Road to November: intervista a Nadia Urbinati

elezioni statunitensi
Copertina di Riccardo Barelli.

di Emanuele Murgolo e Alberto Pedrielli

Nadia Urbinati è docente di Teoria Politica presso il Dipartimento di Scienze politiche della Columbia University e visiting professor permanente presso la Scuola superiore di studi universitari Sant’Anna di Pisa. Si occupa di pensiero politico moderno e contemporaneo e, in particolare, di teoria democratica, repubblicana e liberale. Collabora con diversi periodici quali La Repubblica, L’Unità, Il Fatto Quotidiano, Il Sole 24 Ore, Left e Il Corriere della Sera.

Abbiamo intervistato la professoressa Urbinati nell’ambito della Summer School Renzo Imbeni “Un’Europa solidale. Un’Unione più coesa, più ambiziosa e vicina alle persone”, organizzata dal Comune di Modena e svoltasi tra il 7 e il 12 settembre.

Gli USA stanno vivendo un periodo di forte conflitto sociale. Dopo tanti mesi di proteste e di tensioni, qual è lo stato della democrazia statunitense? 

La democrazia statunitense è in perenne ebollizione. Fin dalla sua nascita ha visto forme di razzismo organizzato, che nel tempo hanno riguardato tutte le minoranze presenti sul suolo statunitense, assumendo spesso tratti particolarmente devastanti, come nel caso dei linciaggi contro i neri. Si tratta di una terribile modalità di inclusione: un’inclusione senza identificazione. Le minoranze sono incluse nella società, ma non possono identificarsi di fatto col gruppo dominante, per cui permane una frattura sociale che inevitabilmente scatena dei conflitti. Questa è la peculiarità della società statunitense: una realtà plurale e multietnica, ma che cela tantissime difficoltà.

Quali sono i fattori che hanno contribuito a fare emergere in maniera sempre più evidente queste fratture? 

Nel contesto statunitense si sono inserite negli ultimi trent’anni nuove dinamiche di natura economica, che hanno profondamente mutato i rapporti degli USA con il mondo esterno, come ad esempio il trattato NAFTA firmato dal presidente Clinton. Il NAFTA stabiliva che le multinazionali gestissero i rapporti economici e le filiere produttive tra il Nord e il Sud dell’emisfero americano, per cui garantiva un potere maggiore alle grandi aziende, in grado di spostare i propri capitali a seconda delle condizioni di produzione più vantaggiose. Questo ha provocato in poco tempo un grande impoverimento per i lavoratori e per la classe media statunitense e, di riflesso, un peggioramento netto delle loro condizioni di vita. Le multinazionali hanno portato i loro investimenti altrove, cambiando in maniera radicale la concezione dell’integrazione globale. L’accordo e la sua esaltazione da parte dei democratici hanno aperto la strada alle reazioni nazionalistiche, contrapposte a un mondo economico-finanziario sempre più distante dal vivere quotidiano di quei lavoratori. Trump è l’interprete di questa reazione al NAFTA e a un sistema economico che non si esaurisce entro i confini nazionali, e che per questo viene percepito, oltre che ingiusto, come anti-patriottico. L’accettazione generale del Washington Consensus (l’insieme di politiche economiche promosse dalle istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ndr) è definitivamente tramontata, e la polarizzazione sociale è divenuta sempre più forte. 

Arriviamo alle proteste. In un periodo tanto difficile come quello vissuto dai cittadini e soprattutto dalle minoranze statunitensi, come si sta comportando il presidente Trump? 

Trump sta soffiando sul fuoco e sta aizzando le violenze per poter giustificare le reazioni e le repressioni, in nome dell’ordine. Non è un caso che, ogniqualvolta si verifichi un episodio di violenza contro un afroamericano, si rechi a rendere omaggio alle forze dell’ordine: in questo modo Trump rafforza un’immagine che lo vede a capo di uno Stato che protegge la pace civile e sociale. Chi non si riconosce in questa retorica viene identificato come nemico e prontamente attaccato. Trump utilizza due registri: da un lato, quello della contrapposizione e della violenza; dall’altro, quello della repressione, la quale viene giustificata in quanto unico mezzo legittimo per ristabilire “legge e ordine”. È un messaggio rivolto soprattutto alla parte più interna degli Stati Uniti: noi europei siamo abituati a immaginare gli States dal punto di vista delle due coste, dove si trovano le grandi metropoli multietniche, e tendiamo a dimenticarci che, storicamente, la parte di America che ha avuto un peso determinante nelle sorti politiche del Paese è quella interna, lontana e molto diversa da New York o San Francisco. Nelle aree interne esiste un forte sentimento di aggressività e violenza, che vede nelle minoranze e in particolare negli afroamericani il bersaglio principale delle discriminazioni. Si tratta di un sentimento diffuso, basato su pregiudizi storici, secondo cui i neri non sono mai stati capaci di integrarsi nella società nonostante le politiche di sostegno come le affirmative actions. Trump fa leva su queste pulsioni razziste e le utilizza per rafforzare il proprio messaggio e radicalizzare i suoi sostenitori, per meri fini elettorali.

