Cosa cambia con il nuovo governo in Israele

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Di Piero Dal Poz

Il 13 giugno di quest’anno, lo Stato di Israele è uscito dalle urne cambiato: per la prima volta dal 31 marzo 2009, dopo cinque mandati consecutivi dal 2009 al 2021, sei in totale (il primo dal 1996 al 1999), Benjamin Netanyahu non è Primo ministro. Personaggio estremamente divisivo, polarizzante ed estremista, si è fatto strada sfruttando il suo cinismo politico e le infinite divisioni interne allo Stato israeliano.  

Infatti, durante la sua carriera, ha fatto e disfatto numerose coalizioni, rimanendo al potere anche nei momenti di crisi. Nonostante Netanyahu non sia stato confermato alle elezioni, in molti sono scettici sul cambio di direzione delle politiche israeliane. Centra la composizione del governo, ma anche il fatto che non sarà facile liberarsi della sua eredità.

I nuovi volti del governo

Quattro sono le principali personalità del governo senza Netanyahu, diversissime tra loro. Naftali Bennett, l’attuale Primo ministro, guida il partito di estrema destra Yamina. Milionario ed ex-proprietario di un’azienda di cyber-security, Cyota, Bennett è da sempre legato ai gruppi ultra-ortodossi del Paese. Il suo socio di maggioranza, con cui si alternerà come Primo ministro, è Yair Lapid, leader di Yesh Atid (C’è un futuro), partito per sua stessa definizione «centrista, liberale e secolare». L’ex-giornalista ha un vasto programma di riforme di politica interna. Piano per alloggi popolari, riforma della scuola, riforma del mercato del lavoro, abbassamento del costo della vita, ma soprattutto lotta alla corruzione e ai sussidi di Stato agli ebrei ultra-ortodossi. Queste sono le sue priorità che mai deciderà di sacrificare in favore di una questione spinosa come i rapporti con i palestinesi.

Meno popolare di Bennett e Lapid, Binyamin “Benny” Gantz proviene da una famiglia sopravvissuta alla Shoah. Prima di entrare in politica, è stato capo di Stato maggiore delle Israel defense forces. Nelle ultime elezioni, ha perso molti voti per aver disatteso una delle sue promesse: non formare mai un governo con Netanyahu. 

Infine, c’è Mansour Abbas, primo arabo a entrare in un governo israeliano. Proprio in virtù delle posizioni in favore della soluzione a due Stati di quest’ultimo, il nuovo governo presenta una scarsa uniformità di pensiero sulla questione palestinese, uno degli argomenti centrali della politica israeliana.

Quattro questioni fondamentali di politica israeliana

Sulla questione dei confini di Israele le posizioni sono varie ma allineate a quelle già espresse in passato dalle personalità della politica israeliana. In un’intervista rilasciata a Deutsche Welle, Lapid ha espresso il suo sostegno alla soluzione dei due Stati: «Come diceva Yitzakh Rabin, vorrei che fossimo in conflitto con gli Svedesi, ma non è così. Dobbiamo separarci dai palestinesi e costruire tra noi e loro muri più alti possibile e usare tutta la forza che sarà necessaria per tenerci sicuri». Gantz, invece, non ha mai dichiarato una posizione precisa. Ai microfoni di i24news, alla conferenza dell’America Israel public affairs committee (AIPAC) nel 2019, alla domanda: «Lei supporta la soluzione dei due Stati?», rispose: «La mia posizione è far si che Israele rimanga uno Stato ebraico, democratico e tutto fuorché uno Stato bi-nazionale […] dovremmo supportare qualsiasi accordo che porti a un futuro sicuro a tutti gli israeliani». Bennett si è invece più volte espresso contro la nascita di uno Stato palestinese, definendolo «una pazzia». Infatti, nel 2012, tenne un intervento alla conferenza presidenziale israeliana in cui, oltre che ribadire la sua contrarietà ai due Stati, propose di assorbire completamente i territori di Gaza e della West Bank, applicando piena sovranità sulle aree A e B della nomenclatura di Oslo.

