Alexander Langer, un sognatore pragmatico

di Chiara Zannelli

 

Il 3 luglio di venticinque anni fa si tolse la vita Alexander Langer, lasciando scritte queste parole: “Continuate ciò che è giusto”. La responsabilità che comporta raccogliere la sua eredità è immensa, e nessuno finora sembra essere stato capace di proseguirne il lavoro. Lo dimostra il fatto che molte delle cause per cui si batteva – tra le altre, lo sviluppo sostenibile, la risoluzione dei conflitti etnico-religiosi e la mancata coesione politica dell’Europa – hanno continuato a trascinarsi, irrisolte, fino ad assumere gli allarmanti toni attuali.

Non è semplice raccontare Langer: fu un professore, un traduttore, un giornalista e un politico capace. Soprattutto fu un uomo sensibile, estremamente intelligente, spesso incompreso, visionario, non violento, ma agguerrito nel combattere le battaglie del suo tempo.

Costruttore di ponti

Il suo modo di vedere il mondo fu intimamente connesso con la sua storia personale. Alexander Langer nacque nel 1946 a Vipiteno, paese al confine tra Italia e Austria, in cui convivono gruppi di madrelingua italiana, tedesca e ladina. Nonostante la famiglia avesse origini tedesche – il padre fu un ebreo perseguitato e la madre una farmacista cattolica – Alex frequentò inizialmente la scuola in lingua italiana, crescendo così a cavallo tra due lingue, due culture e due religioni.

Negli anni Sessanta fu testimone degli scontri tra i gruppi linguistici, delle violenze irredentiste e degli attentati di matrice neonazista. Questo gli permise di sviluppare una sensibilità per i conflitti figli dell’imperfezione dei confini geografici che, accorpando artificialmente popolazioni differenti, rischiano di trasformare l’incomprensione in odio latente.

In questo contesto, tentò di approcciare le ostilità con il dialogo e l’incontro, entrando a far parte di un “gruppo misto”, un ambiente di confronto tra gruppi linguistici dove si studiava la storia comune e si elaboravano proposte per un futuro di convivenza pacifica.

Più tardi, si oppose al censimento introdotto in Alto Adige, che ancora oggi prevede l’iscrizione obbligatoria in uno dei tre gruppi linguistici. Lo definì una schedatura creatrice di gabbie etniche, scorgendovi il rischio che accentuasse le contrapposizioni, e che instaurasse un processo simile a quello che aveva portato alla separazione della Germania. Per questo si rifiutò di firmare il modulo del censimento, scelta che gli costò l’ineleggibilità a sindaco di Bolzano molti anni dopo.

Dal caso sudtirolese maturò la convinzione che riconoscere le minoranze non significa creare ghetti, ma coltivare le diverse identità nella pluralità. Questo fu il filo rosso della sua azione politica, che gli valse il titolo di “costruttore di ponti” tra mondi diversi.

Lentius, profundius, suavius

Fin da giovanissimo si impegnò nell’ambito della solidarietà cristiana, definendola nella sua autobiografia “il primo ideale universale che riesce a convincermi e a coinvolgermi”. Si iscrisse all’Università di Firenze, dove conobbe esponenti di spicco della sinistra italiana e seguì il dialogo tra comunisti e cattolici.

Nel 1970 aderì a Lotta Continua, sentendo il bisogno di prendere parte al cambiamento in corso nella società italiana. Dopo lo scioglimento del movimento, sostenne le campagne dei radicali ma non entrò a farne parte, rifiutandosi di incasellare il suo pensiero entro le logiche dei partiti, che vedeva ormai come “corpi separati accanto alla società”.

Allo stesso modo rifuggì la drasticità delle ideologie. Ad esempio, non si definì pacifista ma “facitore di pace”, qualcuno che si adopera nella ricerca di strumenti concreti per mediare i conflitti, invece che limitarsi a invocare slogan e schierarsi dogmaticamente. Anche quando si fece promotore di una forza politica verde in Italia, dopo aver osservato l’esempio tedesco, volle prendere le distanze da chi invocava una rivoluzione ecologista.

