Domani il pastore statunitense Andrew Brunson comparirà in tribunale per una nuova puntata del processo per terrorismo che lo vede protagonista dall’ottobre 2016 e che potrebbe causargli fino a 35 anni di carcere in Turchia. Il mancato rilascio di Brunson lo scorso agosto aveva provocato un’aspra crisi diplomatica tra Washington e Ankara consumatasi a colpi di tweet al vetriolo tra Trump ed Erdogan. Erano seguite le tariffe americane su acciaio e alluminio che minacciano di destabilizzare ulteriormente il fragile equilibrio economico turco.
Come nel caso dell’omerica Elena di Troia, Brunson non è però che il casus belli di un’ostilità che ha radici e cause più profonde.
Il colpo di stato del 2016
Il dramma di Brunson è da porre nella cornice più ampia del fallito golpe di luglio 2016 e della massiccia repressione che ne è seguita. Voci di biasimo si erano levate dalla Casa Bianca già nel 2013 quando il governo dell’AKP aveva brutalmente risposto alle rivolte in Gezi Park e negli anni successivi rispetto al crescente accentramento del potere nelle mani di Erdogan.
E’ tre anni dopo però che il rapporto con Obama si incrina profondamente. Innanzitutto, Erdogan palesa il proprio disappunto per non aver ricevuto sufficienti manifestazioni di supporto dagli USA al momento del golpe; in secondo luogo si diffonde l’idea che gli USA possano aver orchestrato il colpo di stato. Fethullah Gülen infatti, la presunta mente del coup, risiede da anni in Pennsylvania e alla richiesta turca di estradarlo, gli USA tutt’oggi continuano a rispondere temporeggiando.
Nei mesi successivi quindi, una campagna di arresti prende di mira i cittadini americani in Turchia – come Brunson, da più di 20 anni in Turchia – e gli impiegati turchi nel consolato statunitense adducendo reciproche restrizioni sui visti. Le accuse, in molti casi dubbie, sono di avere connessioni con Gülen. Gli arresti indiscriminati e la deriva sempre più autoritaria dell’AKP allontanano i due alleati e si sommano ad altre fonti di tensione nelle relazioni bilaterali.
Da Kobane ad Afrin, la questione curda e il caos in Siria
La Turchia ha criticato l’iniziativa americana in Medio Oriente in diverse occasioni: nel caso del dietro-front sul JCPOA con l’Iran e alla vigilia del trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme per menzionare le più recenti. Ma la Siria rimane il nodo cruciale delle divergenze tra i due Paesi nella regione.
Allo scoppio del conflitto, una volta realizzato l’impatto devastante dell’intransigenza di Assad rispetto alla richiesta popolare di riforme, USA e Turchia iniziano a spingere per la caduta del regime. Almeno in teoria. In pratica la Turchia assume una linea più proattiva mossa dall’urgenza di porre un freno al flusso di rifugiati siriani e alla montante instabilità al confine; gli USA si ritagliano un ruolo marginale onde evitare di finire invischiati in un secondo Iraq.
Nel 2014 però le regole del gioco cambiano. Lo Stato Islamico fa la sua comparsa e diventa la preoccupazione numero uno degli americani spingendoli verso i curdi siriani.
In termini strategici la scelta americana di supportare i curdi appare tutt’altro che irragionevole data la reticenza turca e della maggior parte dei ribelli siriani a impegnarsi contro l’ISIS e distogliere l’attenzione dal regime. Quando la bandiera nera viene issata a Kobane, occupata dalla fazione curda delle YPG nel 2012, la Turchia rifiuta di intervenire. Il problema con l’YPG è che essendo un prodotto del PKK è considerata un’organizzazione terrorista dalla Turchia anche se, al contrario della gemella turca, USA e Unione Europea non la riconoscono come tale. Ankara peraltro si convince ad aprire la base di Incirlik alla coalizione USA solo dopo l’attacco a Soruk del 2015.
La guerra al terrore non era infatti la priorità della Turchia nell’Iraq del 2003 tanto quanto non lo è nella Siria del 2014. La priorità è Assad ed Erdogan non si fa scrupoli a sostenere anche gruppi estremisti, come Ahrar al-Sham, invisi agli USA, per perseguirlo. Inoltre un forte anti americanismo in Turchia era stato alimentato dagli anni ’90 dal supporto americano verso la creazione di una regione autonoma curda in Iraq. Dunque l’alleanza statunitense con i curdi siriani rievoca lo spettro di un altro stato curdo alle porte di casa.
Dopo la riconquista di Kobane, le YPG, parte delle Syrian Defense Forces (SDF), passano all’offensiva e via via assumono il controllo delle zone strappate all’ISIS. Ankara comincia a fremere di fronte alla possibilità di un’espansione curda a est dell’Eufrate e pone due “linee rosse” a Washington: oltrepassare il fiume e armare direttamente le YPG. La prima condizione è rotta già nel 2016 quando le SDF attraversano di fatto il fiume e riconquistano Manbij. Nonostante le promesse americane, una parte dei miliziani rimane nella regione.
