescere lo scontento tra i Paesi dell’Europa occidentale. In particolare, Francia, Danimarca e Paesi Bassi hanno assunto posizioni molto rigide nei confronti degli Stati già con lo status di candidato e quelli in lista d’attesa, appellandosi ai Criteri di Copenaghen, tre “regole” che tutti gli Stati devono tassativamente osservare per poter intraprendere l’iter di adesione così come indicato nell’articolo 49 del Trattato sull’Unione europea (TUE).
Il veto francese e altri ostacoli
Oltre a Ucraina e Moldavia, gli Stati che aspettano l’inizio degli accession talks sono Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia del Nord e Turchia. Nel caso dei Paesi balcanici, i tempi lunghissimi e lo stallo delle trattative hanno fatto crescere frustrazione e stanchezza. In Albania e Macedonia del Nord, l’incrociarsi dei veti francese e bulgaro (a causa di dissidi linguistico-culturali) ostacola l’avanzamento delle trattative da più di tre anni, nonostante sia Tirana che Skopje abbiano lavorato duramente per portare avanti riforme nel campo delle infrastrutture, della giustizia e del lavoro e Bruxelles si sia pronunciata a favore della loro adesione.
Parigi, anche prima dell’elezione di Macron nel 2017, si è sempre dimostrata diffidente nei confronti della politica di allargamento, supportando invece quella di vicinato (PEV), teorizzata nel 2004 proprio in corrispondenza del grande allargamento. La PEV si pone l’obiettivo di costruire rapporti stretti e funzionali in ambito economico, politico e culturale con gli Stati vicini dell’UE senza prospettive di adesione. Nel corso degli anni, e soprattutto a seguito dell’ondata di attentati terroristici rivendicati da membri o sostenitori dello Stato Islamico che a cavallo del 2015 hanno colpito con particolare violenza la Francia, l’Eliseo ha ribadito in modo più o meno velato il proprio scetticismo sull’ammissione degli Stati candidati alla membership europea.
A suggellare questa visione è arrivata una dichiarazione del presidente Macron, a pochi giorni dell’annuncio riguardante Ucraina e Moldavia, in cui sosteneva la necessità di rafforzare la cooperazione economica e strategica, senza alimentare la speranza di integrazione dei Paesi candidati. Una comunità politica europea, in cui questi Stati diventano partner e restano vicini, niente più.
Il rischio di un fallimento geopolitico
Non c’è dubbio che la posizione francese e la polarizzazione sempre più evidente in seno al Consiglio europeo depongano a sfavore di nuovi e vecchi candidati. L’Ucraina, flagellata dall’invasione russa, sa bene che il processo di integrazione potrebbe richiedere anni per portare a dei risultati. Al contempo, la Moldavia sa che dovrà affrontare delle istituzioni europee sempre più severe per quanto riguarda riforme e stabilità economica: le similitudini con i casi di Macedonia del Nord e Albania dopotutto sono chiare.
La proposta di Macron di trasformare la politica di allargamento in una comunità di partner strategici farebbe tramontare definitivamente le speranze di questi Paesi e di quelli che ancora aspettano il mero riconoscimento dello status di candidato, primi fra tutti Bosnia Erzegovina (che ha presentato la sua domanda nel 2016) e il Kosovo, i cui rapporti con Bruxelles poggiano su un accordo di stabilizzazione e associazione firmato nel 2016. Quest’ultimo punto si riallaccia inevitabilmente alle sorti dei talks con la Serbia, che ostacola qualsiasi progresso dei rapporti con Pristina visto che significherebbe un riconoscimento ufficiale del Kosovo da parte dell’Europa. Tra l’altro, Belgrado è legata a Mosca da rapporti politici, economici e storici, e potrebbe quindi scegliere di rallentare le trattative sulla sua adesione in seguito all’inasprirsi delle sanzioni europee contro la Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina.
Infine la Turchia, il cui processo di integrazione è stato da sempre il più complicato e ostacolato di tutti (anche questa volta, capofila la Francia), ha dimostrato di aver perso qualsiasi interesse nella ripresa delle trattative. Il regime sempre più autoritario del presidente Erdoğan ha alimentato posizioni antieuropeiste come strategia politica, nel tentativo di rafforzare l’identità nazionale e giustificare alcune scelte in ambito economico, come quella più recente di non innalzare i tassi di interesse a fronte dell’impennata di inflazione (come ha fatto invece la Banca centrale europea). Sebbene entrambe le parti rispolverino i voluminosi capitoli negoziali di tanto in tanto, Ankara e Bruxelles non sono mai state così lontane.
Impazienza e frustrazione nel caso di alcuni Stati candidati, disinteresse per altri, non giovano sicuramente alla rivitalizzazione del processo di allargamento, che rischia di arenarsi anche a causa delle differenti posizioni in seno alla stessa UE. Mentre la Commissione è molto impegnata su questo fronte, il Consiglio non sembra considerarlo una priorità. Lasciare immutata la situazione potrebbe avere l’effetto di aumentare l’instabilità sulle regioni interessate, con ripercussioni di natura politica ed economica anche per l’Unione europea.
Fonti e approfondimenti
Bergmann, Max, “The EU’s next big deal: Enlargement for treaty reform”, POLITICO, 2/08/2022.
Ferrari, Lorenzo, “Ue: si torna a parlare di allargamento ad est”, Osservatorio Balcani Caucaso, 10/03/2022.
Fruscione, Giorgio, “I rischi della sala d’attesa UE”, ISPI Balcani, 27/05/22.
Torino, Raffaele, “Ucraina e Moldova: un lungo percorso per arrivare all’Ue”, Affari Internazionali, 27/06/2022.
Toscano, Alberto, “L’Europa immaginata da Emmanuel Macron”, Affari Internazionali, 11/05/2022.
Editing a cura di Carolina Venco
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