Nella rivoluzione vedeva un’arbitraria rottura con la storia, per questo preferì parlare di conversione ecologica, non basata su interventi totali e irreversibili, ma graduale, e che permettesse di rimediare qualora le scelte poste in essere si fossero dimostrate sbagliate o pericolose.

Il termine conversione aveva anche una valenza soggettiva: Langer pensava che il cambiamento del modello di sviluppo economico non potesse affidarsi soltanto alla politica, ormai incapace di proiettarsi sul lungo periodo, ma dovesse appoggiarsi sulle scelte quotidiane del singolo e sulla sua partecipazione nelle scelte globali. La svolta che immaginava si fondava sulla consapevole auto-limitazione produttiva degli Stati più industrializzati, ma anche sulla cessazione dello sfruttamento delle risorse nel Sud del mondo e sul processo di disarmo e smilitarizzazione mondiale.

I Verdi di Langer non volevano essere un movimento specializzato in questioni ambientaliste, ma una forza politica giovane, europeista, punto di riferimento per chi guardava con orrore alla crescente corsa ai consumi, alle carriere e alla distruzione ambientale negli anni del neoliberismo.

Per spiegare il suo approccio allo sviluppo, controintuitivo rispetto agli interessi immediati dell’uomo moderno, si servì del motto olimpico che sintetizzava la società competitiva in cui viveva: “citius, altius, fortius”, più veloce, più alto, più forte. Langer lo declinò al contrario: “lentius, profundius, suavius“, più lento, più in profondità, più dolcemente, e disse che solo se le persone avessero interiorizzato questa prospettiva la conversione ecologica avrebbe potuto affermarsi, sapendo che “probabilmente con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo”.

“Facitore di pace”

Nell’anno della caduta del muro di Berlino, venne eletto al Parlamento europeo. Mentre molti vedevano in questo evento l’inizio di un’era di pace e progresso per l’Europa, Langer intuì il rischio che a prendere il posto dei grandi ideali sarebbero stati i nazionalismi. Per questo suggerì di rafforzare l’integrazione politica e istituzionale europea, indicando come punto d’approdo ideale la creazione di un’unione federale.

Anche nel suo ruolo di europarlamentare continuò a dedicarsi alle campagne di pace e giustizia, tra cui la lotta degli indios in difesa della foresta pluviale, la “Campagna Nord-Sud” per risanare il debito dei Paesi del Sud del mondo, la tutela dei diritti umani in Tibet e Israele e la risoluzione pacifica della crisi del Golfo.

Quando scoppiò la guerra in ex-Jugoslavia, si rese conto che non si sarebbe trattato di eventi circoscritti all’area balcanica, ma di scosse sismiche per l’equilibrio dell’intera Europa. Si impegnò per l’elaborazione di una soluzione pacifica e per rendere possibile la convivenza all’indomani delle stragi. Sostenne la necessità di istituire il Tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità nell’ex-Jugoslavia e avviò progetti come i corpi civili di pace e il Verona Forum per la pace, dove si riunirono molti oppositori al conflitto provenienti dalle zone di guerra.

Quando nel 1992 ebbe inizio l’assedio di Sarajevo, città simbolo dell’incontro tra culture e religioni, Langer vide l’Europa rimanere inerme. Accusò le istituzioni europee di aver doppiamente fallito. In primo luogo, per non aver offerto alla Jugoslavia la possibilità di entrare nella Comunità europea prima dello scoppio del conflitto. Per Langer questo avrebbe consentito di proiettare lo scontro tra le minoranze etniche in uno scenario di multiculturalismo più ampio, dove le differenze erano istituzionalizzate e le rivendicazioni risolte diplomaticamente. Invece, l’Europa aveva tentato di elaborare complicatissimi piani di spartizione dei territori che avevano finito per rafforzare l’idea che la convivenza non fosse possibile.

