Balkans in arms: il ruolo dell’Islam in Bosnia-Erzegovina

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

L’Islam in Bosnia-Erzegovina ha una tradizione antica, che affonda le proprie radici nel periodo di dominazione ottomana. Dopo il conflitto nei Balcani e ancora di più dopo l’11 settembre, il Paese è entrato nell’immaginario occidentale come la fucina delle nuove cellule terroristiche etero-dirette prima da Al-Qaeda e poi dall’ISIS. Eppure, l’Islam nei Balcani, e in Bosnia in particolare, ha assunto dei caratteri propri, che lo differenziano dalla concezione mainstream.

Non potendo affrontare in modo approfondito il tema (per cui si segnala un interessante lavoro di Davide Denti), in questo articolo metteremo in evidenza alcuni tratti essenziali per meglio comprendere il fenomeno.

 

Un Islam secolarizzato

Il primo mito da sfatare riguardo all’Islam bosniaco è quello di un Islam trapiantato in epoca recente e con un “volto mediorientale”. Al contrario, la storia dell’Islam in Bosnia affonda le proprie radici nel XV secolo, quando tra il 1463 e il 1465 il territorio bosniaco cadde sotto la dominazione ottomana. La conquista da parte degli ottomani portò a una larga ma graduale conversione della popolazione all’Islam, poiché rappresentava la classe dirigente e garantiva privilegi. Nei fatti, ciò non comportò un cambiamento radicale, ma si tradusse nell’adottare alcune nuove pratiche islamiche senza andare a sconvolgere i riti familiari e la vita quotidiana pre-esistente. I musulmani bosniaci sono pertanto slavi, di origine e di “aspetto”.

Quattro secoli più tardi, con il Congresso di Berlino del 1878, nasce l’associazione tra etnia e confessione religiosa, che portò a identificare i serbi come ortodossi e i croati come cattolici, quando invece ci si trovava davanti a una popolazione attraversata da migrazioni, conversioni e matrimoni misti, che avevano notevolmente complicato la scena. Tale legame ebbe quindi due conseguenze principali: la prima fu che i bosniaci cattolici si identificassero come “croati” e i bosniaci ortodossi come “serbi”; la seconda che i bosniaci musulmani passarono da élite a minoranza, con conseguenti problemi riguardo alla propria identità nazionale. Inoltre, in ogni Paese balcanico precedentemente sotto dominazione ottomana, fu stabilita una Comunità islamica, strutturata secondo un modello gerarchico centralizzato e controllata dallo Stato.

L’inizio della secolarizzazione della popolazione musulmana avvenne pienamente con l’avvento dei regimi comunisti al termine della Seconda guerra mondiale, i quali decisero di integrare le comunità musulmane nell’ordine socialista, garantendogli diritti culturali e secolarizzandole. Il processo incluse la soppressione delle maggiori istituzioni islamiche: chiusura dei tribunali e delle madrasse, divieto del velo, interruzione delle relazioni con il mondo musulmano esterno. In seguito a questo processo di secolarizzazione, nel 1974 la nuova costituzione della Federazione jugoslava riconosceva la popolazione musulmana come popolo costitutivo della Jugoslavia (sotto il nome “Musulmani”), accanto a serbi, croati, sloveni, montenegrini e macedoni. Ciò permise alle Comunità islamiche di guadagnare più spazio di libertà, consentendo anche al governo di Tito di stabilire maggiori contatti con i Paesi musulmani non-allineati.

Il periodo comunista portò a grandi cambiamenti sociali: le élite tradizionali scomparvero, la secolarizzazione accelerò, l’analfabetismo si ridusse, si svilupparono nuove correnti laiche e secolarizzate all’interno delle comunità musulmane. L’Islam si mantenne quindi come pratica religiosa e come marcatore identitario, affiancato all’appartenenza sociale, familiare, regionale; la popolazione musulmana bosniaca divenne una delle più secolarizzate al mondo, dopo decenni di educazione laica e matrimoni mistiCiò ha fatto sì che negli anni Ottanta molti musulmani si dichiarassero tali solo perché seguivano una serie di tradizioni culturali, come per esempio l’adozione di un nome musulmano.

 

L’Islam politico e la “Dichiarazione islamica” di Izetbegovic

Il ruolo politico dell’Islam è principalmente legato alla corrente panislamista bosniaca, di cui la “Dichiarazione islamica” (Islamska Deklaracija) di Alija Izetbegovic costituisce una sorta di manifesto formale. Il documento, scritto nel 1969-1970 e poi ripubblicato nel 1990, si può considerare un trattato generale su politica e Islam, nel tentativo di conciliare progresso e tradizione islamica, in cui la Bosnia, in realtà, non è nominata. 

