L’altra metà del cielo: il matriarcato del popolo Moso in Cina

@Rod Waddington - Flickr - CC-BY-SA 2.0

Dopo il popolo Khasi dell’India, in questo articolo approfondiremo la storia e la cultura matriarcale della popolazione Moso, nella Cina sudoccidentale. Circa 30.000 di loro vivono nella provincia dello Yunnan, mentre 10.000 risiedono nel Sichuan. Già tra 600 e 900 d.C., negli annali delle dinastie Sui e Tang veniva menzionato un “Paese delle Donne” (Nü Guo) presente nella zona, governato da regine e ministre.

Il confine fra le due regioni passa attraverso il Lago Lugu, a 2700 metri sopra il livello del mare. La popolazione Moso (che si autodefinisce Na, letteralmente “nera”) vive sul lago, sulle montagne circostanti e vicino alla valle di Yongning. Dagli anni ’90 del secolo scorso, la zona è diventata meta di antropologi e turisti, cinesi e stranieri, attratti tanto dal mistero che aleggia intorno a questa popolazione quanto dall’incredibile bellezza del paesaggio.

Come il popolo Khasi, anche quello Moso è di origine tibetano-birmana e costituisce quello che resta, al giorno d’oggi, dei popoli matriarcali che vivevano lì prima dell’arrivo dei cinesi Han. A causa della loro pelle scura e delle loro pratiche culturali, le persone appartenenti a questo popolo indigeno sono state degradate dalla storia come “barbare nere”. Quella Moso, infatti, rientra fra le 800 tribù (per un totale di 15 milioni di persone) in Cina etichettate in maniera Han-centrica come “culture marginali”.

La struttura matriarcale tradizionale

Fino agli anni ’90, le famiglie moso sono sempre state matriarcali in senso classico: totalmente matrilineari e matrilocali. La dabu, la matriarca, viene eletta fra le donne più capaci all’interno del gruppo di sorelle del clan che hanno fra i 40 e i 65 anni (anche se può capitare che venga scelta una donna più giovane). Con “donna capace”, i Moso intendono quella che sa prendersi meglio cura degli altri.

La dabu organizza il lavoro agricolo, distribuisce il cibo, gestisce la proprietà comune e le spese del clan, si occupa degli ospiti ed è la sacerdotessa della casa nelle cerimonie di famiglia. Non ha privilegi sociali, perché contravverrebbe al principio di uguaglianza che sta alla vera base di questo tipo di società. Infatti, lavora duramente come gli altri membri del clan, con cui discute le questioni più importanti su cui non può prendere decisioni unilaterali. Il costume tradizionale della donna moso (oggi usato solo in occasioni particolari) è carico di simboli, con gonne lunghe fino ai piedi e fusciacche. I colori esprimono le fasi della vita in cui si trova la donna: da ragazza, ha la gonna bianca e la giacca rossa; quando diventa madre, ha la gonna bianca e la giacca nera; da anziana, indossa una veste scura che rispecchia la sua responsabilità e dignità. La dabu si riconosce dai colori scuri in totale contrasto con il copricapo fucsia o rosso.

Di solito, il siri (“dalla stessa radice”, ossia il clan della madre) è composto da 12 a 20 persone, che vivono tutte sotto lo stesso tetto. Al centro della stanza principale (zumu fangzi) è collocato il focolare, dove vengono adorati gli antenati e dormono le donne anziane con i bambini. Le ragazze hanno diritto a una stanza singola, la “camera dei fiori” (hua lou), dove la notte possono ricevere il proprio innamorato, detto azhu. I ragazzi, invece, molto spesso dormono in una camera in comune.

Le relazioni amorose possono essere di due tipi: incontri segreti (nana sese, nel dialetto locale), oppure il tipico “matrimonio di visita” matriarcale (zouhun, in cinese), con cui vengono ufficializzati i rapporti più stabili in presenza della dabu e di qualche altro anziano del villaggio. In ogni caso, nelle questioni d’amore, vige la discrezione: è sempre l’uomo ad andare a trovare la sua compagna durante la notte, mai il contrario, e deve andarsene perentoriamente prima del risveglio dei famigliari dell’amata all’alba. Esiste anche l’antica usanza del “matrimonio di gruppo”, stretto fra un gruppo di sorelle proveniente da un clan e un gruppo di fratelli proveniente da un altro. Nella terminologia matriarcale, i giovani di un clan sono tutti “fratelli e sorelle”, anche se magari nella sostanza sono cugini con madri diverse.

