Islam Insight: il Salafismo

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

“Il salafismo ha una brutta reputazione”. Inizia così il libro di Joas Wagemakers sui salafiti in Giordania. L’accademico evidenzia come nel discorso pubblico, soprattutto all’indomani del 2001, l’accostamento tra salafismo e violenza jihadista sia diventato predominante. L’attenzione mediatica alla minaccia posta dal fondamentalismo ideologico e dalla brutalità di gruppi come al Qaeda e ISIS ha appiattito la rappresentazione del salafismo sul trend jihadista, trascurando spesso il fatto che solo una piccola minoranza dei salafiti abbraccia l’attivismo politico e, in alcuni casi, la violenza.

Un’analisi più dettagliata rivela, infatti, come il fenomeno sia ben più complesso e sfaccettato.

Definizione e ideologia

La difficoltà di inquadrare il salafismo è evidente già nel momento in cui si tenta di darne una definizione. Alcuni l’hanno descritto come una corrente di pensiero, una chiave di lettura della religione e della giurisprudenza islamica. Altri, tra cui Wagemakers stesso, come un movimento, inserendolo tra i cosiddetti “movimenti utopici”, che si sviluppano cioè attorno a un’utopia, alla volontà di ricreare “un posto ideale”.

L’ideologia salafita è ispirata infatti a un’idealizzazione del primo periodo dell’Islam. La parola salafismo traduce l’arabo al-salafiyya, ossia “ciò che è connesso ai predecessori”, o Salaf al-Salih, “gli antenati pii”. Il riferimento è alle prime tre generazioni di musulmani, di cui è necessario seguire l’esempio per ripristinare la purezza dell’Islam. Ciò che contraddistingue i salafiti è, dunque, un comune nucleo ideologico (aqida), anche se il modo (manhaj) di applicarlo alla vita di tutti i giorni non è uniforme e dà vita, nella pratica, a forme molto diverse di salafismo.

Il concetto cardine dell’aqida salafita è il tawhid, cioè l’unità di Dio professata nella confessione di fede islamica (shahada): “non c’è altro Dio all’infuori di Dio e Maometto è il suo messaggero”. L’unità di Dio per i salafiti implica, innanzitutto, l’esclusione di qualunque forma di politeismo (shirk), inclusa la venerazione di santi come nel sufismo o degli imam come nello sciismo. È impossibile, poi, attribuire le caratteristiche divine a qualunque altra creatura, in quanto Dio è unico e inimitabile. Questa, nell’ottica salafita, può essere l’unica e più pura forma di Islam.

Per preservare questa purezza è necessario eliminare qualunque innovazione (bida’) e sincretismo religioso: bisogna obbedire senza innovare. I salafiti rigettano, quindi, qualunque approccio razionalista alle fonti religiose e, tranne nel caso del wahhabismo, l’esistenza stessa delle scuole giuridiche: se il Corano e la Sunna contengono già le linee guida per vivere rettamente, basta seguirli alla lettera, non è necessario nessun intermediario né ragionamento o analogia. Allo stesso modo, qualunque influenza da parte di non musulmani o deviazione dall’ortodossia sunnita deve essere stigmatizzata ed evitata.

Questo rigorismo, che si manifesta anche nel modo di vestire e, in alcuni casi, nella predilezione per l’arabo classico, ha contribuito a isolare i salafiti nella società e ad animare la loro convinzione di essere in qualche modo l’eccezione rispetto a una maggioranza corrotta. Questo esclusivismo è giustificato alla luce del versetto coranico per cui “la ummah islamica verrà divisa in 73 sette e di queste tutte, eccetto una, andranno all’inferno e questa è quella che seguirà me (Maometto) e i miei compagni”. I salafiti incarnerebbero dunque la firqa al-najiyya, l’unica tra le 73 sette a essere destinata alla salvezza.

Sviluppo dell’ideologia salafita

Nonostante la pretesa isolazionista del salafismo, quest’ultimo è emerso e si è sviluppato nel tempo in risposta agli stimoli del contesto sociale, politico e culturale circostante.

Le radici dell’ideologia salafita sono da rintracciare alla fine del periodo abbaside (VIII secolo d.C.), nel dibattito che divise l’ormai estinta setta della Mu’tazila e i seguaci del giurista Ahmed bin Hanbal sulla natura della rivelazione coranica. Per i primi, passati alla storia come Ahl al-Ra’y, il Corano era di matrice umana e da intendere in senso metaforico; per i secondi, Ahl al- Hadith era assolutamente divino, il che ne rendeva possibile solo un’interpretazione letterale. Tra il 1263 e il 1328, poi, emerse un’altra figura chiave nell’elaborazione del salafismo, Ibn Taymiyya, che predicò l’epurazione dell’Islam dalle distorsioni introdotte durante le conquiste arabe, quando il credo si arricchì delle pratiche e delle tradizioni religiose dei popoli conquistati.

Tuttavia, è solo tra XVIII e XIX secolo che vengono gettate le basi del salafismo moderno da Mohammed Bin Abdel Wahhab. Il Wahhabismo fu alla base del processo di costruzione del regno saudita e riflesse la divisione dei compiti tra gli al-Saud e Abdel Wahhab. Dal punto di vista politico, infatti, il Wahhabismo difese il rispetto dell’autorità regnante e il rifiuto di qualunque attività politica come una distrazione dal perfezionamento spirituale. In cambio della propria lealtà alla monarchia, il corpo clericale assunse un crescente controllo su educazione e materie sociali.

