Il rapporto tra russo e lingue nazionali: dall’Impero all’Unione sovietica

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Settima per diffusione al mondo, parlata da 260 milioni di persone, il russo è la lingua ufficiale degli abitanti della Federazione Russa e tradizionalmente lingua franca in molte delle ex Repubbliche sovietiche.      

Le lingue parlate e riconosciute ufficialmente all’interno del territorio dell’attuale Federazione Russa sono tuttavia 35 maggiori e 100 minoritarie. La presenza di una lingua comune omogenea è stata un’imposizione con un fine ben preciso: unificare un territorio immenso e rendere più semplice la comunicazione, soprattutto burocratica, dando al contempo un forte segnale identitario alla Comunità Internazionale. 

La diffusione della lingua russa ha accompagnato l’espansione politica dello Stato, in un’ottica di russificazione in atto fin dai tempi dell’Impero. L’annessione di territori dalla Siberia agli Urali, alle regioni del Volga, del Caucaso, dell’Asia Centrale e del Baltico ha trasformato il russo in lingua di comunicazione interetnica e di controllo dei nuovi popoli assoggettati.

Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il ruolo del russo all’interno delle ex Repubbliche socialiste è andato marginalizzandosi. In alcuni casi, è stata avviata una vera e propria opera di de-russificazione e riscoperta delle lingue nazionali come fattore identitario. 

Impero russo: tra allargamento e russificazione

Sebbene il processo di russificazione abbia avuto inizio ai tempi dell’Impero, fino al XVIII secolo la Russia non implementò alcuna politica linguistica vera e propria. La moltitudine di etnie e lingue coesistenti rendeva l’Impero estremamente variegato. I primi interventi di carattere linguistico si ebbero solo durante il regno di Pietro I (1682-1725), con una riforma dell’alfabeto e l’introduzione di nuovi termini da tedesco, olandese, francese e latino soprattutto nel lessico intellettuale e specialistico. Lo zar voleva coinvolgere anche la lingua nel suo innovativo processo di laicizzazione e occidentalizzazione del Paese. Relativamente alle minoranze etniche e linguistiche, puntò sullo status quo, mantenendo il tedesco come lingua ufficiale nei Baltici appena assoggettati, lo svedese in Finlandia e il polacco nel regno di Polonia. Si avvalse infine di traduttori per comunicare con le popolazioni locali delle altre regioni.

Le politiche di russificazione vera e propria ebbero inizio a metà del XIX secolo con Alessandro II (1855-1881), che riuscì a unificare l’Impero anche grazie alla diffusione della lingua russa. Almeno inizialmente, il processo avvenne però in maniera selettiva verso precisi gruppi etnici e sociali, a scopo di controllo e assimilazione. La tendenza era quella di limitare l’uso delle altre lingue native, favorendo il russo, con misure volte a ridurre il potere culturale e l’influenza di alcuni gruppi etnici per evitare ribellioni nazionalistiche. 

Ad esempio, le politiche verso i territori europei prevedevano restrizioni nell’uso di ucraino, polacco, bielorusso, moldavo, lituano e tedesco: il russo le sostituì nell’istruzione primaria, secondaria e superiore, divenendo lingua ufficiale anche per i giornali. Per contro, il ruolo del russo in Asia Centrale non superò mai la barriera delle strutture burocratiche: in quest’area le lingue locali poterono prosperare liberamente.  

La distinzione linguistica all’interno dell’Impero comprendeva anche elementi quali classe e status sociale. L’obiettivo della russificazione era il bilinguismo di nobiltà e borghesia locali, ottenuto tramite incentivi di avanzamento educativo e sociale o imposizione vera e propria, ma non necessariamente l’alfabetizzazione degli strati più bassi della popolazione, che non avevano modo di sviluppare competenze in russo e ambire a un miglioramento delle proprie condizioni. In Georgia, ad esempio, dove le scuole autoctone furono sostituite da quelle russe, nel 1860 solo l’1% della popolazione aveva accesso all’istruzione primaria o secondaria. 

Alla fine del XIX secolo l’educazione secondaria e superiore diventò ufficialmente disponibile solo in russo in tutto il territorio imperiale (ad eccezione della Finlandia).

La rivoluzione del 1905, con i suoi tumulti sociali, portò con sé una politica linguistica più tollerante: anche le lingue minoritarie tornarono oggetto di studio scolastico, e ricominciarono ad apparire prodotti editoriali in varie lingue, tra cui bielorusso, ucraino, lettone, lituano, estone e georgiano. 

Il periodo sovietico: Lenin e la Korenizacija

Il processo di russificazione cominciato in epoca imperiale proseguì anche sotto l’Urss, in particolare nel periodo staliniano. In seguito alla Rivoluzione d’ottobre, infatti, le autorità sovietiche apparivano aperte nei confronti delle lingue nazionali. In vista di un rinnovamento totale dell’immagine del Paese, era anzi auspicabile che le idee rivoluzionarie fossero ben comprese anche da quella (larga) parte della popolazione che non parlava russo o era illetterata.

Le iniziali politiche linguistiche promosse da Lenin negli anni Venti, meglio conosciute come Korenizacija (indigenizzazione, da koren’, “radice”), fecero seguito alla grande riforma ortografica del 1918 (la prima dai tempi di Pietro I, volta a semplificare la scrittura della lingua) e rappresentarono una fase di apertura e supporto alle varie nazionalità dell’Urss. Per decreto del 1922, tutte le Repubbliche sovietiche ebbero diritto all’educazione nella propria lingua e poterono scegliere se adottare l’alfabeto cirillico, latino o arabo.