La parentela, quindi, nasce da un matrimonio incrociato strettamente regolato, ma i giovani possono intrecciare tutte le relazioni che vogliono, e gli adulti non hanno voce in capitolo in queste decisioni. Il termine “sposo” nella cultura moso non esiste. Stringere un’unione è molto facile (basta uno scambio di doni durante una festa danzante) così come lo è interromperla: la ragazza rifiuta al ragazzo l’ingresso nella propria camera, oppure lui smette di visitarla spontaneamente. I partner non hanno né diritti né doveri.

Infatti, la responsabilità di mutuo aiuto per crescere i bambini nati da queste relazioni spetta sempre ai membri dello stesso siri, non alle persone legate da matrimonio. Il fratello della madre (detto awu, che in lingua nativa vuol dire sia “zio” che “papà”) risulta essere il parente maschio più vicino ai suoi figli e ne è corresponsabile. Il padre biologico non ha responsabilità verso la propria prole, ma ciò non gli vieta di intrecciare con essa delle relazioni affettive. Se in una famiglia mancano delle figlie, queste possono essere adottate da un clan distante. Se mancano invece dei figli, gli azhu possono trasferirsi temporaneamente per dare una mano nei campi.

Quando un azhu risiede per molto tempo nella casa del clan della propria partner e inizia a voler essere parte attiva nell’educazione dei bambini identificati come propri (che quindi prendono il nome di entrambi i clan dei genitori) può succedere che si formi la cosiddetta “famiglia coesistente”, una forma transitoria di clan matriarcale dove convivono forme sia matrilineari che patrilineari. Questo, però, non stravolge affatto la struttura matriarcale del clan. Patrilinearità non significa necessariamente patriarcato.

Una società egualitaria

La cultura moso riconosce valore a uomini e donne in egual misura. Tutti i componenti della famiglia hanno la stessa voce in capitolo nelle decisioni all’interno del siri. Infatti, grazie alla “pratica del consenso”, l’opinione di ogni persona viene ascoltata per far sì che la decisione finale lasci tutti soddisfatti. Gli uomini delegano alle donne il compito di amministrare i beni e le proprietà, oltre che alcuni riti sacri.

Per questo motivo, si può parlare di complementarità di genere all’interno dell’unità famigliare, che si mantiene tramite legami matrilineari piuttosto che coniugali. Il dominio maschile, nella tradizione moso, è del tutto assente.

Le donne moso oggi, fra turismo sessuale e stereotipi

Con l’avvento della Rivoluzione Culturale in Cina (1966-76), le Guardie Rosse arrivarono al Lago Lugu e nelle altre zone abitate dal popolo Moso recando l’obbligo del matrimonio monogamo e della patrilocalità per tutte le coppie, “ufficiali” e non. Le terre vennero ridistribuite a partire dalla residenza dell’uomo. I costumi moso erano, già da tempo, considerati promiscui e licenziosi dal governo centrale, che desiderava aiutarli a “evolversi” come i “fratelli Han”.

Nelle regioni moso, quindi, fu il caos: innanzitutto, perché le proprietà non venivano mai divise, se non per fondare una nuova famiglia matrilineare; poi, perché sposarsi e andare a vivere con la famiglia del marito, insieme a degli estranei, era inconcepibile per le donne moso. Tanto che quasi tutti i matrimoni istituzionalizzati in quegli anni vennero sciolti con la morte di Mao nel 1976, e chi aveva lasciato la casa materna vi fece ritorno.