La seconda grande mancanza che attribuì alla Comunità europea e alla comunità internazionale fu quella di aver assunto il ruolo di osservatori neutrali, rifiutandosi di schierarsi e distinguere tra vittime e aggressori. Nonostante Langer avesse sempre predicato la pace, dopo il bombardamento di Tuzla invocò la necessità di ristabilire la legalità con un intervento armato della polizia internazionale. Il suo obiettivo era porre fine agli scontri così da evitare ulteriori morti inutili e cominciare a lavorare a una soluzione politica, ma le sue dichiarazioni vennero strumentalizzate, gli costarono insulti e la rottura con molti dei suoi collaboratori.

A Cannes, durante il vertice dei capi di Stato e di governo, lanciò un appello: l’Europa muore o rinasce a Sarajevo, ma l’allora presidente francese Jacques Chirac lo fece passare per un guerrafondaio. Di lì a qualche settimana sarebbe avvenuto il massacro di Srebrenica, ma Langer non lo seppe mai: si tolse la vita pochi giorni prima.

Concretizzatore di utopie

Molte delle fragilità che vive oggi l’Europa sono figlie di una politica che in passato non ha saputo ascoltare chi, come Langer, era convinto che ecologia, multiculturalismo, europeismo e diritti umani fossero temi inscindibili. Le sue opere possono fornire molte indicazioni per comprendere la società attuale. Ad esempio, il suo tentativo di decalogo per la convivenza interetnica raccoglie alcune massime per sviluppare la complessa arte della coesistenza tra culture.

Langer aveva intuito il peso che avrebbero avuto la mobilità e le migrazioni nel mondo moderno e, per esperienza personale, sapeva come il conflitto tra etnie poteva accendere gli animi più di qualsiasi lotta di classe, creando schieramenti inconciliabili. Con queste premesse, l’unico modo per non arrivare all’epurazione etnica era sviluppare nella società un’attitudine alla convivenza, attraverso leggi, servizi sociali e progetti che consentissero la conoscenza reciproca e la collaborazione.

Il suo suggerimento era quello di creare dei gruppi interetnici, come aveva fatto lui stesso con il gruppo misto. Sarebbero stati luoghi dove mediare tra difficoltà ed esigenze contrapposte facendosi interpreti delle rispettive comunità di appartenenza, o, se necessario, arrivando a “tradire” la propria parte, operando un’autocritica per il bene comune.

Alex Langer ha superato tutti i confini che si è trovato davanti, quelli nazionali, quelli religiosi, quelli politici e persino quelli linguistici, insistendo per utilizzare sempre la lingua madre dei suoi interlocutori, anche quando la conosceva poco. Leggere i suoi scritti consente di vedere questi confini da vicino, e di realizzare come non si tratti mai di quelle linee nette che dovrebbero ordinare e semplificare l’esistente, ma di aggregati instabili che possono offrire occasioni di incontro. Perché questo sia possibile, però, è necessaria una delicata opera di sensibilizzazione e mediazione, a cui Langer dedicò tutta la vita.

Forse proprio la generazione che non ha avuto la possibilità di conoscerlo sente oggi la maggiore affinità con le sue idee, e grazie alla passione e alla serietà con cui è riuscito a trasformare le utopie in proposte concrete, può trovare nei suoi scritti il punto di riferimento di cui sente la mancanza.

 

Fonti e approfondimenti

Archivio della Fondazione Alexander Langer

Langer, Alexander, “Autobiografia minima personalia”, Belfagor – Rassegna di varia umanità, Marzo 1986;

Langer, Alexander, 1996, “Il viaggiatore leggero. Scritti (1961-1995)”, Sellerio Editore Palermo;

Leogrande, Alessandro, “Alexander Langer: saltare i muri”, Passioni, RaiRadio3, 22/05/2010.

 

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