I paradisi fiscali nei Caraibi inglesi

paradisi fiscali
@Patrick Cannon - Flickr - Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

Nel 2016, l’Oxfam – una confederazione di Ong dedita alla riduzione della povertà globale – ha steso un rapporto chiamato “Battaglia Fiscale”, in cui esponeva i 15 paradisi fiscali (o tax havens) più aggressivi al mondo. Fra questi, ben 5 fanno parte di quelle che, un tempo, erano definite British West Colonies.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, alcune ex colonie britanniche si sono trasformate in Stati completamente indipendenti, mentre altre sono rimaste sotto la dipendenza del Regno Unito diventando dei Territori Britannici d’Oltremare (o BOT, British Overseas Territories). Da allora, molti di questi luoghi svolgono un ruolo centrale nei movimenti della finanza internazionale: spesso diventando prima dei Centri per la Finanza Internazionale (o IFC, International Financial Centers), e poi dei veri e propri paradisi fiscali. La storia di questi ultimi anni li ha visti spesso sotto le luci dei riflettori, per motivi non del tutto positivi.

La crisi del 2008

All’indomani della crisi finanziaria globale del 2008, molti organismi governativi e giurisdizionali hanno cercato di migliorare la supervisione e le regole del loro settore finanziario. L’obiettivo era di incrementare la resistenza delle istituzioni finanziarie, al fine di evitare un nuovo collasso in futuro. Inoltre, si intendeva anche restringere le possibilità di ingenti movimenti di riciclaggio di denaro.

Per realizzare questi obiettivi, il primo punto a cui mirare erano proprio i più grandi centri finanziari internazionali, tra cui spiccano i “Caraibi anglofoni”. Dal 2008, le Bahamas, le Isole Cayman, St Kitts e Nevis, e St Vincent e Grenadine hanno visto crescere i controlli, e le richieste di maggiore trasparenza rispetto a ciò che avveniva nel loro territorio.

I leaks: dagli Swiss ai Paradise Papers

Per dare manforte al lavoro degli organi interessati, è intervenuta anche la politica, sospinta da un’opinione pubblica “illuminata” grazie a numerose “fuoriuscite” di dati da società e agenti operanti nei paradisi fiscali. La pubblicazione di questi dati –  tra i tanti, gli Swiss Leaks del 2008, i Bahamas Leaks e i Panama Papers del 2016, e i Paradise Papers del 2018 – ha spinto l’opinione pubblica a chiedere maggiore chiarezza e trasparenza.

Quello che è successo dopo questi famigerati leaks – specialmente dopo i Panama – è stata una corsa ai ripari. Uno dei primi principi di un paradiso fiscale è, appunto, la segretezza, e quindi l’anonimato: più vengono posti al centro dell’attenzione, più vengono fatte pressioni per ottenere informazioni, più gli si mette i bastoni tra le ruote. Ma se, da un lato, i paradisi fiscali cercavano in tutti i modi di dimostrare la loro innocenza, dall’altro cercavano di trovare una soluzione al problema.

Le reazioni internazionali

L’Europa, in generale, e il Regno Unito, in particolare, hanno cercato subito di correre ai ripari. L’UE ha presentato una lista delle giurisdizioni finanziare non collaborativementre, nel Regno Unito, il Primo Ministro Cameron era pronto già nel 2016 a stipulare una legge che obbligasse i propri BOT a presentare una lista di tutte le compagnie presenti sui loro territori, oltre che dei conti aperti nelle banche locali.

Non va dimenticato, comunque, che il contributo dei Panama Papers ha velocizzato dei processi in atto da anni. L’OCSE in primis, già da inizio 2000, aveva promosso accordi bilaterali per una maggiore trasparenza tra diversi Stati, al fine di agevolare il controllo dell’elusione ed evasione fiscale. La premessa è che accordi non reciproci nello scambio d’informazioni finanziarie creino un clima adatto a un paradiso fiscale. Nel 2015, quindi, l’organizzazione ha presentato i BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) – ovvero 15 azioni da compiere, dal 2015 in poi, per fare in modo che le aziende paghino le tasse nelle giurisdizioni in cui creano il loro guadagno.