L’idea fondamentale della Dichiarazione è che il Corano permette la modernizzazione, ma al tempo stesso non può esserci modernizzazione senza radici nel Corano. Inoltre, è fondamentale sottolineare che Izetbegovic afferma che un governo islamico si può instaurare solo in un contesto di una società islamica, ossia dove la popolazione di musulmani sinceri e praticanti costituisce la maggioranza assoluta. In base a questa affermazione, tale modello non era applicabile alla Bosnia, dove i musulmani erano una minoranza in gran parte secolarizzata. Inoltre, il documento si allontana dall’immaginario del fondamentalismo islamico, tanto che Izetbegovic si oppone alla presa violenta del potere per l’imposizione dall’alto di una società islamica.

Con la rivoluzione iraniana del 1979, la paura del fondamentalismo islamico colse anche la Lega dei Comunisti, i quali utilizzarono strumentalmente la Dichiarazione come mezzo di propaganda per risvegliare le latenti ostilità dei serbi nei confronti dei musulmani, attraverso la creazione di una “minaccia islamica” di cui era necessario liberarsi con ogni mezzo.

In seguito all’acuirsi della contrapposizione tra identità nazionali all’interno della Jugoslavia, con conseguente rafforzamento delle rivendicazioni territoriali sulla Bosnia, il volto politico dell’Islam balcanico si tradusse nella fondazione nel 1990 del Partito di Azione Democratica (Stranka Democratske Akcije – SDA), in quanto “alleanza politica dei cittadini della Jugoslavia appartenenti alla sfera storico-culturale dell’Islam”. In Bosnia, lo SDA fu fondato dalla corrente panislamista, con presidente Izetbegovic, il quale si poneva l’obiettivo di rappresentare non solo i musulmani bosniaci ma anche tutti i musulmani jugoslavi, inclusi Kosovo e Sangiaccato (una regione storica al confine tra Serbia e Montenegro). Al tempo stesso, lo SDA bosniaco raccolse anche i principali attori del nazionalismo bosniaco-musulmano, che proponeva una Bosnia indipendente e a guida musulmana.

Lo SDA fece quindi un uso fortemente politico dell’Islam, in quanto la corrente panislamista fondò il partito attorno al quale gravitavano diverse correnti nazionaliste e con molteplici reti clientelari, le quali strutturavano la società musulmana. Eppure, programmaticamente, il partito non propose mai l’instaurazione di una repubblica islamica o l’imposizione della sharia, al contrario si presentava come favorevole all’economia di mercato e alla democrazia parlamentare secondo il modello occidentale. Quindi, malgrado le sue basi ideologiche, lo SDA non può definirsi un partito islamista, ma era a tutti gli effetti un partito nazionalista, in quanto ambiva alla sovranità politica della nazione musulmana.

 

Il conflitto e il tentativo di re-islamizzazione della Bosnia

Quando il destino della Jugoslavia pareva ormai chiaro, il progetto politico dello SDA si poneva come obiettivi la sovranità della nazione musulmana, l’indipendenza e l’integrità territoriale della Bosnia, e l’autonomia territoriale del Sangiaccato. Inoltre, il conflitto si presentò come l’occasione perfetta per re-islamizzare l’identità musulmana, per cui il partito e la Comunità islamica ne approfittarono per interpretare la guerra in termini religiosi. È da qui che nasce la narrazione delle vittime musulmane come martiri e delle aggressioni serbe o croate come nuove crociate, in quanto i serbi e i croati massacravano i musulmani perché erano musulmani.

Nacquero quindi le “brigate musulmane”, che dal 1993 combattevano in difesa della popolazione musulmana contro la nuova crociata cristiana. Nonostante l’azione di re-islamizzazione si rivelò controproducente, poiché di fatto l’Islam venne svuotato del proprio contenuto religioso, in questa fase si consolidarono i rapporti tra le popolazioni musulmane dei Balcani e quelle del resto del mondo musulmano. Se infatti quest’ultimo usciva scosso e diviso dalla guerra del Golfo, il conflitto bosniaco (privo di obiettivi strategici) si offriva come occasione per rinforzare il senso di solidarietà e di unità della umma.

Pertanto, il sostegno da parte del mondo musulmano si tradusse in sostegno finanziario, diplomatico, militare, attraverso un flusso di denaro, armi e combattenti provenienti da Afghanistan, Turchia, Egitto, Arabia Saudita e Iran. Il tutto accadeva sotto lo sguardo tollerante degli Stati Uniti, che decisero di appoggiarsi al sostegno esterno per aggirare l’embargo internazionale in atto sulla Bosnia. Tale supporto, però, fu spesso mal accolto dalle comunità musulmane locali, che temevano l’allontanamento dalla modernità europea e reticenti verso le correnti più puriste, come quelle salafite o wahhabite, importate dagli attori islamici esteri. Paradossalmente, la commistione tra più concezioni di Islam ha portato a una pluralizzazione e individualizzazione della fede: il tentativo di imporre il “vero” Islam ebbe quindi come conseguenza quella di specificare i tratti dell’Islam balcanico, lontano dalle correnti estremiste.

