La società americana e il fallimento del melting pot: The DisUnited States of America

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Da più di un anno, ormai, gli occhi di tutto il mondo sono  puntati sugli Stati Uniti d’America: prima le elezioni, poi l’insediamento di Trump alla Casa Bianca e, infine, la forte ondata di mobilitazione che ha portato in piazza milioni di cittadini in risposta alla nuova presidenza. Certamente il dissenso non rappresenta una novità per la società americana, storicamente la culla del movimento per i diritti civili degli afroamericani e di quello femminista guidato da Betty Friedan negli anni Sessanta e Settanta.

Movimenti come Occupy Wall Street e Black lives matter sono soltanto manifestazioni più recenti di quella costante tensione sociale che, seppur spesso latente, da sempre caratterizza la democrazia statunitense: un Paese che alcuni studiosi definiscono addirittura come permanently unfinished, vista la continua mutazione del panorama demografico e sociale. La definizione di società americana è, quindi, un aspetto problematico che ha portato, nel corso del tempo, a diverse concezioni e soluzioni politiche.

Secondo la narrazione dominante, gli Stati Uniti d’America si fondano su una società pluralista, tollerante rispetto al dissenso e, soprattutto, multiculturale. Per lungo tempo la società americana è stata descritta tramite la metafora del melting pot.

Letteralmente “crogiolo”, l’espressione fa riferimento ad un particolare modello di società multietnica in cui dopo un certo tempo, segnato dal susseguirsi delle generazioni, le culture e le identità specifiche degli immigrati sarebbero destinate a fondersi con quelle del paese di accoglienza. In generale, quindi, il termine indica un amalgama di gruppi sociali, individui, religioni e culture molto diversificati tra loro (per ceto, appartenenza etnica e condizioni) che sono accumunati dal fatto di convivere all’interno della stessa area territoriale geografica e politica, generalmente uno Stato, e di doversi confrontare con la supposta identità nazionale legata a quest’ultimo.

Tuttavia, gli States rappresentano un caso ancora più peculiare poiché si tratta di una nazione fondata sull’unione di ex colonie aventi diverse origini nazionali (europee) e identità religiose. Si potrebbe, quindi, parlare di una “multiculturalità intrinseca”. A questo miscuglio iniziale si sono inoltre aggiunte le identità culturali dei vari immigrati, dando forma ad un impasto sociale complesso e, inevitabilmente, più incline al conflitto rispetto ad una società etnicamente omogenea, un elemento spesso trascurato quando si parla di multiculturalità.

 

In effetti, al termine melting pot si associa solitamente una visione eccessivamente ottimistica della società, ovvero l’immagine idealizzata di luogo di incontro e fusione di culture diverse a cui le identità minoritarie sono ammesse con eguali diritti. Tuttavia, il processo di fusione e commistione – indicato dalla parola melting – non riguarda il contenitore pot, ovvero la cultura dominante.  Nella società americana il pot è costituito dal modello societario occidentale di derivazione europea e la comunità bianca cosiddetta Wasp (White-AngloSaxon-Protestant) ne è la rappresentazione.

Questa contraddizione ha, tuttavia, delle conseguenze politiche.  L’idea di melting point non consiste soltanto in una metafora utilizzata per descrivere l’impianto sociale. Al contrario, si tratta di un concetto che può andare ad indirizzare i progetti di integrazione promossi all’interno di un contesto statale. Alla percezione di multiculturalità, molti Paesi rispondono, infatti, tramite l’implementazione di politiche di ingegneria sociale che tentano di gestire in modo ordinato la convivenza tra presupposti culturali diversi.

Nel caso degli Stati Uniti, l’immagine più aperta e ottimistica del melting pot nacque in risposta al fallimento del precedente progetto di integrazione fondato sul concetto di assimilazione. Quest’ultimo si diffuse tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo nel tentativo di gestire le consistenti ondate migratorie che investirono il paese dopo la fine della guerra civile. Il progetto di assimilazione puntava ad un’integrazione “perfetta” degli immigrati, ovvero ad annullare gli effetti della multiculturalità al fine di generalizzare le forme culturali dominanti. In riferimento a questo periodo si parla, pertanto, di americanizzazione degli immigrati, ai quali veniva imposto di rinunciare alla propria identità culturale in cambio dell’ottenimento di inclusione sociale nello stato di arrivo. Un elemento fondamentale era l’apprendimento della lingua inglese.

Tali progetti incontrarono, tuttavia, una forte resistenza: per decenni la vita sociale degli immigrati fu limitata al contatto con membri della stessa comunità, dal lavoro al matrimonio. Allo stesso modo, la presenza di quartieri definiti su base etnica in gran parte delle metropoli americane (“Little Italy”, “Chinatown” così come quartieri legati a specifiche identità nazionali o comunità linguistiche) testimonia il fallimento a cui sono destinati i progetti di integrazione che tentano di reprimere le rivendicazioni identitarie degli immigrati. È indubbio, infatti, che i movimenti sociali degli anni Sessanta siano da ricondurre anche al fallimento delle politiche guidate dal mito del melting pot e alla segregazione razziale che, almeno in parte, ne fu la conseguenza.