D’altro lato, l’impegno di organismi come il Financial Stability Forum (ora Financial Stability Board) e il Financial Action Task Force si è concentrato sulla necessità di combattere finanziamenti illeciti a gruppi terroristici e fenomeni di riciclaggio di denaro – prestazioni globalmente riconosciute come illegali, ma che usufruiscono delle stesse agevolazioni presenti nei paradisi fiscali.

I risultati ottenuti da queste istituzioni sono stati tanti. Nei Caraibi, molti Paesi si sono allineati alle richieste internazionali – mostrandosi anche fin troppo diligenti, in alcuni casi, nell’adempiere ai loro compiti.

Il Sanctions and Anti-Money Laundering Act del 2018

Per il Regno Unito – uno tra i maggiori protagonisti di questa faccenda – la svolta è giunta solo nel 2018. Caduto il governo di Cameron dopo il referendum sulla Brexit, la Premier Theresa May non si è mai posta in prima linea per cercare di regolamentare la situazione. E’ stato solo grazie a una bizzarra alleanza tra numerose forze politiche del Parlamento inglese – guidata dalla laburista Margaret Hodge e dal conservatore Andrew Mitchell – se è stato possibile fare un immenso passo in avanti.

Grazie a un emendamento del Sanctions and Anti-Money Laundering Act votato il 1 maggio 2018, i Territori Britannici d’Oltremare sono costretti a presentare una lista completa di tutti i beneficiari di conti presso i loro istituti bancari, oltre che fornire i nomi delle società che hanno base nel territorio. Tutto questo entro la fine del 2020.

Il primo a intervenire a favore dei BOT è stato il Ministro degli Esteri, Sir Alan Duncan, riluttante a mettere bocca in un affare interno dei BOT. Quindi, sono arrivate dichiarazioni d’Oltremare che minacciano la secessione, prime fra tutte quelle delle Isole Vergini Britanniche (che furono le più bersagliate dall’opinione pubblica, a seguito dei Panama Papers).

Se fosse “giusto” o meno, attraverso questo emendamento, intervenire nella politica interna dei territori d’oltremare, sembra più che altro un fatto d’opinione. Per Margaret Hodge l’importanza del problema giustifica l’intervento.

Secondo Hodge:

“Le aree in cui siamo intervenuti […]  sono questioni morali. Non posso pensare a  questione che sia più morale del cercare di intervenire per prevenire il traffico di denaro corrotto e di finanza illecita nel mondo”.

Che sia un motivo lecito o meno è difficile da capire, ma che ci siano delle difficoltà nei rapporti con i territori d’Oltremare rispetto a determinate questioni sembra più chiaro che mai.

Le nuove British West Indies

Per quanto concerne la politica che dovrebbero adottare i territori coinvolti, sembra essere abbastanza condivisa l’idea secondo cui l’appartenenza al Regno Unito non abbia fatto altro che beneficiare la crescita dei paradisi fiscali. L’adozione della Common Law (base legale simile in molti Paesi del Commonwealth), oltre alla stabilità e sicurezza politica di un apparato governativo forte ed efficiente, sono stati dei fattori determinanti per questa crescita, senza i quali non si sarebbe ottenuto lo stesso risultato.

Inoltre, Londra si è dimostrata volenterosa nell’aiutare i propri BOT a diventare dei Centri Finanziari Internazionali. Già dagli anni ‘60, la City aveva ben compreso come la perdita di un buon ingresso di tasse – oggi stimato intorno ai 20 miliardi di sterline solo per le compagnie presenti nelle Cayman – fosse meno importante della necessità di attrarre sempre più profitti presso i propri uffici.

Ad ogni modo, sia che si tratti di Territori d’Oltremare Britannici, come nel caso delle Bermuda, delle Isole Cayman, di Anguilla e delle Isole Vergini Britanniche – che insegna come e quanto sia importante avere le “spalle coperte” – sia che si tratti di Stati indipendenti come St Kitts e Nevis, sembra che si possano ottenere delle forti agevolazioni.

