Tra Washington, Bruxelles e Ankara: il ruolo di Mosca nello scacchiere libico

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@sconosciuto - President of Russia - Licenza: dominio pubblico

Il 13 gennaio, pochi giorni prima della Conferenza di Berlino, Haftar si è recato a Mosca per incontrare Putin. Il motivo ufficiale dell’incontro era convincere Haftar ad accettare la tregua già accettata dal rivale Serraj. Nonostante il generale della Cirenaica abbia lasciato Mosca senza sottoscrivere nulla, l’incontro ha reso evidente il peso di Mosca nel complicato scacchiere libico. Dalla Siria alla Libia, negli ultimi anni, infatti, la Russia si è mossa per  aumentare la propria influenza in Medio Oriente, sfruttando a proprio vantaggio le incoerenze di Stati Uniti ed Europa e la frammentazione dei diversi attori regionali e locali.

Gli errori di Washington e Bruxelles nel conflitto libico

Tra le tante ragioni che hanno portato a una forte presenza russa in Libia, vi sono sicuramente le scelte occidentali nella gestione della crisi. In particolare, l’atteggiamento spesso incoerente degli USA in Libia e l’incapacità europea di fare fronte compatto. 

All’inizio del conflitto nel 2011, Obama fu tra i principali sostenitori della Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Una volta approvata la risoluzione, gli Usa divennero il coordinatore e il partecipante principale dell’operazione “Unified Protector”. La missione NATO, volta a eliminare le contraeree nemiche e a creare una no-fly-zone, si rivelò un successo e fu fondamentale per rovesciare il regime.

Conclusosi così il primo conflitto civile, in Libia sono state assenti truppe di terra occidentali nel periodo immediatamente successivo: nell’idea di Obama e dei leader europei, la crisi libica sarebbe stata risolta da nuove elezioni e dalla formazione di un governo provvisorio. Tuttavia, l’assenza di forze di polizia locali e di militari occidentali hanno favorito lo scoppio di diversi scontri tra le milizie locali. Questi fattori, uniti alla debolezza del Congresso Generale Nazionale, nuova autorità nazionale, hanno spianato la strada a diverse sigle islamiste.

Nel settembre 2012, un commando di Ansar al-Sharia (affiliato ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico) attaccò l’ambasciata statunitense di Bengazi. L’attacco, in cui morirono l’ambasciatore Stevens e tre agenti di sicurezza, suscitò lo sdegno dell’opinione pubblica americana. Il Presidente Obama, temendo il giudizio dell’opinione pubblica e spaventato dall’ipotesi di “un altro Iraq”, continuò a limitare le operazioni Usa a missioni di antiterrorismo.  Dal 2017, con l’inizio della presidenza Trump, la linea guida è rimasta  la stessa, con un coinvolgimento circoscritto sul piano militare alla lotta al terrorismo e su quello diplomatico all’appoggio politico del governo di Tripoli.

La condotta degli Usa rispetto alla crisi libica, avrebbe in teoria lasciato margine di manovra politica all’Ue. Tuttavia, una serie di fattori sia interni sia esterni hanno impedito la creazione di un fronte comune e impossibilitato un approccio unitario alla crisi. Nonostante la partecipazione di diverse nazioni europee alla missione internazionale del 2011, il periodo post-Gheddafi è stato caratterizzato da una politica dell’Ue spesso caotica. In un momento di crisi interna dovuto alla pressione della crisi migratoria e delle destre sovraniste, l’Ue ha dato priorità alla gestione dei flussi dei migranti rispetto alla pacificazione del Paese. Le azioni concrete  dell’Ue  si sono limitate dal punto di vista militare a una serie di operazioni navali tra Italia e Nord Africa. La prima, “Operazione Triton”  (“Sophia” dal 2015), iniziata nel 2013 e a guida italiana, prevede soprattutto mansioni di soccorso e pattugliamento. A quest’iniziativa è seguita l'”Operazione  Themis” del 2018, con le stesse funzionalità ma allargata anche alla rotta tra Turchia e Grecia.

Sul piano diplomatico, invece,  l’UE si è fatta sponsor di una lunga serie di incontri e meeting, che finora hanno impattato poco la situazione sul campo. Gli esempi più recenti sono l’incontro a Palermo nel 2018, conclusosi con un rinnovo del precario embargo internazionale sulle armi introdotto nel 2011, e il recente meeting di Berlino. Sebbene uno dei meriti della conferenza, e della Merkel in particolare, sia stato quello di riunire tutti gli attori internazionali coinvolti nel conflitto e spingerli a firmare un accordo di 55 punti in cui si ribadisce la necessità di porre fine al conflitto, non vi sono provvedimenti specifici né menzioni riguardo al ruolo di Russia e Turchia nella recente escalation. Inoltre, sebbene Haftar e Serraj abbiano accettato di far parte di un comitato militare congiunto per monitorare lo smantellamento delle milizie libiche, non è previsto nessun meccanismo di applicazione per ridurre il rischio che gli impegni presi non vengano rispettati. Non vi è nessuna certezza che la parola data a Berlino dalle varie forze coinvolte nel conflitto si tradurrà in un reale ridimensionamento dell’interferenza esterna nell’intricato scenario libico.