Tra XIX e XX secolo, in risposta alla minaccia coloniale, si affermò brevemente anche una corrente salafita di stampo modernista e nazionalista. Intellettuali come Jamal al-Din al-Afghani (1839–1897), Muhammad Abduh (1849–1905) e Rashid Rida (1865–1935) videro nel rinnovamento della società in senso islamico l’unico modo per controbilanciare l’influenza occidentale. Tuttavia, l’affiliazione di questi al salafismo non è accettata in modo unanime, soprattutto per l’impronta razionalista e la tendenza ad abbracciare la modernità e il progresso di questi intellettuali, sebbene attraverso il filtro di una purificazione in senso islamico.

Negli anni Sessanta il boom petrolifero e l’affermazione dell’ideologia panaraba e secolare sponsorizzata da Nasser spinsero il regime saudita a investire cospicue somme di denaro nella diffusione del Wahhabismo oltre i confini del regno. Nel 1961, i sauditi fondarono l’università islamica di Medina e la Muslim World League nel 1962 e, dopo il 1967, quando il mito nasseriano cadde con la sconfitta nella Guerra dei sei giorni, cercarono di capitalizzare il vuoto di potere lasciato dal leader egiziano ergendosi a custodi dell’Islam sunnita.

La predominanza del salafismo wahhabita venne però messa in discussione a partire dagli anni Settanta, nonostante l’aumento dei fondi sauditi destinati alle istituzioni salafite a livello globale per delegittimare il modello teocratico della neonata Repubblica iraniana. Numerosi esponenti della Fratellanza Musulmana nei due decenni precedenti erano fuggiti dalla repressione di Nasser ed erano entrati nel circuito universitario saudita. Questa classe di studiosi e intellettuali, più giovane e politicamente consapevole, aggiunse una dimensione di attivismo politico al discorso salafita, sostenendo la necessità di esprimere dissenso nei confronti di un governo, se percepito come non islamico.

Il movimento che ne scaturì, al-Sahwa al-Islamiyah (Risveglio Islamico), entrò in netto contrasto con la monarchia saudita e con l’establishment clericale wahhabita negli anni Novanta, quando criticò apertamente la decisione di re Fahd di permettere alle truppe “infedeli” statunitensi di stazionare in Arabia Saudita durante la prima guerra del Golfo. Nel frattempo, l’invasione sovietica in Afghanistan contribuì a forgiare anche un’interpretazione militante e rivoluzionaria del salafismo, fondendo ai principi del salafismo quelli di jahiliyya (ignoranza pre-islamica) e hakimiyya (governo di Dio) elaborati da Sayyid Qutb nel suo “Pietre miliari”.

Le forme del salafismo contemporaneo: un quadro complesso

Dagli anni Novanta a oggi l’universo salafita è divenuto sempre più frammentato, ma è possibile individuare tre macro-categorie: salafiti quietisti, politici e jihadisti.

  • I salafiti quietisti o puristi, prediligono il proselitismo, la purificazione e l’educazione religiosa, rifiutando qualunque coinvolgimento politico e predicando assoluta obbedienza al governo, anche in caso di repressione. Soprattutto, la necessità di scendere a compromessi imposta dalle dinamiche elettorali è vista, infatti, come un attentato alla purezza dell’Islam. L’idea stessa di democrazia è spesso condannata come idolatria e imposizione occidentale, preferendo invece concetti come shura, “consultazione”, o nasiha, “consiglio al regnante”. Un esempio di salafiti quietisti è offerto dalla cosiddetta Madkhaliyya, un movimento nato in Arabia Saudita nei primi anni Novanta attorno al clerico Rabi al-Madkhali.
  • I politici, contrariamente ai quietisti, partecipano a diverse forme di attivismo politico, dall’affiliazione a partiti e associazioni fino all’espressione di un criticismo più o meno aperto della classe al governo, sempre nei limiti però del rispetto dell’autorità statale. L’evoluzione di questi gruppi è stata dettata tanto dal contesto locale quanto dall’interazione con altri gruppi islamisti, come la Fratellanza Musulmana. Ad esempio, in Bahrain, Fratelli Musulmani e salafiti hanno fatto fronte comune contro gli sciiti, mentre in Tunisia sono rimasti agli antipodi.
  • I jihadisti, di cui abbiamo parlato approfonditamente in altri articoli, rappresentano tutt’altro che una fazione compatta, come dimostrato dall’antagonismo tra ISIS e al Qaeda.

Per concludere, è importante fare un’ultima precisazione. I confini tra queste categorie non sono netti: tra i due estremi di assoluto astensionismo dalla vita politica e utilizzo della violenza sono contenute innumerevoli sfumature che rendono complicato attribuire etichette. Il legame tra salafismo e jihadismo non è quindi così immediato: gli stessi mentori possono ispirare i propri studenti a intraprendere percorsi radicalmente diversi tra di loro, scelta che è influenzata non solo dal credo religioso ma da una moltitudine di altri fattori. Muhammad Nasir al-Din al-Albani, ad esempio, padre del salafismo quietista in Giordania, ha ispirato tanto altri salafiti quietisti come Salim al-Hilali, quanto il movimento saudita al-Jamma al-Salafiyya al-Muhtasiba, da cui emerse la faglia militante che occupò la grande moschea della Mecca nel 1979.

 

 

Fonti e approfondimenti

J. Wagemakers, Salafism in Jordan: Political Islam in a Quietist Community (Cambridge University Press, 2016)

F. Wehrey and A. Boukhars, Salafism in the Maghreb. Politics, Piety and Militancy (Oxford University Press, 2019)

Q. Wictorowicz, “Anatomy of the Salafi movement”, Studies in Conflict & Terrorism (29:3), 2006

R. Rabil, Salafism in Lebanon: From Apoliticism to Transnational Jihadism (Georgetown University Press, 2014)

M.A. Rumman, Conservative salafism. A strategy for the “islamization of society” and an ambiguous relationship with the state (Amman; Bonn: FES, 2011)

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