 

Le milizie islamiche durante la guerra e il rischio della radicalizzazione salafita

I combattenti islamisti che giungevano in Bosnia all’inizio operavano in piccoli gruppi, nei pressi di città come Zenica, con campi di addestramento in Bosnia centrale. A capo di queste milizie si pose il saudita Abu Abdel Aziz, che aveva accumulato esperienze in Afghanistan, nel Kashmir e nelle Filippine, dichiarando di non dipendere dallo Stato maggiore bosniaco. Nel 1992, le forze musulmane si fusero con il Settimo Battaglione di Zenica, formando la Settima Brigata musulmana dell’esercito musulmano, composto da volontari e da combattenti stranieri.

Durante gli anni della guerra, la presenza dei volontari salafiti non fu sempre ben accolta dai bosniaci e dalla Comunità islamica, poiché non condividevano la stessa concezione delle pratiche religiose, motivo per cui il salafismo non attecchì in Bosnia in modo spontaneo e capillare. Piuttosto, il gruppo si radicò nella popolazione attraverso matrimoni misti con i quali si otteneva un passaporto bosniaco, per risiedere in Bosnia anche al termine del conflitto.

A guerra conclusa, gli alleati occidentali dello SDA non tollerarono più la presenza dei mujaheddin e gli stessi Accordi di Dayton prevedevano una clausola secondo la quale tutte le forze straniere dovevano essere ritirate dal territorio bosniaco entro 30 giorni. I salafiti che non furono rimpatriati si stabilirono nel Paese e tentarono anch’essi di re-islamizzare la Bosnia secondo il loro modello, creando micro-società islamiche nella Bosnia centrale, senza però trasformarla in un’esperienza di larga scala o di lunga durata.

Infatti, il governo di Sarajevo mise in atto una strategia di repressione poliziesca contro chiunque fosse sospettato di appartenere a organizzazioni terroristiche o di fare proselitismo estremista, motivo per cui le comunità salafite furono sgomberate. Allo stesso modo, i combattenti che erano rimasti nel territorio nel circuito delle organizzazioni umanitarie, costituite per celare attività terroristiche, furono progressivamente individuati e arrestati.

Allo stato attuale, le piccole comunità salafite che permangono sul territorio si trovano in zone rurali, conducendo uno stile di vita lontano dalla società, e non ci sono prove o indizi che le identifichino come cellule dormienti o nuovi laboratori di estremismo. Di certo, ancora di più dopo gli attentati di Parigi e l’avvento dell’ISIS, sono diventati oggetto di diffidenza da parte della comunità e una sorta di capro espiatorio per i media e alcuni componenti della classe politica.

Ciò che è urgente affrontare, in Bosnia come in Europa, non è tanto l’identificazione del nemico, ma dei problemi socio-economici che possono portare all’estremismo. E in questo, come sempre, l’Unione europea dovrebbe svolgere un ruolo di primo piano, perché la forte presenza di attori come Turchia, Russia, Cina, e Arabia Saudita, può facilmente sfruttare l’instabilità politica della regione per creare situazioni di crisi in cui intervenire o in cui far valere i propri interessi.

 

 

Fonti e approfondimenti

Bećirević, Edina, “Policy brief: Bosnia-Herzegovina” Extremism Research Forum, settembre 2018.

Bobbio, Emanuele, “I fondamenti del pensiero jihadista” Lo Spiegone, 30/03/2016.

Denti, Davide, “L’evoluzione dell’Islam bosniaco negli anni ’90” Osservatorio Balcani e Caucaso, 15/12/2008.

Denti, Davide, “BOSNIA: Ma quale ISIS. La normalità europea dell’Islam balcanico” EastJournal, 23/04/2015.

Deregibus, Linda, “I sauditi e l’estremismo religioso” Lo Spiegone, 07/02/2018.

D’Urso, Dario, “Radicalizzazione islamista e fragilità politico-istituzionale in Bosnia-Erzegovina: due facce della stessa medagliaCentro Studi di Politica Internazionale (Dicembre 2018).

Hećimović, Esad, “La Bosnia nella lotta globale al terrorismo” Osservatorio Balcani e Caucaso, 05/03/2004.

Hećimović, Esad, “Mujaheddin in Bosnia” Osservatorio Balcani e Caucaso, 01/03/2004.

Hećimović, Esad, “L’Islam in Bosnia dopo l’11 settembre” Osservatorio Balcani e Caucaso, 15/03/2004.

La Forgia, Enrico, “I Madhahib della giurisprudenza islamica: le scuole di Hanafi e di Hanbali” Lo Spiegone, 06/05/2019.

Pleho, Eldina, “Wahabiti bosniaci” Osservatorio Balcani e Caucaso, 17/05/2010.

Sasso, Alfredo, “I salafiti di Bosnia-Erzegovina, quando gridare “al lupo” è sbagliato” EastJournal, 24/01/2018.

1 Comment on "Balkans in arms: il ruolo dell’Islam in Bosnia-Erzegovina"

  1. Bell’articolo, grazie.

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