In questo contesto è da collocare l’operazione a guida turca Euphrates Shield, la prima via terra in Siria, con il doppio intento di liberare il resto del confine dagli estremisti dell’ISIS e, soprattutto, frenare l’avanzata curda. A fomentare Ankara si aggiungono anche fattori interni: il cessate il fuoco con il PKK, stabilito un paio d’anni prima, si era sgretolato definitivamente quando l’HDP, il partito d’opposizione curdo, aveva ottenuto il 10% dei voti nelle elezioni del 2015, costringendo l’AKP a chiamare nuove elezioni per assicurarsi la maggioranza. A luglio 2016 poi, il tentato golpe sconvolge l’establishment e affossa le relazioni con gli USA.
In concomitanza con il maggiore attivismo nel teatro siriano e con somma preoccupazione degli USA, Erdogan si riavvicina anche a Mosca nel 2016, dopo il gelo causato dal jet russo abbattuto nel 2015. Erdogan inizia a ricalibrare la propria strategia in Siria tenendo presente che l’intervento della Russia aveva difatti reso impossibile escludere Assad dal futuro del Paese. La mutata situazione sul terreno e la persistente assenza di una politica americana per la Siria creano le premesse per un asse Turchia-Iran-Russia nel Paese.
Ankara muove verso un’accettazione del raìs siriano in chiave anti-curda, trend che si intensifica nel 2017 in occasione della battaglia di Raqqa, l’ex capitale del califfato. Washington, a questo punto guidata da Donald Trump, rompe anche la seconda linea rossa e arma le truppe del YPG direttamente. Il successo dell’offensiva non determina però una rottura tra gli USA e i curdi. Con il beneplacito di Mosca e Teheran e dopo numerosi avvertimenti alla Casa Bianca di interrompere le relazioni con l’YPG, a gennaio di quest’anno la Turchia lancia Olive Branch e conquista Afrin nella Siria nord occidentale. Afrin non è di vitale importanza per gli USA ma la possibilità che le truppe turche occupino Manbij pone un problema per la strategia anti-ISIS statunitense, impegnata a eradicare gli ultimi avamposti dello Stato Islamico con il supporto curdo. La crisi e lo scontro aperto sono scongiurate in giugno con un accordo tra Ankara e Washington per il ritiro dei soldati curdi da Manbij anche se sviluppi futuri rimangono volatili nell’esplosivo contesto della Siria.
F-35 vs S-400, il problema delle armi russe
Sintomatico della ritrovata empatia tra Erdogan e Putin a partire dal 2016 è anche l’acquisto da parte di Ankara del super tecnologico sistema di difesa aerea S-400 a firma russa. Nel corso del 2017 la Turchia ha finalizzato una commissione del valore di 2.5 miliardi di dollari attirando le critiche della Casa Bianca. Tra gli argomenti mossi contro i missili russi, a parte la chiara espansione dell’influenza russa nel settore bellico, Washington ha sollevato il pericolo di esporre segreti militari USA e NATO all’occhio russo nel tentativo di integrare S-400, F-35 e gli altri sistemi di difesa dei Paesi parte dell’organizzazione. La Turchia infatti è in attesa di circa 100 caccia da guerra statunitensi, gli F-35.
Lo scorso agosto Trump ha approvato il maxi decreto sulle politiche di difesa per l’anno 2019 con un budget stellare da 717 miliardi di dollari. Secondo quanto contenuto nel disegno di legge la consegna degli F-35 – di cui 2 già consegnati – dovrebbe essere posticipata all’emissione di una valutazione del Pentagono che prenda in considerazione i rapporti USA- Turchia e l’impatto del S-400 sui caccia americani. Erdogan dal canto suo sembra intenzionato a coinvolgere l’arbitrato internazionale.
La controversia si prospetta ancora lunga e spinosa se si tiene anche presente che alcune delle parti dei jet sono prodotte in Turchia e spostare la produzione nonché formare un nuovo staff avrebbe un impatto considerevole in termini di costi e tempo per gli USA.
In attesa di novità sulla vicenda Brunson e sugli altri fronti che abbiamo analizzato è bene ricordare però che la posizione geostrategica della Turchia la rende unica agli occhi degli Stati Uniti e gli interessi che legano i due Paesi a livello economico e soprattutto di sicurezza rimangono tanti. Abbastanza per impedire alla relazione di deragliare irreparabilmente.
Fonti e Approfondimenti:
https://www.csis.org/analysis/us-turkish-tensions-syria-manbij-conundrum
https://www.theatlantic.com/international/archive/2018/01/syria-turkey-kurds-ottoman-isis/551099/
https://www.cfr.org/event/northern-syria-united-states-turkey-and-kurds
https://www.politico.com/story/2016/07/obama-turkey-225659
http://www.gmfus.org/publications/turkey%E2%80%93us-relations-how-proceed-after-obama
https://www.foreignaffairs.com/articles/europe/2018-07-30/how-save-us-turkey-relationship
https://www.foreignaffairs.com/articles/turkey/2017-09-04/turkeys-new-alliances
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