Lo sviluppo di un sistema capillare di alfabetizzazione e istruzione nelle lingue autoctone, che portasse alla creazione di quadri non necessariamente russi nel Partito comunista e nelle amministrazioni locali, era parte di un più grande programma di costruzione nazionale: supportando culture e lingue dei diversi territori era possibile organizzare la popolazione dell’Urss in unità economicamente e amministrativamente stabili.

La Korenizacija fu infatti alla base della vera e propria definizione di enti territoriali con nuovi confini e culture: portò il concetto di identità nazionale anche in zone geografiche, specialmente asiatiche, dove l’etnicità non era definita da criteri spaziali o linguistici, dissolse gruppi etnici e ne creò di nuovi (moldavi), fissò confini tra identità precedentemente fluide (uzbeki e tagichi) e formò nuovi territori (Turkmenistan). Dove non esisteva un linguaggio letterario, diede sostegno alla sua costruzione.

La centralizzazione staliniana

A partire dagli anni Trenta, nonostante una prima fase in cui portò avanti la politica di concessioni alle minoranze, la visione di Stalin si allontanò molto da quella leninista, riavvicinandosi invece alla politica accentratrice dell’Impero zarista. 

Pur mantenendo l’impostazione federale, che garantiva una certa autonomia alle Repubbliche, i rigidi piani di industrializzazione e collettivizzazione diedero vita a una costruzione nazionale centralizzata che lasciava poco spazio alle particolarità regionali. Gestire oltre 192 lingue, e altrettanti apparati burocratici, non era più in linea con la nuova forma che il Paese stava prendendo; il russo tornò ad essere de facto la lingua ufficiale per il consolidamento dello Stato, strumento di propaganda e repressione. Obiettivo principale era scongiurare il separatismo fomentato dal nazionalismo culturale che il regime stesso aveva creato.

Già dal 1935, tutte le lingue che avevano introdotto nuovi alfabeti (ad esempio, quello latino al posto dell’arabo in Asia centrale) dovettero sostituirli con il cirillico per facilitare l’apprendimento del russo, unica fonte di neologismi e base per le grammatiche locali. Le uniche Repubbliche che poterono mantenere i propri alfabeti furono l’Armenia, la Georgia e in seguito le Repubbliche Baltiche. Per decreto del 1938, il russo divenne, seconda lingua obbligatoria in tutte le scuole non russe e la sua mancata conoscenza e applicazione venne considerata politicamente reprensibile. 

Nonostante le possibilità di crescita sociale e professionale consentite dalla conoscenza della lingua, il decreto rimase in buona parte irrealizzato e l’insegnamento del russo nelle scuole locali risultò incostante. In Asia Centrale – complici anche le frequenti deportazioni di interi gruppi nazionali che spesso modificarono la composizione etnica delle Repubbliche – il solo processo del cambio d’alfabeto richiese molto tempo per essere attuato.

Dalle riforme di Chruščëv al crollo dell’Urss

L’ammorbidimento delle politiche linguistiche, avvenuto solo in seguito alla morte di Stalin, portò a una maggiore diffusione della lingua russa. Dal 1959, sotto Chruščëv, una riforma permise ai genitori di scegliere la lingua per l’istruzione scolastica dei propri figli. Grazie alle nuove possibilità di mobilità sociale garantite in quel momento dalla conoscenza del russo, si registrò un notevole incremento di iscrizioni nelle scuole russe in tutte le Repubbliche e i livelli di competenza linguistica aumentarono nell’intero Paese.

Le varie politiche linguistiche messe in atto in epoca sovietica avevano del resto permesso di raggiungere elevati livelli di alfabetizzazione rispetto al periodo imperiale, con scuola e mezzi di comunicazione come denominatore comune per il russo specialmente dal secondo dopoguerra. La differenziazione dialettale, anche tra i nativi russi, andò declinando. 

Tuttavia, la diffusione del russo non cancellò completamente gli effetti delle iniziali politiche di indigenizzazione. Le lingue native continuarono a essere usate in educazione, arte, stampa, mantenendo sempre attive le tendenze autonomistiche all’interno dello Stato federale, tanto da spingere le autorità a promuovere una nuova campagna per l’insegnamento del russo ancora negli anni Ottanta.

Il collasso politico del 1990-1991 diminuì le pressioni sulla lingua. L’ineguaglianza tra russo e lingue minoritarie, che aveva un tempo favorito il governo centrale e i nativi russi, si trasformò in punto di favore per le Repubbliche in cerca di autonomia. Il bilinguismo imposto divenne fattore di slancio per l’implementazione delle prime politiche di de-russificazione.

 

 

Fonti e approfondimenti

Aspaturian, Vernon V., The Non-Russian Peoples, in Allen Kassof, Prospects for Soviet Society, New York: Praeger, 1968

Pavlenko Aneta, Linguistic Russification in the Russian Empire: Peasants into Russians? Языковая руссификация в Российской империи: cтали ли крестьяне русскими?, in Russian Linguistics, Vol. 35, No. 3 (2011), pp. 331-350, Springer

Riasanovsky Nicholas V., Storia della Russia. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 2010

Seton-Watson Hugh, Storia dell’impero russo (1801-1917), Einaudi, Torino 1971

Silver, Brian, Social Mobilization and the Russification of Soviet Nationalities, The American Political Science Review, Vol. 68, No. 1 (Mar., 1974), pp. 45-66 

Weeks, Theodore R., Russification: Word and Practice 1863-1914, Proceedings of the American Philosophical Society, Vol. 148, No. 4 (Dec., 2004), pp. 471-489 

 

 

Editing a cura di Elena Noventa

 

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