“La nostra sarà una pulizia etnica controllata e finanziata”.
Alla fine del XV secolo Ferdinando II completò la Reconquista spagnola, strappando Granada agli arabi e ponendo fine a un processo durato 750 anni. Di lì a poco Carlo V avrebbe riunificato il Sacro Romano impero e l’Europa, ereditando dalla madre Giovanna di Castiglia, figlia di Ferdinando, anche i ricchissimi territori del Nuovo Mondo. L’impresa della conquista delle Americhe procedeva in linea con la tradizione delle crociate, sotto la benedizione del Papato e come opera di evangelizzazione, l’espansione del Sacro impero “estendeva il regno di Dio sulla terra”.
Prima di ogni avanzata militare i conquistadores dovevano leggere a degli ignari indios una lunga intimazione a convertirsi alla fede cattolica “Se non lo farete, o porrete maliziosamente indugio, affermo che con l’aiuto di Dio io entrerò con forza contro di voi e vi assoggetterò al giogo e all’obbedienza della Chiesa e di Sua Maestà e prenderò le vostre mogli e i vostri figli e li farò schiavi e come schiavi li venderò e disporrò di loro come Sua Maestà comanderà e prenderò i vostri beni e vi farò tutto il male e il danno che potrò”. Spezie, oro, argento e pietre preziose: i tesori delle terre appena scoperte accesero la cupidigia degli avventurieri che, con proprie risorse o sovvenzionati da impresari, finanziarono le spedizioni di conquista senza l’intervento della corona. L’invasione del nuovo mondo combinò quindi la diffusione della fede cristiana con il saccheggio delle ricchezze e lo sterminio delle popolazioni autoctone. Gli amerindi sopravvissuti ai genocidi venivano ridotti in schiavitù ed attribuiti tramite encomienda ai conquistatori, contemporaneamente alla concessione delle terre.
L’encomienda era una istituzione giuridica di ripartizione di anime da convertire e da assistere, ma in realtà autorizzava e legalizzava la schiavitù dal 1500, quando la regina Isabella l’aveva formalmente proibita. Il possesso degli indios aveva una durata di due vite: quella dell’encomendero e quella del suo erede più prossimo. Gli indigeni venivano utilizzati come bestie da soma e come tali morirono a milioni lungo i fiumi dove si raccoglieva l’oro lavorando mezzi immersi nell’acqua, avvelenati nelle miniere dove si estraeva l’argento con il mercurio, lavorando i campi fino al collasso fisico, stuprati o uccisi per divertimento. Molti tra loro precedevano il destino prescritto dagli spagnoli ammazzando i propri figli e suicidandosi in massa, dimostrando all’invasore che li credeva animali quanta e che profonda conoscenza avessero del valore della libertà e della vita. Le giustificazioni morali per queste atrocità vennero prontamente fornite dalla Chiesa e dalla società europea. Secondo il conte di Buffon negli indios non v’era il minimo sintomo di “un’attività dell’anima”, il viceré del Messico prescriveva il lavoro in miniera per curare la loro “naturale cattiveria” e padre Gregorio Garcia sosteneva che fossero di discendenza giudea, perché come loro “sono pigri, non credono nei miracoli di Gesù Cristo e non sono riconoscenti agli spagnoli per tutto il bene che hanno fatto loro” e di conseguenza ammazzabili senza peccato.
Las Casas, conversione, Cuba, Nuove Leggi del 1542
Las Casas, nato a Siviglia, crebbe però in questo contesto. Figlio di un encomendero trasferitosi a Santo Domingo, visse con agio nel suo status fino ai suoi vent’anni. Nel 1510, divenuto prete, rimase colpito dal sermone di un frate Domenicano, responsabile dell’Inquisizione nelle terre del nuovo mondo. Il frate Antonio de Montesinos accusò le più alte cariche del Consiglio delle Indie presenti a Santo Domingo di perpetrare impuniti un genocidio nei confronti delle popolazioni indigene, minacciandoli poi di dannazione eterna.
