Esiste davvero una guerra commerciale tra USA e Cina?

Le crescenti tensioni tra le due sponde del Pacifico, che oramai durano da quasi un anno, non hanno ancora portato Washington e Pechino a utilizzare il “bazooka” della guerra commerciale. La scorsa estate Donald Trump ha fatto aprire un’indagine contro la Cina, in base alla Sezione 301 del Trade Act del 1974. Secondo questa misura il governo statunitense può imporre sanzioni a Paesi stranieri che abbiano violato accordi commerciali o abbiano attuato altre pratiche illegittime.

I dazi che ne sono scaturiti però non devono far trarre conclusioni affrettate. Nonostante i $50 miliardi di dazi imposti venerdì scorso dall’amministrazione Trump su diverse merci cinesi e la successiva risposta di Pechino, la guerra commerciale non è ancora in atto. Il dialogo è ancora la via preferenziale di questa lunga partita a scacchi in cui entrambi i giocatori vogliono evitare di perdere. In questo senso il caso ZTE è emblematico per capire meglio la posta in gioco e i possibili sviluppi politico-economici.

La compagnia di telecomunicazioni cinese ha subito il 17 aprile scorso il colpo più grande di questa frizione commerciale inflitta da Washington: il divieto per le aziende statunitensi di vendere materiali alla ZTE per i prossimi sette anni. Questa sentenza di morte per il colosso cinese è stata maturata dopo la scoperta della vendita illegale di materiali statunitensi da parte dell’azienda all’Iran, attualmente sotto sanzioni americane. L’espediente iraniano è stato però funzionale per coprire il vero obiettivo di Washington nei confronti di Pechino: il piano Made in China 2025. Uno degli ambiziosi obiettivi del progetto emanato nel 2015 è di far crescere drasticamente la capacità cinese in ambito tecnologico, ultimo vero baluardo della supremazia USA nei confronti della seconda economia mondiale.

Il conflitto tecnologico

Il conflitto quindi non è commerciale, bensì tecnologico. La decisione di Trump dell’imporre una sanzione impossibile da sostenere alla ZTE si è però rivelata essere una carta spesa per arrivare a un obbiettivo preciso: un tavolo negoziale per la ridiscussione della bilancia commerciale tra i due paesi. Pechino ha fatto intendere all’amministrazione arrogante di Trump che attaccare frontalmente la politica cinese non sia la strategia che può portare dei frutti. Il Segretario del Tesoro Mnuchin e il Segretario al Commercio Wilbur Ross hanno provato a far passare la linea dello scontro diretto anticipata da Trump, ma le reazioni di Xi Jinping, il suo vice Wang Qhisang e il quarto vice primo ministro Liu He hanno fatto virare la discussione su toni più pacati.

Liu He è l’ultimo in ordine di importanza dei vice-primi ministri di Li Keqiang ma, come la narrativa cinese ci insegna, è sempre difficile stabilire chi sia il vero responsabile all’interno della gestione degli affari. Liu è un economista cinese che ha studiato negli USA, ad Harvard, ed è soprattutto uno stretto amico di Xi Jinping. Questo binomio rende facile la comprensione del perché sia stato lui a guidare le trattative con la delegazione USA e non Li Keqiang, primo ministro in carica.

Il 4 giugno l’amministrazione Trump e la ZTE hanno trovato un accordo che prevede il licenziamento di tutti, o quasi, i top manager e il pagamento di una multa totale di $1.7 miliardi, in cambio dell’annullamento del divieto. Nonostante questa sanzione è importane sottolineare come la compagnia abbia una forza lavoro di 80,000 unità e un eventuale fallimento avrebbe creato una situazione problematica non solo a livello economico e tecnologico per la Cina, ma anche sociale. Entro la fine di giugno la compagnia cinese dovrà cambiare gran parte del suo direttivo, dando la possibilità alle autorità statunitensi di esserne parte integrante in modo tale da assicurare una sorveglianza approfondita sulle future mosse cinesi in campo tecnologico, verificando che i materiali siano utilizzati in accordo con quanto dichiarato. Infatti, una percentuale tra il 25% e il 30% dei componenti utilizzati dalle apparecchiature ZTE proviene da aziende USA e, secondo Washington, sembra evidente che il raggiungimento degli obiettivi ambiziosi del Made in China 2025 passi attraverso l’utilizzo “illecito” di materiali avanzati di marca USA.