Sulla questione di Gerusalemme troviamo unanimità totale. Bennett dichiara Gerusalemme una città totalmente israeliana per ragioni religiose che ne fanno l’antica capitale del regno di Giudea. Gantz la pensa come tutti i militari israeliani, secondo cui cedere Gerusalemme significherebbe lasciare un prezioso avamposto e porsi in una posizione strategicamente debole. Lapid, invece, quando Donald Trump nel 2017 spostò l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, di fatto riconoscendola come capitale di Israele  – su cui la comunità internazionale si è espressa in maniera contraria – fu uno dei primi a ringraziarlo. In conferenza stampa con l’Associazione corrispondenti diplomatici israeliani affermò infatti che l’elezione di Trump «è stata certamente un miracolo accaduto al popolo di Israele e a Netanyahu».

La legittimità e la permanenza degli insediamenti ebraici nella West Bank è forse la questione più attuale e spinosa delle quattro. Si può immaginare che Naftali Bennett, essendo stato a capo di un’organizzazione che ha letteralmente lo scopo di fare pressione sul governo in favore dei coloni, il Consiglio Yesha, non abbia nulla in contrario agli insediamenti nei Territori Occupati. Nell’intervento del 2012, aveva ribadito che la sua proposta non prevedeva in alcun modo spostare chi aveva trovato casa nelle colline della Giudea e Samaria, come la destra israeliana chiama i Territori Occupati. Gantz con tono lapidario nel suo primo discorso da candidato Primo ministro nel 2018 aveva dichiarato: «Rafforzeremo i gush, i blocchi di insediamenti, e le alture del Golan, da cui non ci ritireremo mai. La valle del Giordano rimarrà il nostro confine esterno di sicurezza». Lapid, in un’intervista su The Atlantic nel 2015, diceva che: «C’è una scellerata alleanza tra destra e sinistra israeliana a proposito degli insediamenti. Entrambi pensano che tutti gli insediamenti siano gli stessi. Non c’è differenza, per esempio tra Gush Etzion [vicino a Gerusalemme] o Itamar [uno sperduto insediamento vicino a Nablus]. Perchè? Perchè la sinistra vuole darli via tutti, e la destra vuole tenerli tutti. Sto dicendo “no, non sono la stessa cosa”. Nel futuro non saremo in grado di essere a Itamar perché non ha alcun senso, per via di dove è. E sì, ci terremo i Blocchi».

Infine, nessuno è disposto a concedere un ritorno ai profughi, o ai loro figli e nipoti, che nel 1948 scapparono dall’allora Palestina mandataria a causa delle violenze israeliane. Sempre nell’intervista rilasciata a The Atlantic, Lapid aveva detto: «Dobbiamo fare qualcosa, perché il tempo non è dalla nostra parte. Non possiamo assorbire 3,5 milioni di palestinesi. […] “Ok, ci rendiamo conto che non ci sarà uno stato palestinese. Votiamo!” se diciamo di no, non saremmo una democrazia. Se diciamo di sì non saremmo più uno Stato ebraico. E io voglio vivere in uno Stato ebraico», come d’altronde Gantz aveva detto, difendendo la componente ebraica di Israele. Nel suo controverso progetto di soluzione al conflitto, Bennett non ammetteva l’idea di un possibile ritorno dei profughi, addirittura dicendo che i Palestinesi non dovrebbero mai avere uno Stato proprio, per non permettergli di avere un flusso di immigrati provenienti da tutto il Medio Oriente.

In ognuna di queste questioni è difficile trovare una dichiarazione di Mansour Abbas. Non è un caso. L’obiettivo di Abbas è sempre stato quello di proporsi come più moderato verso gli israeliani, e adesso la sua dichiarata intenzione è quella di sfruttare la presenza di Ra’am nel governo per migliorare la condizione di quel 20% della popolazione israeliana di etnia araba, costantemente sottoposta a discriminazione e abusi. In un’intervista a TIME, Abbas dichiarava: «Sono stato eletto per servire prima di tutto i cittadini arabi e cercare di portare soluzioni ai loro problemi. Questa è la priorità numero uno, due e tre […], ci focalizziamo sui cittadini arabi israeliani dentro la Linea Verde. Abbiamo problemi cardinali: violenza, crimine, stress economico, un’importante  mancanza di alloggi, villaggi non riconosciuti nel Negev [delle ultime comunità beduine parzialmente nomadi ndr]. Vogliamo guarire i nostri problemi».

