Populismo a confronto: USA ed Europa

Donald Trump è stato definito un outsider, un personaggio nuovo, ma in realtà è solo l’ultimo protagonista di un’ampia ascesa del populismo nel mondo occidentale. Molti commentatori attribuiscono il successo del candidato repubblicano durante le primarie al suo carisma da show-man.  In realtà questo  è dipeso dal suo appello a quella stessa mentalità che ha favorito la crescita di istanze simili in Europa e che oggi crescono negli Stati Uniti.

Ciò che dice Trump non suona infatti nuovo alle orecchie di noi europei: quasi ogni paese del continente ha visto nascere un movimento populista negli ultimi decenni, solitamente all’opposizione ma a volte anche forza di governo, come in Ungheria. La diffusa forma attuale di populismo è nata in America sulla scia della grande depressione e poi si è diffusa in Europa negli anni ’70, manifestandosi all’inizio negli ambienti della destra radicale fino a fiorire anche a sinistra dopo la crisi finanziaria del 2008.

Per comprendere questo fenomeno ormai caratteristico del mondo occidentale dobbiamo partire dal principio: cos’è esattamente il populismo?

Dare un definizione onnicomprensiva di “populismo” non è possibile visto quanto si presentano diverse le espressioni di questo fenomeno, che tra l’altro dipende fortemente dal contesto e dal momento storico in cui si sviluppa. Moltissimi partiti e movimenti di opinione appartengono a questa categoria e spesso condividono ben poco l’uno con l’altro.

Che sia di destra, di sinistra o non polarizzato questo modo di fare politica sembra sempre nascere dal sospetto e dall’ostilità verso le istituzioni, le élite e le politiche mainstream. Per essere precisi, lo storico Michael Kazine lo definisce: “quel linguaggio utilizzato da chi concepisce le élite politiche come antidemocratiche e autoreferenziali e la popolazione ordinaria come portatrice di valori esclusivamente positivi, e cerca di mobilitare quest’ultima contro le prime”.

Una definizione del genere non è esaustiva e probabilmente non calza perfettamente ad un personaggio come Donald Trump, ma permette di trovare il nesso che lo collega alle forze oggi attive sul nostro continente. Il candidato alla Casa Bianca è del tutto simile nella retorica alle forze della cosiddetta destra radicale populista: paragonarlo a Hitler o altri dittatori del primo dopoguerra è una forzatura superficiale e macchiettistica, Donald Trump è un “collega” di personaggi come Le Pen, Orban e Hofer.

 La grande differenza tra il populismo di destra e di sinistra, scrive John Judis, nasce proprio dallo schema del “noi e loro” che è il fondamento di questo genere di politica. Se di solito a sinistra si tende a dividere il mondo in due gruppi generalizzati, la popolazione e l’élite corrotta che fa solo il proprio interesse, a destra lo schema ha tre attori. Personaggi come Trump o la Le Pen (o il nostrano Matteo Salvini) si ergono infatti a paladini del “popolo” contro le élite, che però oltre che di autoreferenzialità sono accusate di fare l’interesse di un determinato gruppo sociale odiato dagli stessi populisti.

Che siano gli immigrati, i musulmani, le minoranze etniche, i grandi attori economici, o i comunisti (durante la guerra fredda), nella retorica dello scontro del “noi e voi” si insinua spesso una componente xenofoba, intollerante o identitaria. L’analista politico Antonio Barroso descrive i sostenitori delle cosiddette destre radicali populiste come quelli di Donald Trump (con una punta di sciovinismo) come gli “sconfitti della globalizzazione”: declassati o esclusi dai recenti cambiamenti sociali e spaventati dalla perdita dell’identità nazionale.

Una differenza fondamentale tra il populismo americano e quello europeo è la permanenza: se negli USA queste istanze vengono fuori nelle campagne elettorali ma poi si riassorbono in fretta nella politica convenzionale, in Europa restano in forze per molti anni, favoriti dal sistema elettorale proporzionale e dai sistemi politici multipartito. Risulta difficile pensare che il movimento dei sostenitori di Donald Trump possa sopravvivere ad una sconfitta del suo leader, mentre molti partiti populisti europei sono in politica da decenni e non sembrano volerla abbandonare.

Nel nostro continente stiamo però assistendo anche ad un fenomeno diverso: nel sud dell’Europa l’attacco all’élite politica arriva da una sinistra populista. Se questa tendenza è marcata e dichiarata nei casi di Podemos e Syriza (per alcuni studiosi anche il Movimento 5 Stelle fa parte di questo gruppo) in realtà al momento si presenta come non polarizzata. Barroso descrive i sostenitori di questi gruppi come “più istruiti rispetto agli omologhi di destra, relativamente più favorevoli all’immigrazione ma delusi e spaventati dalla crisi economica“.

 A voler ricercare un movimento del genere  negli Stati Uniti si potrebbe pensare alla campagna per le primarie di Bernie Sanders, anche se le differenze sono sostanziali. Il senatore del Vermont propone politiche di responsabilizzazione delle banche, stretta sull’elusione fiscale delle multinazionali, allargamento del welfare e sistema fiscale progressivo, ma questo non deve passare come un semplice schema “noi contro l’élite economica”.

Richiedere queste politiche non configura esclusivamente una sterile logica dello scontro (sebbene alcuni suoi sostenitori potrebbero pensarlo), ma la richiesta di vere politiche di riduzione della disuguaglianza economica e il ritorno ad un paese più equo dopo la catastrofe neoliberista di fine secolo scorso. Alcune posizioni dei sostenitori di Sanders sono indubbiamente populiste, ma il movimento ha un solido retroterra che affonda nel socialismo democratico di stampo nordeuropeo.

Guardando alle presidenziali americane, così come ad alcune situazioni europee è lecito preoccuparsi. La verità è che il populismo propone, con un certo grado di approssimazione e malafede, soluzioni semplici e drastiche a problemi complessi, che una volta sottoposte a un vero giudizio di fattibilità scricchiolano pericolosamente. Questo modo di fare spiega anche il grande successo su internet della propaganda populista, fatta di slogan semplici e carichi emotivamente e soprattutto spiega come questi movimenti funzionino molto meglio quando sono all’opposizione rispetto a quando hanno incarichi di governo.

Un esempio di questa dinamica è Syriza. Il partito basò gran parte del suo successo elettorale del 2015 sulla frattura tra la popolazione e i partiti colpevoli di essersi “sottomessi” all’austerity europea ma, una volta chiamati a governare e trattare la rinegoziazione del debito pubblico, i suoi membri non riuscirono assolutamente a bloccare i processi ormai messi in moto negli anni precedenti.

Nei paesi in cui si vota con sistema maggioritario i partiti populisti sono sottorappresentati: l’UKIP inglese e il Front National francese hanno ottime percentuali di voto, ma sostanzialmente pochi o nessun seggio parlamentare. Questo non esclude però che abbiano un grande ascendente sulla vita politica dei loro paesi, basti pensare al Brexit.

Che vinca o meno le elezioni, quindi, la politica americana avrà a che fare con le istanze portate avanti da Donald Trump ancora per molto tempo. Se poi queste daranno nuova forza agli analoghi movimenti europei o per reazione consolideranno le altre forze politiche del continente sarà poi tutto da vedere.

Fonti e Approfondimenti

https://www.theguardian.com/politics/2016/oct/13/birth-of-populism-donald-trump

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2016-10-17/populism-march

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2016-10-06/trump-and-american-populism

http://fortune.com/2016/04/04/populist-parties-europe/

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