Il religioso venne ovviamente richiamato in patria, il suo sermone, tuttavia, servì da preparazione spirituale al viaggio che Bartolomé de las Casas avrebbe intrapreso a breve alla conquista di Cuba. Parlando di America Latina, è inevitabile fermarsi e osservare l’incredibile che puntualmente accade su quest’isola e l’animo del giovane prete venne davvero risvegliato da ciò che vide. Imbarcato nel 1513 con la spedizione di Diego Velasquez de Cuellar, fu testimone dello sterminio del popolo Taino per la civilizzazione della colonia. “I miei occhi hanno visto tutte queste cose, così estranee alla natura umana; e ho quasi paura a raccontarle, credendo di sbagliarmi, pensando che forse fossero solo un incubo. In verità, molte di più e molto più atroci ne accadono nelle Indie, ma io non le scorderò mai”.
Come partecipante alla missione e incaricato dell’evangelizzazione, avrebbe dovuto ricevere molte terre ed encomiende, ma tornato a Santo Domingo rinunciò a tutto e partì verso la Spagna per convincere il re Ferdinando a mettere fine all’istituto dell’encomienda. Il suo incontro con il sovrano, nel 1515, si ridusse ad un nulla di fatto, ostacolato dalle posizioni dell’arcivescovo e cappellano reale Juan Rodriguez de Fonseca che era lui stesso un encomendero. L’anno dopo Ferdinando morì e salì al trono Carlo, mentre Las Casas venne insignito del titolo di Protettore degli Indios.
Così nel 1517 preparò un piano di insediamento alternativo, fatto di coloni spagnoli che fossero contadini, per costruire una colonia utopistica in armonia con gli indigeni, senza l’uso delle armi e dell’istituto dell’encomienda. Il progetto riuscì a passare al vaglio della corte e del re i quali, di origine fiamminga e non spagnola, possedevano diversa cultura e diversi interessi rispetto ai regnanti precedenti ed autorizzarono a procedere con l’insediamento. La colonia sorse nel nord del Venezuela a Cumana, 400 chilometri da Caracas, ed ebbe durata di 3 anni. Nel 1921 venne attaccata e distrutta da una sommossa indigena, secondo alcuni storici fomentata dai vicini spagnoli infastiditi dalle idee di Las Casas.
Dopo l’insuccesso venezuelano, partì per le altre colonie, Guatemala, Perù, Messico e in questi viaggi formulò il suo metodo di conversione basandosi su due principi: predicare il vangelo a tutti gli uomini e trattarli come eguali; la volontarietà e la comprensione della fede come requisiti necessari per la conversione. Tornato in Spagna si dedicò completamente alla sua missione di riformulare le leggi che governavano lo sfruttamento delle colonie, sulla base delle sue esperienze e dei principi formulati. Nel 1542 presentò all’imperatore Carlo V una relazione sulle atrocità perpetrate contro gli Indios, la “Brevisima relacion de la destruccion de las Indias”. Nel novembre dello stesso anno, l’imperatore firmò le Nuove Leggi che abolivano l’encomienda e rendevano illegale la schiavitù degli indios, oltre a vietare il loro utilizzo come portatori al posto degli asini o dei cavalli.
Vescovo in Chiapas, rogo del Confesionario nel 1548.
Le Nuove Leggi furono così impopolari tra i conquistatori al di là dell’Oceano da far scoppiare rivolte e formulare minacce contro la vita di Las Casas, il quale in realtà non era soddisfatto delle leggi perché non abbastanza drastiche per porre un freno allo sfruttamento incondizionato. Tornato nelle Americhe come vescovo del Chiapas, scrisse il famoso Confesionario, un manuale di precetti per la pratica della religione cattolica nelle Indie, dove in dodici regole vietava la confessione e il perdono dei peccati a quanti avessero perpetuato la schiavitù degli indigeni e praticato l’encomienda. All’epoca questi testi rappresentavano quasi delle dissertazioni giuridiche e l’impopolarità del Protettore degli Indios aumentava. Nel 1548 il viceré della Nuova Spagna Antonio Mendoza ordinò la distruzione di tutte le copie del Confesionario e le fece bruciare nella piazza centrale di Città del Messico, mettendo l’inquisizione contro il Las Casas che da allora lasciò il nuovo mondo per sempre.
