Ricorda 1998: Il Belfast Agreement

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Lo Spiegone

Il 10 Aprile 2018 ricorre il ventennale dell’Accordo di Belfast, anche meglio conosciuto come l’Accordo del Venerdì Santo, concluso il 10 Aprile 1998. Dopo una lunga e complessa negoziazione, l’Accordo riuscì a porre fine al periodo di violenza che aveva caratterizzato l’Irlanda del Nord nei trent’anni precedenti. Ora, in periodo di Brexit, in molti si interrogano sulle conseguenze che essa avrà sugli Accordi e sulla situazione politica, economica e sociale dell’Irlanda del Nord.

The Troubles

Il termine “Troubles” si riferisce al violento conflitto nordirlandese, simbolicamente iniziato con la marcia per i diritti civili a Londonderry del 5 ottobre 1968 e finito con l’Accordo del Venerdì Santo del 10 Aprile 1998. Al centro dei Troubles vi era la contesa sullo status costituzionale dell’Irlanda del Nord. Da un lato, vi erano gli unionisti, ovvero la maggioranza della popolazione, prevalentemente protestante e al potere dal 1921 (anno della creazione dell’Irlanda del Nord), che intendeva rimanere all’interno del Regno Unito. Dall’altro, invece, si trovavano i nazionalisti, ovvero la minoranza cattolica, il cui obiettivo era riunificarsi con la Repubblica d’Irlanda (divenuta indipendente dal 1921).

Nel 1968, il Parlamento dell’Irlanda del Nord, che era stato dominato dagli unionisti da oltre cinquant’anni, tentò di risolvere alcuni problemi politici e sociali particolarmente delicati, come ad esempio la discriminazione contro la minoranza Cattolica, ma le misure vennero giudicate eccessive da gran parte degli unionisti e al tempo stesso insufficienti dai nazionalisti. Ciò generò tensioni crescenti, che infine scoppiarono in un violento conflitto tra le due comunità. Nel 1969, la situazione era talmente grave che le truppe britanniche furono costrette ad intervenire per ristabilire l’ordine. Nel 1972, le condizioni erano degenerate al punto che il Governo Britannico decise di sospendere il Parlamento dell’Irlanda del Nord per poi stabilire il controllo diretto sul territorio (il cosiddetto “direct rule“). Dopo essere stata per lungo tempo ai margini della scena politica britannica, l’Irlanda del Nord si impose al centro del dibattito pubblico.

Si aprì una fase chiamata la “lunga guerra” (“long war“), in cui i gruppi paramilitari di entrambe le parti si confrontarono duramente. Infatti, da una parte l’IRA (Irish Republican Army) non intendeva accettare alcun accordo che non prevedesse il ritiro delle truppe britanniche e la riunificazione dell’Irlanda, mentre dall’altra i gruppi lealisti costituiti dall’UDA (Ulster Defence Association) e dall’UVF (Ulster Volunteer Force) ricorsero alla forza per opporre resistenza alle forze paramilitari repubblicane e per impedire la riunificazione irlandese.

Il primo vero tentativo per ripristinare l’autogoverno dell’Irlanda del Nord e porre fine al direct rule fu costituito dall’Accordo di Sunningdale nel 1973, che prevedeva un esecutivo in cui il potere fosse condiviso tra le due comunità e un coinvolgimento dell’Irlanda negli affari interni del paese. Al tavolo di negoziazione parteciparono il governo britannico e quello irlandese e solo tre dei partiti presenti in Irlanda del Nord: Ulster Unionist Party (UUP) per gli unionisti; Social democratic and labour party (SDLP) per i nazionalisti; Alliance group come partito di centro. Il Democratic Unionist Party (DUP) si oppose all’accordo e non partecipò, mentre le rappresentanze politiche dei gruppi paramilitari non furono invitate. Purtroppo Sunningdale fallì, così come il successivo Irish-Anglo Agreement del 1985, poiché il sostegno politico interno all’Irlanda del Nord non era sufficiente per far reggere gli accordi in modo duraturo.

Solo nel 1994, l’IRA annunciò un cessate il fuoco ed entrambe le parti erano arrivate a capire che non si poteva porre fine al conflitto unicamente con mezzi militari. In quel periodo, Sinn Féin (la rappresentanza politica dell’IRA) aveva acquisito influenza politica e aveva iniziato ad assumere una posizione meno estrema sulla vicenda, guadagnandosi l’invito alla negoziazione.