Il salvataggio di ZTE da parte di Trump ha scaturito moltissime critiche nel Senato statunitense da entrambe le parti, repubblicani e democratici. Il caso ZTE è stato risolto, almeno per ora, dopo lunghe trattative ad alto livello tra Washington e Pechino. Donald Trump però non ha nessuna volontà di essere visto come fino-cinese e questo porta a una sola conclusione: le sanzioni di venerdì sono funzionali a Trump per distaccarsi dall’etichetta di essere “amico della Cina”.

Alcuni senatori ritengono ZTE un pericolo per la sicurezza nazionale, minacciando di dare battaglia a Trump per reinserire il divieto di acquisto da aziende statunitensi alla compagnia cinese. Questo però non è presente all’interno del bilancio della Camera dei Rappresentanti, dove il Presidente USA ha un appoggio maggiore che in Senato. I senatori repubblicani sono stati convocati dalla Casa Bianca per un incontro col Presidente e sul tavolo la discussione principale verteva sicuramente su ZTE e su come riuscire a superare questa impasse. In cinque mesi gli USA voteranno per le elezioni di mid-term e i Repubblicani dovranno presentarsi uniti se vogliono ancora sperare di governare il Paese per almeno i prossimi due anni.

La forte contrapposizione tecnologica con Washington spaventa Pechino perché il suo sviluppo, seppur molto veloce, è ancora fragile in confronto alla superpotenza occidentale. Proprio per questo motivo la Cina nel 2014 ha creato il “Big Fund”, formalmente conosciuto come il Fondo Nazionale per l’Investimento sull’Industria dei Circuiti Integrati, con un capitale iniziale di 138 miliardi di RMB (circa $22 miliardi). A soli quattro anni dall’apertura il fondo conta circa $140 miliardi. Impressionante, come tutti gli investimenti cinesi degli ultimi cinque anni. L’obiettivo è molto semplice: terminare la dipendenza tecnologica dalle industrie estere. Infatti, oggi, circa il 15% del totale dell’import cinese ($350 miliardi) è destinato ai circuiti integrati. Solo per fare un paragone indicativo della grandezza, l’import di petrolio è di “appena” il 10% del totale. Di nuovo ecco emergere la necessità di ricollegare queste azioni al Made in China 2025.

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Minacce e opportunità europee

Nonostante le vie legali attraverso le quali Washington sta gestendo il caso ZTE, il colosso asiatico ha anche grandi ambizioni in Europa. Dal 2017 l’Italia può essere considerata l’hub europeo di ZTE, il quale ha annunciato un investimento di circa €100 milioni l’anno per almeno cinque anni, puntando a sviluppare la nuova frontiera del digitale: il G5. Osservando i grandi capitali che Pechino ha deciso di investire in Europa nell’ultimo quinquennio e comparando questo interesse crescente con i dazi imposti da Washington a Bruxelles il 1 giugno 2018, si può intravedere un cambiamento importante negli assi geopolitici. La Cina ha sempre visto l’Unione Europea come possibile alleata a livello economico e internazionale, e la frizione che sia Pechino sia Bruxelles stanno vivendo con Trump spinge i due poli opposti dell’Eurasia ad aprire maggiormente il dialogo. Ancora una volta, il caso ZTE può essere la cartina tornasole di una problematica fondamentale: la difficoltà per i c.d. paesi sviluppati di poter avere un dialogo alla pari con una Cina che ancora si impunta nel definirsi paese in via di sviluppo. Bruxelles ha la possibilità di entrare all’interno di un circolo economico positivo grazie al conflitto tecnologico tra gli USA e la Cina, attirando investitori da entrambi i paesi. Allo stesso tempo, senza le giuste precauzioni, resta il rischio che segua un periodo d’instabilità socio-politico.

 

Fonti e Approfondimenti:

http://www.scmp.com/tech/article/2149948/lifting-us-export-ban-brings-relief-zte-staff-who-had-feared-jobs

http://www.scmp.com/tech/article/2150310/zte-replace-board-fire-senior-management-under-us-settlement

http://www.scmp.com/news/china/economy/article/2150481/zte-shares-resume-trading-hong-kong-after-us14-bln-settlement

https://asia.nikkei.com/Spotlight/Cover-Story/China-s-upstart-chip-companies-aim-to-topple-Samsung-Intel-and-TSMC

http://www.scmp.com/news/china/economy/article/2151355/us-senate-prepares-pass-bill-would-repeal-donald-trumps-zte-deal

 

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