Le peculiarità dei Caribbean tax-havens

La storia di come i Caraibi siano divenuti  dei Centri per la Finanza Internazionale è molto simile a quella degli altri Stati. Nel 1936, le Bahamas divennero il primo Centro Finanziario offshore della regione, grazie al lavoro di investitori inglesi e canadesi; negli anni ‘60 e ‘70, poi, la prossimità a Cuba e Miami le resero luoghi utili per il riciclaggio di denaro proveniente da traffici loschi. L’accoglienza di grandi investitori stranieri venne vista subito come un’opportunità per tutti. Grazie ai primi investimenti aumentò l’occupazione locale e molti territori si arricchirono, provvedendo così al proprio auto-sostentamento – valore tuttora rivendicato con fierezza, tra gli altri, dal governatore delle Cayman.

Nel caso delle Cayman, in particolare, l’inesistenza di tasse sembra non interessare le alte sfere governative. Per supportare un welfare di base, infatti, il governo si affida completamente a opere di carità, che sia per l’istruzione o per la sanità. Allo stesso tempo, però, è costretto a tenere prezzi alti nella vendita di prodotti di prima necessità.

Per poter beneficiare di una vita tax-free e diventare cittadini, basta quindi superare pochi semplici ostacoli, secondo il principio della ‘‘Cittadinanza da Investimento’’ (o CBI, Citizenship By Investment) – un programma usato da moltissimi Paesi membri del CARICOM (comunità di Stati caraibici, principalmente anglofoni). Secondo l’OCSE, il programma CBI è un valido strumento per l’elusione fiscale, e non andrebbe permesso.

Alle Cayman, per diventare cittadino bisogna investire circa 390 mila sterline nel territorio – magari comprando una villa con piscina – e presentare un conto bancario di almeno 94 mila sterline. Una volta ottenuta la cittadinanza, si può aprire un conto in banca, sempre su internet, nel giro di pochi giorni, e beneficiare di un conto offshore. 

Ogni arcipelago, comunque, cerca di specializzarsi in un proprio settore finanziario. Mentre le Cayman giocano molto sugli investimenti di grandi società e corporazioni, posti come Nevis (dello Stato di St Kitts e Nevis), si concentrano di più su investimenti privati: la piccola isola, da sempre fiera della propria indipendenza – sancita dalla Costituzione federale dell’arcipelago – è restia al seguire i dettami del governo federale, rivolto a una maggiore apertura nei confronti delle richieste delle organizzazioni internazionali. Nevis, infatti, è specializzata nel nascondere i patrimoni immobiliari, che siano di privati o aziende. L’aggrovigliato sistema giudiziario, unito a un sistema di sicurezza e privacy unico al mondo, permette a milionari e miliardari – ad esempio – di nascondere interi possedimenti che dovrebbero dividere con il proprio partner in caso di divorzio.

Cosa riserva il futuro?

Capire come evolverà la politica del Regno Unito all’indomani del voto del 1 maggio scorso è molto difficile. Sicuramente ci si dovrà aspettare qualche capovolgimento, anche da parte degli Stati Uniti, rimasti per lungo tempo in silenzio.

Eppure numerose ricerche sottolineano come le compagnie statunitensi siano le prime beneficiarie dei conti offshore, principalmente nell’arcipelago delle Bermuda. Una pratica, quella di spostare i propri conti in una giurisdizione finanziaria agevolata, che le compagnie d’oltreoceano attuano anche all’interno del proprio territorio, in zone come Delaware o l’isola di Manhattan.

Non hanno torto, quindi, i governatori di Cayman e Isole Vergini Britanniche nell’affermare che una legge, come quella approvata dal Parlamento inglese, necessita di un lavoro congiunto tra Regno Unito e Stati Uniti, affinché la richiesta di maggiore trasparenza non ottenga l’unico effetto di spostare i fondi da un paradiso fiscale a un altro. 

Fonti e Approfondimenti

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