I negoziati e l’accordo

La stanchezza degli anni di guerra e un rinnovato senso di realismo condussero le parti a sedersi al tavolo dei negoziati nei primi mesi del 1996. È importante sottolineare che in questa fase fu cruciale l’intervento da parte di attori esterni. Infatti, il Presidente americano Bill Clinton, particolarmente attivo e determinato nella risoluzione del conflitto, nominò il Senatore George Mitchell alla guida dei negoziati.

La presenza di Sinn Féin era sgradita a molti dei partiti unionisti. Il leader dell’UUP, David Trimble, acconsentì al coinvolgimento del partito nazionalista a patto che si impegnassero a ricorrere unicamente a mezzi pacifici e democratici, ovvero che l’IRA deponesse le armi. D’altro canto, anche i membri dell’UDA si rifiutarono inizialmente di prendere parte ai negoziati e solo l’intervento del Segretario di Stato britannico per l’Irlanda del Nord riuscì a convincerli a partecipare. Il DUP, invece, fu l’unico partito (insieme al minoritario UK Unionist Party) che si oppose fermamente all’invito di Sinn Féin, considerato inaccettabile, e i suoi esponenti abbandonarono la discussione.

Ulteriori episodi di violenza da parte dell’IRA e dell’UDA all’inizio del 1998 costarono l’esclusione di Sinn Féin e dell’Ulster Democratic Party (UDP), il partito rappresentante dell’UDA. Si era di nuovo in una situazione di stallo e fu allora che Tony Blair per il governo britannico e Bertie Ahern per quello irlandese decisero di prendere attivamente parte ai negoziati per raggiungere finalmente un accordo.

Dopo le dovute rassicurazioni da parte di Blair a Trimble riguardo allo smantellamento militare dei gruppi armati, il 10 aprile 1998, il giorno del Venerdì Santo, le parti firmarono l’Accordo di Belfast. Tutti gli attori coinvolti sostennero il cosiddetto “principio del consenso“, secondo cui ogni cambiamento dello status costituzionale dell’Irlanda del Nord (ovvero una eventuale futura riunificazione) sarebbe avvenuta solo se la maggioranza della popolazione avesse votato a favore in un referendum che si sarebbe svolto da entrambe le parti dell’isola. L’Accordo prevedeva la nascita di una nuova Assemblea parlamentare con un Esecutivo di power-sharing, una nuova istituzione transfrontaliera e un organismo istituzionale che legasse Dublino e Westminster. La Repubblica d’Irlanda, da parte sua, emendò la propria costituzione rinunciando alle rivendicazioni dei territori delle sei contee dell’Irlanda del Nord. Il documento conteneva, inoltre, proposte sullo smantellamento dei corpi paramilitari, sulla riforma della polizia e sul rilascio dei prigionieri di guerra.

I referenda di ratifica si tennero il 22 maggio 1998. In Irlanda del Nord, 676,966 persone votarono a favore dell’Accordo, mentre 274,879 votarono contro. Il “Sì” vinse con il 71.12% dei voti e l’affluenza raggiunse un record dell’81.10%. Nella Repubblica d’Irlanda, il “Sì” raggiunse il 94.39%, con 1,442,583 persone che votarono a favore e 85,748 contro.

Nonostante l’Accordo di Belfast costituisse un momento storico per la storia dell’Irlanda del Nord, i problemi non erano finiti. Nella fase immediatamente successiva all’insediamento della nuova Assemblea, si aprirono nuovi contenziosi riguardo a questioni come la riforma della polizia, l’utilizzo dei simboli nazionali e lo smantellamento dei gruppi paramilitari. Inoltre, alcuni dissidenti paramilitari si macchiarono di ulteriori attacchi violenti, portando all’uccisione di decine di persone. Nel 2002, alla quarta sospensione dell’esecutivo, il direct rule fu di nuovo applicato e rimase in vigore fino al 2007, quando si tennero nuove elezioni e l’Assemblea tornò a lavorare regolarmente. A quasi dieci anni dalla firma dell’Accordo, la nuova compagine politica dell’Assemblea era totalmente mutata, con un esecutivo formato da DUP e Sinn Féin, prima considerate le frange estreme.