La diffusione del virus ha provocato effetti disastrosi nella società statunitense. Il numero dei morti continua a crescere dopo che pochi giorni fa sono stati superati i 190 mila decessi. Qual è l’impatto del Covid-19 sulla campagna elettorale in vista di novembre? 

Il Covid-19 ha modificato completamente lo scenario di qualche mese fa. Prima che si diffondesse il virus, Trump insisteva molto sugli effetti positivi della sua politica economica, sostenendo che grazie al suo operato le possibilità di trovare lavoro negli Stati Uniti erano enormemente aumentate. In alcuni casi è vero, ma si tratta molto spesso di posti di lavoro che non garantiscono un reddito sufficiente a mantenersi, tant’è che sono sempre di più gli statunitensi costretti ad accettare più di un posto di lavoro per poter sopravvivere. Trump ha sempre raccontato una storia a metà, ma alla base della sua narrazione c’era comunque un elemento di verità, seppur minimo. Questa narrazione ha funzionato fino a pochi mesi fa; una volta scoppiate l’emergenza sanitaria e la crisi economica, le responsabilità della situazione in cui versano tuttora gli Stati Uniti sono state ricondotte a soggetti esterni, fossero essi nazioni concorrenti come la Cina, organizzazioni internazionali come l’OMS, oppure i governatori democratici degli Stati. Il punto di forza dei populismi è proprio l’individuazione di capri espiatori: ne hanno bisogno per ottenere e guadagnare consenso, senza di loro non esisterebbero.

E agli occhi dei suoi elettori, come ne esce Trump?

Paradossalmente, non ne esce in maniera negativa. Trump ha una grande capacità nel trovare argomenti e nemici nuovi, su cui focalizzare l’attenzione della sua base elettorale rafforzandone al contempo i sentimenti più reazionari, e alimentando così la polarizzazione della società statunitense. In questo processo, un ruolo fondamentale è quello svolto dai social network, che gli permettono di entrare e rimanere costantemente in contatto diretto con il popolo e di portare avanti il suo messaggio in maniera immediata. Ma anche i media tradizionali risultano funzionali alla sua narrazione; invece di concentrarsi sui fatti, testate giornalistiche e televisioni si concentrano il più delle volte sulle sue dichiarazioni, rendendo Trump l’unico vero fatto che esiste negli USA. Tutti questi elementi giocano a suo favore, così come giocano a favore di tutte le forze nazionaliste e neofasciste che, anche nel nostro continente, acquisterebbero nuovo ossigeno in caso di vittoria repubblicana.

Perché la retorica di Trump è così efficace? 

L’utilizzo della narrazione è assolutamente centrale. Trump ha costruito una polarizzazione ad arte; se contro i nemici utilizza un linguaggio a metà tra l’offensivo e l’aggressivo per radicalizzare la divisione noi-voi, nei confronti dei comuni cittadini statunitensi non manca di mostrare empatia per il periodo difficile che stanno attraversando. Trump è il responsabile del potere politico, ma nella sua narrazione si presenta come una persona ordinaria, che reagisce ai fatti esattamente come farebbe uno statunitense medio. L’argomento populista io sono come voi risulta estremamente efficace, perché Trump è riuscito a cambiare le regole del dibattito pubblico: le sue reazioni esagerate e aggressive sono comprese perfettamente dalla sua audience, che si riconosce in un approccio istintivo alla vita quotidiana. Le mediazioni e i calcoli della classe politica tradizionale, così come il suo linguaggio tecnico e specializzato, sono state completamente messe in discussione.

Che tipo di rapporto sussiste tra il presidente e i suoi elettori? Potrebbe essere questa la carta vincente al voto di novembre?

È un senso identitario, ma rappresenta anche un nuovo tipo di rappresentanza, che io definisco rappresentanza in diretta. Trump utilizza come elemento di distinzione rispetto alla classe politica tradizionale il non essere calato dall’alto; a differenza dei politici e delle élite, lui è in grado di rappresentare davvero gli interessi dei cittadini statunitensi. Ma non solo: Trump è presente tra il popolo americano, per cui, seppure in una posizione di grande potere, può giustificare la sua irresponsabilità grazie a questo legame inscindibile e paritario con il cittadino ordinario. È solo il cittadino onorario, il vero americano, a conoscere la realtà dei fatti, mentre i politici e le élite si trovano sempre dalla parte del torto, per cui, per Trump, questo frame svolge una potente funzione di legittimazione. Si potrebbe obiettare che anche Trump faccia parte di un’élite. Ma si tratta di un’élite diversa da quella politica: le élite economiche negli USA sono molto amate, perché sono viste come dei role model, dei modelli di successo. Al contrario, le élite politiche sono molto disprezzate, perché non svolgono un ruolo attivo nel sistema produttivo e riescono a sostenersi solamente grazie alle tasse dei cittadini statunitensi, se non grazie alla corruzione. Questa è la storia che racconta Trump: una storia con tante mezze verità, che però continua ad avere una forte presa sul suo elettorato. Il 3 novembre scopriremo in quanti sono rimasti a credergli.

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