Conclusioni, nuove discriminazioni, ius soli
La lotta di Las Casas non portò risultati immediati, la Suprema Corte di Giustizia del Paraguay, ad esempio, esplicitò che “gli indios sono esseri umani, proprio come gli altri abitanti della repubblica” solo nel settembre del 1957. Le avventatezze dei conquistatori portarono all’estinzione di intere etnie e la popolazione indigena diminuì da 80 a 10 milioni dal 1500 al 1550 e ancora oggi non si sono interrotte le discriminazioni e le differenziazioni razziali tra discendenti dei nativi e nuovi creoli.
Le organizzazioni Mapuche nel Cile sono ancora osteggiati dal governo a causa delle loro rivendicazioni di autodeterminazione giuridica e di restituzione delle terre espropriate. Gli indigeni dell’Ecuador sono stati letteralmente inondati e avvelenati dal petrolio della Chevron-Texaco. In Brasile esistono 300 popoli differenti con 275 lingue specifiche ai quali il governo non vuole riconoscere personalità giuridica. Solo alla fine del secolo scorso gli Stati Latinoamericani hanno cominciato a riconoscere questi popoli all’interno delle proprie costituzioni e, nonostante questo, solo Bolivia ed Ecuador posseggono costutuzioni definibili “indigeniste”.
L’indigenismo è il complesso delle politiche richieste e/o concesse relative alle popolazioni amerinde. Oggi questo si può dividere in cinque parti. L’indigenismo delle genealogie riguarda i Paesi in cui la popolazione indigena è estinta. Come nelle isole dei Caraibi. L’indigenismo delle riserve riguarda invece i Paesi in cui la popolazione locale è stata “sommersa” da europei o afro-americani. “Sommerso” non significa “estinto” ma ridotto a numeri minimi e a scarsa compattezza territoriale. L’indigenismo delle autonomie si riferisce a quelle popolazioni con adeguata compattezza territoriale che può consentire la formazione di regioni a statuto speciale, molte delle quali sono nate attraverso rivolte armate, come nel caso dei Miskitu, Sumu e Rama in Nicaragua nel 1981 e nel Chiapas messicano. Nel caso di impossibilità di formare riserve o autonomie regionali l’unica tutela giuridica è data da misure generali sulla tutela delle minoranze, racchiuse nell’indigenismo delle minoranze. Di indigenismo delle maggioranze, possiamo infine parlare per gli stati dove la popolazione indigena supera il 50% del totale come Bolivia, Guatemala, Perù ed Ecuador. In questi paesi la prima rivendicazione è stata quella del riconoscimento del carattere multiculturale e multietnico della società o della Nazione.
Gli insegnamenti di Las Casas hanno contribuito alla salvaguardia di questi popoli, difendendo i loro diritti umani prima della dichiarazione dei diritti dell’uomo, prima della guerra di secessione e prima di Kant. I suoi nemici sono stati quelli che si combattono oggi, come il pregiudizio o il colore della pelle. Allora le classi dominanti non potevano accettare che i diversi fossero cristiani, o semplicemente umani, perché avrebbero dovuto trattarli come tali. Oggi le élite governative non accettano lo Ius Soli, perché sarebbe controproducente attuare una pulizia etnica contro degli elettori.
“La nostra sarà una pulizia etnica controllata e finanziata, la stessa che stanno subendo gli italiani, oppressi dai clandestini” Matteo Salvini, Ponte di Legno, 15 agosto 2016.
Fonti e approfondimenti:
Bartolomé de Las Casas: A Biography, Lawrence A. Clayton, Cambridge University Press, November 2012;
Le vene aperte dell’America Latina, Eduardo Galeano, 1971;
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http://www.limesonline.com/rubrica/indigeni-oltre-370-milioni-di-persone-in-una-novantina-di-paesi