 Tra Brexit e incertezze

Negli ultimi due anni, la situazione politica in Irlanda del Nord si è fatta di nuovo delicata. Oltre all’esito della Brexit (referendum in cui la maggioranza del paese si era espresso per il remain), nel 2017 si è aggiunto anche il cosiddetto “Stormont deadlock”. Dopo uno scandalo riguardo a un piano sulle energie rinnovabili che andava massicciamente oltre il budget, Sinn Féin si è ritirato dall’esecutivo e da allora non si è riusciti a ripristinare il power-sharing. Inoltre, la contesa sul riconoscimento del gaelico come lingua ufficiale, considerata una concessione eccessiva nei confronti dei nazionalisti, ha ulteriormente complicato la situazione.

In una condizione di politica interna decisamente delicata, l’Accordo del Venerdì Santo è tornato al centro del dibattito. In particolare, alcuni politici britannici si sono mostrati molto critici a tal punto da proporre di abbandonare l’Accordo. Tuttavia ciò non sorprende se si considera che tali politici sono fortemente euroscettici e che quindi tali affermazioni sono mosse dalla paura che la discussione sul confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda possa rendere difficile proseguire nel percorso verso l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Da parte sua, l’UE ha fin da subito sottolineato che l’Irlanda del Nord e la questione relativa al confine erano di primaria importanza per la prosecuzione dei negoziati e che la soluzione migliore sarebbe che il Paese rimanesse all’interno dell’Unione Doganale. Questa ipotesi potrebbe significare principalmente tre cose:

  • L’Irlanda del Nord potrebbe rimanere nell’Unione Doganale, mentre il resto del Regno Unito ne uscirebbe, provocando un rafforzamento del legame tra l’economia dell’Irlanda del Nord e della Repubblica d’Irlanda e favorendo le posizioni nazionaliste;
  • L’UE potrebbe tirarsi indietro e accettare l’ipotesi di un “hard border” tra i due paesi, favorendo le posizioni unioniste ma rischiando di suscitare la rabbia dei nazionalisti;
  • L’intero Regno Unito potrebbe rimanere nell’Unione Doganal, ed eventualmente anche nel Mercato Unico, mantenendo lo status quo di entrambe le comunità ma scatenando l’opposizione di politici ed elettori pro-Brexit, portando forse alla caduta del governo May (peraltro retto dai parlamentari del DUP).

Per questo motivo alcuni politici pro-Brexit si sono scagliati contro l’Accordo di Belfast, perché temono che la necessità di bilanciare le esigenze delle due comunità porterà il Regno Unito a rimanere nell’Unione Doganale, sminuendo la portata dell’esito del Referendum. Al momento, l’UE e il Regno Unito pare abbiano raggiunto un accordo, seppur interpretato differentemente da entrambe le parti. Infatti, se l’UE considera implicito che l’Irlanda del Nord rimanga nell’Unione Doganale o nel Mercato Unico, il Regno Unito invece spera che nuovi sviluppi possano evitare tale soluzione (senza spiegare come evitarlo).

È difficile predire cosa succederà effettivamente, perché ogni possibile scenario andrebbe contro le posizioni politiche di una delle due comunità. Se l’Irlanda del Nord effettivamente rimanesse nell’Unione Doganale e il resto del Regno Unito ne uscisse, gli unionisti sarebbero scontenti. Se essi decidessero di accettarlo, probabilmente lo farebbero solo grazie a importanti concessioni a loro beneficio, alle quali i nazionalisti non acconsentirebbero facilmente. Nonostante ciò, ogni ipotesi pare migliore di dividere l’isola con un hard border, poiché significherebbe rischiare di far tornare nuovamente il caos in Irlanda del Nord e rendere vano l’Accordo di Belfast.

 

Fonti e Approfondimenti

Mulholland, Marc. Northern Ireland. A very short introduction. Oxford: Oxford University Press, 2002.

https://www.foreignaffairs.com/articles/ireland/2018-03-29/northern-irelands-brexit-problem?cid=nlc-fa_fatoday-20180329

http://www.bbc.co.uk/history/events/good_friday_agreement

http://www.bbc.co.uk/history/histories/troubles

http://www.bbc.com/news/uk-northern-ireland-politics-41723268

 

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