Oggi, la maggior parte delle famiglie vive ancora in clan matriarcali assolutamente matrilineari, mentre altre vivono in lignaggi in cui coesistono sia la matrilinearità che la patrilinearità. Esiste solo una piccola minoranza di famiglie patriarcali, sviluppatasi sotto l’influenza del feudalesimo cinese. Queste famiglie sono rimaste a vivere in piccoli gruppi monogami isolati, detti yishe, ancora oggi invisi alla maggior parte della popolazione Moso. Anzi, anche all’interno di queste rare strutture patriarcali c’è una chiara tendenza a tornare verso il matriarcato nel giro di due o più generazioni, soprattutto se nascono molte figlie. Lo yishe si trasforma nella coesistenza di più siri, che si riuniscono in varie circostanze per riformare un clan totalmente matriarcale.

Inoltre, le usanze moso considerate “caotiche” in epoca maoista sono diventate il punto di forza delle politiche governative in materia di turismo. Pechino ha rivalutato le differenze culturali come risorsa economica, puntando proprio sullo sviluppo delle aree abitate da minoranze etniche per renderle più accessibili ai turisti. Da diverso tempo ormai, milioni di viaggiatori (perlopiù) cinesi decidono, ogni anno, di visitare i villaggi sulle coste del Lago Lugu.

Oltre agli splendidi paesaggi, le attrazioni turistiche sono le più varie: le danze tradizionali serali intorno al fuoco, il giro in barca sulle canoe locali, i negozi di souvenir, i ristorantini di piatti tipici. E lo zouhun, dal momento che questa pratica è stata ampiamente pubblicizzata dalle agenzie di viaggio come uno “stile di vita all’insegna dell’amore libero”, creando confusione e pregiudizi. Molti uomini Han arrivano nella zona convinti che le donne moso siano di “facili costumi”, e che sia quindi altrettanto facile ottenere da loro delle prestazioni sessuali, anche a pagamento.

Infatti, uno dei principali effetti negativi dell’apertura al turismo, è stata proprio l’introduzione della prostituzione. Nella zona del Lago era stata creata una vera e propria zona a luci rosse, smantellata dalle autorità nel 2004. Non che questo abbia posto fine al fenomeno, che prosegue in maniera più discreta.

Anche i mass media occidentali giocano la loro buona parte nel diffondere stereotipi sulla popolazione Moso, che abita “il Paese in cui comandano le donne” dove “gli uomini occupano un ruolo marginale”. Viene descritta come un gruppo minoritario “seducente ed erotico” a causa dello zouhun, che per loro è semplicemente una pratica che garantisce l’unità familiare in quanto mantiene figli, beni e proprietà all’interno della stessa famiglia estesa in caso di separazione dei partner.

Utilizzando il termine “matriarcato” come equipollente di “patriarcato”, la grande importanza riconosciuta alla donna finisce per essere strumentalizzata. La stessa figura della dabu, ad esempio, viene presentata spesso come “capo-famiglia”, oscurandone una sfumatura fondamentale: più che al vertice del clan, la dabu, la donna si trova al centro di esso.

Una cultura in pericolo

Se è indubbio che la società moso ha iniziato a cambiare con il comunismo maoista e l’apertura economica cinese degli anni ’80, è stato l’avvento del turismo domestico di massa degli anni ’90 che ha dato il colpo di grazia alla struttura matriarcale pura di questo popolo indigeno.

La nuova economia basata sul turismo ha portato alla popolazione Moso molti benefici, come infrastrutture potenziate, acqua corrente e servizi igienici nelle case, e la possibilità di studiare per le nuove generazioni. Ma con essi sono giunti anche i nuovi pericoli dell’inquinamento ambientale, del divario economico fra i villaggi lacustri e quelli dell’entroterra e del rischio di omologazione culturale alla maggioranza Han. Il futuro è quanto mai incerto.

 

Fonti e approfondimenti

Goettner-Abendroth, H., “Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo.”, Venexia, Roma, 2013.

Walsh, E., R., “From Nü Guo to Nü’er Guo. Negotiating Desire in the Land of the Mosuo.”, Modern China, Vol. 31 No. 4, October 2005 448-486, DOI: 10.1177/0097700405279243, Sage Publications.

Renda, S., “Difendere il lago madre fino alla morte. Etnografia dell’incontro turistico nei villaggi Mosuo del Lago Lugu.”, Università Ca’ Foscari Venezia, A.A. 2013/14.

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