La Russia come principale sostenitore di Haftar

Fin dallo scoppio della seconda guerra civile Libica nel 2014, la posizione di Putin è stata quella di ritagliarsi un ruolo in Libia, riempiendo il vuoto lasciato da USA e Ue. Da sempre interessata a trovare un appoggio economico-strategico nel Mediterraneo, la Russia ha individuato nella Libia un’importante opportunità in questo senso. Inoltre, un’eventuale vittoria della strategia russa in Libia andrebbe a influenzare anche le relazioni Russia-Ue. Controllare uno dei Paesi chiave per l’approvvigionamento energetico dell’Unione e per il controllo dei flussi d’immigrazione, risulterebbe una mossa vincente per Putin nell’ottica di una rinegoziazione delle sanzioni imposte dopo la crisi in Crimea.

Benchè sia ufficialmente sostenitrice del piano di pace delle Nazioni Unite e diplomaticamente vicina a Serraj, la Russia è soprattutto tra i principali sponsor di Haftar. Il generale della Cirenaica, infatti, ha da sempre ottenuto l’appoggio economico, politico e militare del Cremlino, sia perché in controllo dell’80% del greggio, sia perché poco supportato dai Paesi Ue, a eccezione della Francia. Nel 2016, per esempio, Mosca provvide alla stampa (su suolo russo) e alla consegna a Bengazi di 200 milioni di dinari in banconote e l’anno successivo, la Zecca di Stato russa coniò una cifra simile in monete di rame. La decisione di coniare e distribuire dinari libici nell’Est del Paese arrivò come risposta alla società britannica De La Rue, accusata di aver stampato denaro a favore di Tripoli.

Negli anni successivi, Putin è stato tra i principali sostenitori di Haftar anche sul piano militare. Fin dalle prime fasi del conflitto, la Russia ha inviato materiale bellico e consiglieri militari in Cirenaica. Ai fini di aggirare l’embargo sulle armi delle Nazioni Unite, ed evitare quindi tensioni con l’Occidente, Egitto ed Emirati Arabi Uniti sono stati coinvolti come tramiti. Con l’inizio dell’offensiva su Tripoli nell’aprile del 2019, gli aiuti di Putin si sono fatti sempre più concreti, passando dall’uso iniziale di droni e invio di esperti consulenti militari,  all’invio di mercenari.

Da novembre, infatti, sono state ritrovate sempre più vittime con ferite corrispondenti ai proiettili usati dai cecchini del Wagner Group. Quest’ultima, è un’agenzia di contractors controllata da Yevgeny Prigozhin, collaboratore e amico stretto di Putin, divenuta celebre durante la guerra in Ucraina. Secondo il Governo di Autorità Nazionale, il ritrovamento di corpi con fori di entrata stretti  e nessun foro di uscita si è fatto frequente. Questo tipo di ferite, sarebbe una prova della presenza di cecchini russi tra le fila di Haftar. Diversi analisti riportano come il numero di soldati russi dispiegati, fino a ora 200 unità, è destinato ad aumentare nei prossimi mesi in risposta ad Ankara.

Grazie anche ai legami con altre potenze coinvolte, come Turchia ed Egitto, la Russia è riuscita a ritagliarsi un crescente ruolo anche dal punto di vista diplomatico: l’intervento di Mosca ha avuto, ad esempio, un ruolo fondamentale nel convincere entrambi i leader libici a partecipare alla conferenza di Berlino. Tuttavia, entrambe le parti possono contare sull’appoggio di altri attori esterni, come la Francia nel caso di Haftar, rendendo impossibile una totale dipendenza politica da Mosca.

Conclusioni

Inoltre, le relazioni di Putin, nello specifico quella che lo lega a Erdogan, hanno favorito la diplomazia russa anche con Tripoli. Infatti,  più volte, Erdogan e Putin hanno coordinato i loro sforzi diplomatici in sede internazionale, facendo pressioni sulle due fazioni. Diversi analisti considerano le relazioni tra Erdogan e Putin come un efficace strumento per contrastare le potenze occidentali in Medio Oriente. Come avvenuto in Siria, le strategie parallele di Turchia e Russia sembrano indirizzate verso una virtuale divisione della Libia in zone d’influenza, vista l’ambizione e gli interessi economici nel Paese di entrambi gli attori. Tuttavia, la recente escalation a Idlib in Siria, dove le forze siriane sostenute da Putin hanno inflitto gravi perdite (si parla di otto morti) alle truppe turche presenti sul territorio, potrebbe rappresentare motivo di attrito tra le due potenze.

 

Fonti e approfondimenti

Badi E., “Russia is capitalizing on the west’s failures in Libya”, The Moscwo Times, 18/12/2019.

Bongiorni R., “La guerra delle due monete nella Libia spaccata a metà”, Il Sole 24 Ore, 20/10/2017.

Cafieri G., “Russia’s impact on the spiraling Libyan conflict”, TRTWorld, 13/12/2019.

Candar C., “Escalation in Syria and Libya tests limits of Erdogan-Putin ties”, al-Monitor, 04/02/2020.

Kirkpatric D., “Russian snipers, missiles and warplanes try to tilt libyan war”, The New York Times, 7/11/2019.

Kuperman A., “Obama’s Libya debacle”, Foreign Affairs, marzo-aprile 2015 (volume 94, n°2).

Mickhelidze N., “Libia: Italia in disparte, la Russia consolida l’influenza”, Affari Internazionali, 5/07/2019.

Semenov K., “Will Russia, Turkey launch Syria scenario for Libya?”, al-Monitor, 03/01/2020.

Suchkov M., “Russia’s leading from behind strategy in Libya”, al-Monitor, 21/01/2020.

Tierney D., “The legacy of Obama’s worst mistake”, The Atlantic, 15/04/2016.

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