Non a caso durante gli anni Sessanta si diffuse una nuova metafora per descrivere il pluralismo della società americana: quella del salad bowl (insalatiera). Questa nuova immagine si focalizza sulla coesistenza di individui e gruppi sociali nelle proprie identità separate, così come gli ingredienti di un’insalata che – seppur mischiati – mantengono le proprie caratteristiche iniziali. Questa visione rappresenta la svolta verso il multiculturalismo, una narrazione nata agli inizi degli anni Settanta che descrive le differenze culturali in modo positivo.

Negli Stati Uniti questa svolta ha prodotto il riconoscimento formale di identità quali “europei americani”, “afroamericani”, “americani asiatici”, “latinoamericani” e alla diffusione di alcune affirmative actions, ovvero strumenti normativi volti a favorire l’uguaglianza sociale e a promuovere principi di equità razziale, etnica e sessuale attraverso sistemi di quote implicite.

Il 6 marzo 1961 il Presidente Kennedy varò, ad esempio, un ordine esecutivo (10925) secondo il quale le assunzioni non sarebbero state più dettate dal colore della pelle, liberandole da pregiudizi di tipo razziale. Provvedimenti simili, come l’accesso facilitato alle università per gli studenti afroamericani, sono stati tuttavia recentemente soppressi in favore di una retorica maggiormente color-blind (ovvero insensibile alle differenze razziali). In effetti, nonostante il nobile tentativo di favorire la mobilità sociale di etnie che hanno subito abusi o discriminazioni in passato, queste politiche hanno spesso prodotto effetti contrari. L’aumento di ostilità ed episodi di razzismo nei confronti della comunità afroamericana ne sono esempi. Ci basti pensare che, oggi, afro-americani e latini costituiscono circa il 30% della popolazione, ma rappresentano il 60% della popolazione carceraria.

Nonostante il mito del melting pot, razzismo e discriminazione sono ancora radicati nella società americana. Per quanto riguarda il peso dell’elemento razziale sull’identità dei cittadini statunitensi, ci basti osservare il seguente quesito, contenuto nel questionario che lo U.S. Census Bureau periodicamente sottopone ai cittadini. L’organo, parte del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, è incaricato di contare la popolazione almeno una volta ogni dieci anni in modo da poter determinare il numero di Deputati nel Congresso per ogni stato. Nel fare questo, l’organo raccoglie anche dati circa l’etnia degli abitanti, che hanno la possibilità di auto-definirsi tramite le possibilità riportate nell’immagine.

Sotto la domanda riguardante la race (in italiano meglio parlare di “etnia” piuttosto che di “razza”), viene specificato quanto questa variabile sia fondamentale per la redazione di leggi federali riguardanti i diritti civili e il diritto di voto, il monitoraggio di eventuali disparità razziali – soprattutto nei campi dell’occupazione, della sanità e dell’educazione – nonché per l’ottenimento di finanziamenti per i servizi pubblici. Ciò testimonia quanto la società americana sia sensibile al tema della diversità ma, allo stesso pone, il problema delle disparità su base razziale emerge come una questione irrisolta.

 

La società americana sembra ancora molto lontana dal raggiungere l’americanized racial identity (“identità etnica americanizzata”) auspicata dai progetti di integrazione.  I dati demografici non rispecchiano il mito di una società colorblind e i cittadini continuano ad utilizzare categorie etniche specifiche per auto-definirsi.

Secondo l’ultimo censimento (2010) gli Americani sono etnicamente molto più variegati rispetto al passato, soprattutto a causa di un ulteriore aumento dell’immigrazione. In particolare, Asia e America Latina si stanno progressivamente affermando, assieme all’Africa, come dominanti in termini di aree d’origine per quanto riguarda la popolazione nata all’estero.

Tuttavia, diversità etnico-culturale non significa mescolamento o convivenza pacifica in ogni caso. Secondo alcuni studi, la color line che divide la società americana tra neri e bianchi (e che ha caratterizzato la società americana fin dalle sue origini) sembra essersi addirittura inspessita negli ultimi anni. Allo stesso modo, i crimini d’odio nei confronti di latinos e immigrati provenienti dal Medio oriente sono addirittura in aumento rispetto al passato.

Effetto Trump? Troppo semplicistico nonché storicamente riduttivo. Sebbene per molto tempo osannata e osservata unicamente come fonte di crescita e ricchezza, la multiculturalità della società americana costituisce una questione decisamente problematica e inversamente proporzionale alla stabilità del paese.  La mancanza di politiche efficienti potrebbe essere determinante nel perpetrarne le profonde divisioni. Come afferma il sociologo Enzo Colombo “ogni relazione con la differenza è caratterizzata da variabilità, complessità e ambivalenza” e senza un impegno etico da parte delle istituzioni nel favorire non soltanto il riconoscimento degli esclusi, ma soprattutto il dialogo tra le parti, ogni soluzione politica risulterà iniqua e, quindi, controproducente alla creazione di coesione nazionale.

 

 

Fonti e Approfondimenti

VIDEO –  Racism is Real

Dati censimento 2010

Baraldi, C. (2013) La comunicazione nella società globale, Roma:Carocci

http://www.cronacheinternazionali.com/affirmative-action-negli-stati-uniti-uno-sguardo-al-mondo-accademico-1894

http://www.laweekly.com/news/in-the-era-of-trump-anti-latino-hate-crimes-jumped-69-in-la-7443401

photos.state.gov/libraries/korea/…/en_0111_immigration.pdf

 

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