Abbas ha già conseguito un importante successo. Bennett e Lapid hanno approvato un raddoppio del piano quinquennale di investimenti per il settore arabo, che adesso è arrivato a 35 miliardi di shekels (10.75 milioni di dollari).

Il gradimento del governo sulle politiche interne

In politica interna, il governo viene di nuovo bocciato. Come riferisce l’Istituto per la democrazia di Israele (IDI) nel suo report mensile, i nuovi volti noti non raggiungono una maggioranza dei consensi in quelle che adesso sono le due questioni fondamentali per i cittadini israeliani: la gestione della pandemia da Covid-19 e la sicurezza nazionale. Secondo l’IDI, solo il 45,3% della popolazione approva la performance del governo nella gestione della pandemia (Canale 12 era stato meno generoso stimando solo il 39%). In effetti, da giugno, Israele ha dovuto introdurre nuove restrizioni, e sotto Netanyahu, grazie al massiccio impiego dei militari, la campagna vaccinale era stata strabiliante. Ma è sulla sicurezza nazionale che c’è il buco più grande. Secondo il report, ad agosto, solo il 45% degli israeliani si sentiva ottimista in merito alla sicurezza nazionale, tema su cui lo Stato di Israele ha sempre vissuto dalla sua nascita, contro il 65% a marzo, subito prima delle ultime elezioni. La perdita grossa si è avuta nelle file della destra conservatrice, al giorno d’oggi fondamentale per governare il Paese.

Israele preferisce ancora Bibi

Il popolo israeliano è ancora legato alla figura di Netanyahu, dalla sua retorica e dal suo modo di impostare la vita del governo. Anche per questo le nuove forze di governo non possono, anche volendo, fare piazza pulita della sua eredità in un istante. Questa è una coalizione creata all’unico scopo di mandare via Bibi, nella quale i suoi membri non hanno fatto altro che pestarsi i piedi l’un l’altro. 

La maggioranza di questo governo ha idee molto simili a quelle di Netanyahu, o di quella fetta di popolazione che rappresenta. Ma i sondaggi mensili condotti dal Canale 12 mostrano quanto gli israeliani ancora amino il vecchio premier. Nessuna personalità del nuovo governo è considerata più adatta di Netanyahu per essere capo del governo: messi a confronto solo il 25% degli intervistati pensa che Bennett sia più tagliato per essere Primo ministro di Netanyahu, che viene scelto dal 45%; nello stesso scenario di confronto, Lapid e Gantz sono preferiti dal 26% degli intervistati, mentre un robusto 47% sceglie Bibi. Il 56% dice chiaramente che, dopo 12 anni di governo, la carriera di Netanyahu come Primo ministro non è finita.

 

 

Fonti e approfondimenti

Ahren R., ‘Lapid says he would never negotiate on Jerusalem, even if it means no peace’; The Times of Israel , 25 dicembre 2017.

Gantz B., ‘Benny Gantz Breaks Silence: Netanyahu Is No King, Can’t Keep Seat if Indicted’, 2019; Haaretz.com.

Goldberg J., ‘Israel cannot absorb 3.5 millions Palestinians and remain a Jewish and Democratic state’; The Atlantic,  25 giugno 2015.

Halpern O., Qana K., ‘It’s Possible to Do Things Differently.’ The Arab Kingmaker Who Joined Israel’s Far-Right to Oust Netanyahu’; TIME, 11 giugno 2021.

Hermann, O.Anabi; ‘Ahead of the jewish new year- national mood pessimistic’– Israeli Voice Index; Israel Democracy Institute, 01 settembre 2021.

Lapid: ‘Israel will protect its interests no matter what’; Conflict Zone, DW English, 2017.

Kershner I.;  ‘Who is Yair Lapid, Israel would be Prime Minister?’; The New York Times,       05 maggio 2021.

Krauss J.;  ‘Explainer: Who is Naftali Bennett, Israel’s new leader?’; AP News, 14 giugno 2021.

4^ Conferenza Presidenziale Israeliana ‘Affrontare il domani’, panel: ‘I confini di Israele domani’, 2012 ; intervento del signor  Naftali Bennet .

 ‘In TV polls israelis give new government negative marks on pandemic performances’;     The Times of Israel, 20 agosto 2021.

 

 

Editing a cura di Carolina Venco

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